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Intervista al Presidente Saverio Sticchi Damiani
«Io non ragiono con l’ottica del tifoso. Il tifoso è chi conta i punti. Io mi emoziono. Io cerco l’emozione nell’atto». Quando l’intellettuale mondo Carmelo Bene proferiva tale pensiero alla platea di calciofili italiani quasi trent’anni fa, non sapeva di riassumere la filosofia calcistica di un ambiente geograficamente – e spiritualmente – a lui vicino: quello dei tifosi dell’Unione Sportiva Lecce, che non hanno mai ragionato con l’opportunismo delle azioni, ma per le idee dell’atto. Un modus vivendi incarnato alla perfezione dal Presidente del club salentino: Saverio Sticchi Damiani, una delle guide più giovani e autorevoli della Serie A. Avvocato, docente universitario, giallorosso fino al midollo, rappresenta un gancio col gioco romantico di un tempo, dove alla guida delle società vi erano grandi capitani carismatici dell’industria e del professionismo nostrano. L’atto del primo tifoso leccese è il rispetto delle regole, con la pratica di un calcio senza debiti, che si muove in tutta lealtà nel raggio di manovra possibile, per coltivare giovani talenti e imporsi come catalizzatore della crescita socioeconomica dell’intero Salento. Al suo fianco vuole gente di valori, che rispettano una fede, una terra, senza mai tradirla. Più che vendere fumo, Sticchi Damiani predica il salto di mentalità del suo popolo, invocando la modernizzazione del micro-universo attorno al club. Pragmatismo nelle scelte, eleganza dei toni espressi via etere, passione irrefrenabile riversata in ogni stadio dello Stivale: un amore cominciato tra i gironi infernali della Serie C, dieci anni fa, quando il calcio stava per scomparire dalla città barocca. Dalle macerie dei debiti risanati, ai campionati della scalata, con le promozioni dalla cadetteria fino alla massima serie, laddove il lupo salentino è un modello di virtuoso calcio fuori dalle metropoli e dai fondi di investimento. Sticchi Damiani è il presidente più vincente in Serie A della storia del Lecce (ha superato i presidenti Corrado Iurlano e Mario Moroni), e grazie alla sua figura carismatica, la società gode del rispetto politico in Figc e Lega. Il club pugliese è ormai nei radar delle big europee come fucina di talenti – le plusvalenze di Morten Hjulmand e Patrick Dorgu con Sporting Lisbona e Manchester United docet. Ca la vera cultura è cu sai vivere (la vera cultura è sapere vivere), cantano i Sud Sound System ne Le radici ca tieni, il mantra del primo tifoso più ammodo e appassionato del calcio italiano.
Più di dieci anni fa, quando il vostro gruppo societario ha sventato l’incubo del fallimento del Lecce e la scomparsa di conseguenza del club, ricostruendo dalle macerie in Serie C, si sarebbe immaginato questa scalata fino alla terza Serie A consecutiva?
«Dentro di me avevo una visione, ma sarebbe presuntuoso dire che avevo la certezza di raggiungere quello che abbiamo oggi. Conosco quanto il calcio sia difficile e spietato. Uno può impegnarsi al meglio, investire delle risorse personali, organizzare tutto nel migliore dei modi, poi magari c’è un palo, una traversa, un errore arbitrale, un errore dell’attaccante, che può compromettere un intero progetto. Specie quando devi costruire in situazioni di grande difficoltà, come la Serie C, dove quel dettaglio può determinare il tutto o il niente. Ho vissuto quegli anni nell’inferno sapendo che non si poteva costruire chissà che cosa, ma erano dei tentativi, perché in categorie simili puoi provarci due o tre volte a vincere, poi se non vinci sei destinato a cambiare obiettivi. Ogni anno quella posta in palio così alta generava in me una pressione enorme, che si è alleggerita in Serie B e poi in Serie A».
Lei è il presidente più vincente della storia del Lecce in Serie A. Qual è la vittoria che custodisce con maggiore orgoglio?
