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Wayne Rooney, l'eroe della gente

Wayne Rooney, l'eroe della gente

Il ritorno all'Everton non è stato finora ricco di soddisfazioni e al Mondiale non dovrebbe partecipare, ma a trentadue anni l'attaccante di tanti record rimane un simbolo per chi è attaccato a una certa idea di calcio inglese

Stefano Olivari

03.11.2017 16:40

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Il prossimo Mondiale lo giocherà sul serio o attraverso l’amatissima Playstation? Wayne Rooney pare non avere dubbi: la sua ultima partita con la nazionale inglese rimarrà quella numero 119 (solo Peter Shilton ha più presenze, con 125, ma per un portiere è più facile), l’11 novembre del 2016 contro la Scozia. Questione di orgoglio, perché a marzo di quest’anno Southgate non lo ha convocato e Rooney, che stava vivendo un difficile momento la Manchester United dove Mourinho non lo considerava, l’ha presa malissimo. Così quando la scorsa estate il commissario tecnico inglese gli ha lanciato segnali di disgelo, appena dopo il ritorno all’Everton, Rooney l’ha preso in contropiede annunciando il suo ritiro dall’attività per nazionali dopo tre Mondiali e tre Europei disputati. Da qui alle convocazioni per Russia 2018 tutto può comunque ancora accadere, perché Rooney è decisamente il più amato giocatore inglese e ad un suo segnale i media si scatenerebbero compatti.

Certo è che nel suo Everton, lasciato per lo United dopo l’Europeo del 2004, Rooney ha ritrovato sensazioni perdute senza uscire dai radar della stampa londinese, che viviseziona ogni parola ed ogni uscita di lui e di sua moglie Coleen, personaggio pop come e più di Rooney. Per descrivere il loro rapporto e la loro onnipresenza sui media britannici non c’è bisogno di ricerche d’archivio, vista l’ennesima crisi vera o presunta che stanno vivendo. In pratica Rooney, fra un ritiro della patente e l’altro, non vede di buon occhio il fatto che Coleen vada in vacanza da sola con i tre figli (e il quarto in arrivo) Kai, Klay e Kit, e che in generale faccia di tutto per tenerli lontani dal padre. Questa almeno è la narrazione giornalistica, perché in realtà i Rooney sembrano una bella famiglia e padroni del gioco senza nemmeno fingere di appartenere a una classe sociale diversa dalla loro. Sì, perché entrambi rappresentano la working class inglese come nessuno: non perché non esistano altri calciatori con il padre muratore (quello di Coleen) o disoccupato cronico (quello di Wayne), ma perché loro non vogliono sembrare ciò che non sono. Fra libri e programmi televisivi, la professione di Coleen è fare Coleen, mentre Rooney non ha mai voluto fare Beckham e non solo perché gli mancava la faccia giusta: impensabile anche soltanto pensarlo fuori da un contesto inglese.

Entrambi di Liverpool, Wayne e Coleen si sono conosciuti sui banchi di una scuola da lui frequentata di malavoglia, e fra alterne vicende non si sono mai lasciati. Il gossip è però nel loro caso meno interessante di quanto chi va in campo nel calcio inglese rappresenti davvero chi sta in tribuna, al pub o a casa davanti a un televisore con un futuro precario (il tifoso, non il televisore). L’Everton attuale, un po’ in mezzo al guado dopo l’esonero di Ronald Koeman, ha scelto una strada diversa rispetto alla maggioranza dei club di Premier League: oltre a Rooney ci sono infatti altri cinque inglesi (Pickford, Baines, Keane, Davies e Calvert-Lewin) che possono essere considerati titolari più Ross Barkley che senza infortunio sarebbe stato sempre in campo e altri (Kenny, Holgate, Lookman), con un impiego significativo. Non solo, ma Rooney, Barkley, Davies, Baines e Kenny sono di Liverpool.  Una scelta ben precisa, in un calcio inglese che sta cercando di ritrovare la sua identità e che con il fantastico 2017 delle sue nazionali giovanili ha lanciato un segnale importante.

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