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Elogio della follia in panchina: reazioni iconiche degli allenatori nel calcio© LAPRESSE

Elogio della follia in panchina: reazioni iconiche degli allenatori nel calcio

Arrabbiati, ironici, scoraggiati, contenti, esultanti, nulla sfugge all'occhio dei tifosi. Ecco la hit parade dei gesti fatti dagli allenatori in panchina, quando si lasciano andare

Annibale Gagliani

27.10.2023 14:56

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La filosofia del gesto per un mister ha svariate forme. Può sembrare la pazzia del momento, invece dietro a una corsa kamikaze, il lancio di un oggetto simbolico o la mimica beffarda si nasconde l’atto: per la squadra, i tifosi, gli avversari. 10 gesti iconici, frammenti di pop art prestata al pallone. 10 allenatori stagliati nei cuori degli appassionati outside the box – coloro per cui il colpo di teatro è tutto e lo spiazzamento collettivo è l’unica cosa che conta. Senza il condimento della follia non può esistere piacere alcuno, osserva Erasmo da Rotterdam. I casi a seguire ne confermano l’idea.

10. Il lancio della cravatta da parte di Massimiliano Allegri, verso il gong finale dell’ultimo Milan-Juventus, è l’allarme decisivo per i suoi calciatori, immersi in un torpore pericoloso sullo 0-1 con l’ulteriore vantaggio della superiorità numerica. Melina inspiegabile per le zebre: gigioneggiare senza concreti motivi per farlo, traccheggiare davanti la porta, Vlahovi? e Federico Chiesa con le polveri bagnate, rispettare il competitor fino ad evitarne il knock out. Il diavolo è lì, vivo e sorpreso, Rafael Leão in agguato, pronto a ribaltare l’azione sui sessanta metri e pareggiarla. Allegri decide, come Dylan Dog in preda all’avventura, di salutare Groucho e abbandonare la postazione d’ufficio, per combattere a mani nude i fantasmi perenni della sua Juve: cravatta sbattuta al suolo, un Giuda ballerino di troppo, ma in sostanza il corto muso preservato.

9. Un monito leggermente più elegante di quello dato da Antonio Conte alla sua Nazionale durante l’ottavo Italia-Spagna a Lione: il pallone transita verso l’area tecnica, il CT leccese lo scaraventa in orbita con una violenza inaudita. I maestri della roja stavano per prendere le misure agli azzurri, che non riuscivano più a pressare in maniera compatta. Il tiro da meta di Conte risulta decisivo: stimola il 2-0 finale per l’Italia, in una delle prestazioni più belle di sempre tra le teche di Coverciano. Perché rievocare costantemente il discorso motivazionale di Al Pacino in Ogni maledetta domenica quando può bastare un singolo gesto?

8. Come lo sventolare una scarpa in mano, rievocando gli inseguimenti materni per la ramanzina dopo un guaio combinato da piccoli: gesto di Davide Nicola al culmine di Salernitana-Fiorentina, il simbolo di una sveglia data ai suoi uomini, capaci di salvarsi nella Serie A 2021-22, nonostante il 7% di probabilità del girone di ritorno.

7. Dal profano al sacro: Mondiali del 2002 di Corea e Giappone: nulla può l’acqua santa di Giovanni Trapattoni, donatagli in una boccetta da una suora sua intima amica. Versare gocce di liquido benedetto a bordo campo per sovvertire gli eventi negativi: l’influenza dei dirigenti coreani – in uno dei tornei più corrotti della storia – e la terrificante direzione di gara di Byron Moreno. Il Trap viene travolto dagli spiriti maligni vestiti con le maglie bianche e rosse dei padroni di casa, guidati dal santone Guus Hiddink, vincitori ai supplementari per 2-1 grazie al golden gol del carneade Ahn Jung-hwan. Sant’Agostino afferma che Una fede che non fosse pensata non è niente. L’acqua santa del Trap è un atto di fede pensato.  

6. Trasmettere un’energia che trascende la paura di vincere: è l’intenzione di Hector Cuper, mister del Biscione, quando dà una pacca sul petto a ogni singolo giocatore dell’undici titolare all’uscita del sottopassaggio prima di Lazio-Inter, 5 maggio 2002, la sfida decisiva per lo scudetto. Col senno di poi, l’emulazione di Don Chisciotte insieme a una schiera di Sancio Panza vestiti di nerazzurro, sconfitti dai mulini a vento biancocelesti.