«La vittoria più emozionante è Monza-Lecce 0-1, della stagione 2022-23, che ha decretato la nostra salvezza con Baroni. Un concentrato di sensazioni forti, un film nella partita, perché si è passati dal rischio della retrocessione alla salvezza: prima il rigore parato da Falcone al Monza e poi il nostro rigore segnato da Colombo, all’ultimo respiro, forse uno dei peggiori rigori calciati, centrale rasoterra. Era destino dovessimo prenderci la salvezza nella porta sotto la curva dei nostri tifosi. La scena dell’allenatore che si inginocchia, quello che ho sentito dentro: ne ho avute emozioni in questi anni, ma quella è stata gigantesca».
In un calcio sempre più impersonale, con fondi d’investimento stranieri che se ne fregano della tradizione, pensando solo al guadagno, cosa rappresenta il modello Lecce per la Serie A e per il vostro territorio?
«Il nostro modello deve prendere tutto il meglio che una realtà di provincia può offrire, con i suoi pregi, cercando di evitare i difetti. Se la provincia significa una dimensione umana, familiare, un contatto con la gente, sono elementi che impreziosiscono una realtà. Poi ci sono elementi per i quali la provincia si trasforma in provincialismo e questa è una condizione che ti impedisce di crescere. La ricetta del nostro modello è di essere provinciali per i valori di questo sport, ma avere una visione di ampio respiro, che significa un’attenzione verso gli altri, con il tema della sostenibilità che affrontiamo da molti anni. E poi temi che riteniamo fondamentali a livello sportivo: il settore giovanile, la capacità di essere considerati credibili all’interno delle istituzioni calcistiche. Il nostro segreto è questo, essere provincia senza essere provinciali, con una visione, che ci sta portando lontano. Investiamo sui giocatori di proprietà, abbiamo un monte ingaggi basso e dalla primavera portiamo in prima squadra diversi elementi. Un modello oggi che oggi ci viene riconosciuto anche all’estero».
Ragionando sulla programmazione, come immagina il suo club tra dieci anni?
«Mi immagino il Lecce che gioca in uno stadio ultramoderno, con un centro sportivo all’avanguardia, che ospita i calciatori per gran parte della giornata. E poi immagino una tifoseria che ha l’orgoglio di vivere nel profondo sul Sud un processo di modernizzazione che può essere da traino per tutto il territorio».
Lei ha avuto l’abilità di riportare a Lecce un dirigente di razza, Pantaleo Corvino, maestro nello scovare giovani talenti e rafforzare il patrimonio del club. Qual è la dote più grande di Corvino che magari in pochi conoscono?
«Pantaleo è un manager che ho voluto fortemente, nonostante qualcuno mi disse che il suo percorso fosse finito per l’età. Quando l’ho preso ero certo che avremmo viaggiato su itinerari straordinari per il club, perché nel chiacchierarci lo trovavo sul pezzo, motivatissimo, brillante. E in questi cinque anni ce ne ha dato prova. Un aspetto che nessuno conosce è che noi viviamo di dettagli. Io e lui ci confrontiamo a volte per un’ora su un aspetto della comunicazione, su un cambio dell’allenatore della prima squadra o della primavera. Lui ci ha trasmesso questo: viviamo nel cercare di approfondire i dettagli. Lui ha estro e genialità nello scoprire i giocatori, ma si nutre, analizza e viviseziona i dettagli come un direttore all’inizio della carriera. Ha l’approccio e l’entusiasmo dei giovani».
C’è una figura del mondo del calcio che da ragazzo l’ha fatta innamorare di questo sport?
«Come idee, parlando della componente calcistica pura, a me ha sempre affascinato la figura di Arrigo Sacchi. Dal punto di vista dell’umanità e della personalità, oggi ho scoperto un allenatore, Marco Giampaolo, che oltre a praticare ottime idee in campo, trasmette dei valori poco frequenti nel calcio. Lui in passato non è stato capito da questo ambiente, a causa della deriva che ha raggiunto nel valutare le persone. La sua discrezione, la sua umiltà, la sua capacità di abbassare i toni senza sbandierare il suo lavoro, rappresentano un profilo che condivido. Lavorare silenziosamente è una capacità della quale possono fregiarsi in pochi».
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