5. Gli interisti si rifanno otto anni dopo, col gesto per eccellenza nell’immaginario bauscia: le manette di José Mourinho, mimate a favore di camera durante Inter-Sampdoria, il 20 febbraio 2010. Le decisioni arbitrali di Tagliavento portano i nerazzurri a restare in 9 contro 11, scatenando il guru portoghese, che solleva le mani come fosse in arresto. “Per farmi perdere, devono arrestarmi”, dice a fine partita, sugellando uno 0-0 eroico. È l’inizio della sindrome di accerchiamento che Mou istilla nel suo spogliatoio: adrenalina pura che porta l’Inter ad agguantare il triplete: In ogni caos c'è un cosmo, in ogni disordine un ordine segreto, scrive Carl Gustav Jung, sembra la descrizione di quei giorni alla Pinetina.

4. Irriverenza e genialità che ritroviamo in Rudi Garcia allo Juventus Stadium, nella baraonda di uno Juve-Roma d’alta classifica a settembre del 2014. Il tecnico francese è contrariato per i due calci di rigore assegnati ai bianconeri, decisivi nel 3-2 finale, e allora si traveste da Molière: inscena all’arbitro Rocchi la suonata di un violino con una maestria mimica da proscenio: da Opéra de Paris, per l’esattezza.

3. Una reazione ironica, diametralmente opposta a quella di Emiliano Mondonico, al momento verità della finale di Coppa Uefa Ajax-Torino, dopo che i granata si vedono negare un rigore netto con il risultato in bilico: il Mondo solleva una sedia come gesto di protesta, ricordando i quadretti dell’Italia popolare di Giovannino Guareschi.

2. A volte un gesto può schernire l’avversario più titolato, vedi Diego Simeone all’epilogo di Altetico Madrid-Juve 2-0, del febbraio 2019, col suo richiamo agli los huevos, dimostrando alla tribuna di avere gli attributi e poco importa se dinanzi c’è sua maestà Cristiano Ronaldo. Un mese più tardi, però, l’inerzia si ribalta: CR7 segna una tripletta a Torino, eliminando dagli ottavi di Champions il Cholo e restituendogli il gesto inelegante (eseguito con maggiore foga in faccia ai tifosi colchoneros). Il peso della morale, episodio che troverebbe spazio tra le pagine dei romanzi di Roberto Bolaño.

1. Il gesto più iconico di tutti di un mister nel mondo del calcio resta ‘la’ corsa: la riposta di Trastevere a Forrest Gump: Carletto Mazzone che si fionda come una cometa infuocata verso la curva dei tifosi bergamaschi – rei di aver insultato per l’intera gara le donne della sua famiglia – nel magma di un Brescia-Atalanta 3-3. Roberto Baggio e compagni soccombevano per 1-3, poi la rimonta: l’eruzione: la folle libertà di chi muore e rinasce ogni settimana in panchina. E se esiste un paradiso degli allenatori, non c’è da stupirsi che Sor Magara possa fendere i cieli urlando a squarciagola per la salvezza della provincia. Un gesto, l’atto: romanticismo nella sfera di gioco.

Fuori classifica, come il suo protagonista del resto, un atto senza eguali, compiuto da uno personaggio scomodo, unico nel suo genere: Zdenek Zeman. 29 maggio 2005, Serie A, spareggio salvezza thrilling tra Lecce e Parma (3-3 e montagne russe d’emozioni, per la cronaca). Il mister boemo rifiuta di assistere alla fase finale del match, posizionandosi dietro la panchina, dando le spalle al campo. Il motivo del dissenso è controverso: la sua convinzione che la partita fosse oggetto di combine. Prendere le distanze dagli uomini con i quali si è sudato e sputato sangue in stagione, e addirittura dal club, che ha creduto in un progetto esaltante. Mentre tiene tra le labbra una sigaretta finta, per il divieto di fumo in panchina, Zeman forse pronuncia più e più volte una citazione di Dostoevskij da Memorie del sottosuolo, sentendosi un allenatore all’angolo con l’ombra lunga di Moggi: Io sono solo… e loro invece sono tutti.

 

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