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Il mistero di Pelé© Getty Images

Il mistero di Pelé

Addio alla prima vera icona mondiale del calcio, scomparsa a 82 anni: tre Mondiali, la perfezione tecnica e l'intelligenza fuori dal campo lo hanno reso inarrivabile. Il sorriso per tutti e le buone maniere erano la sua corazza...

Stefano Olivari

30.12.2022 ( Aggiornata il 30.12.2022 11:23 )

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Pelé è sempre esistito, per la maggior parte di noi. Troppo giovani per aver visto giocare il vero Pelé ma abbastanza vecchi perché facesse parte del nostro linguaggio corrente: “Ma chi ti credi di essere, Pelé?”. Un mito più mondiale che brasiliano, nonostante abbia passato tutta la carriera al Santos, prima dei tre anni ai Cosmos. Perché per i brasiliani il campione del popolo era Garrincha, mentre Pelé essendo quasi la perfezione alla fine veniva percepito come troppo lontano. Senza contare il fatto che il Santos, anche il suo grande Santos con Gilmar, Mauro, Zito, Coutinho e Pepe, due Libertadores e due Intercontinentali, non era certo fra le squadre brasiliane più amate.

Un dettaglio per il resto del mondo che in un’epoca già televisiva, ma prevalentemente in bianco e nero, lo ha conosciuto soprattutto per i tre Mondiali vinti da protagonista. Svezia 1958, quando fu convocato da minorenne, oltretutto infortunato: guarì in tempo per diventare titolare nell’ultima partita del girone, contro l’Unione Sovietica, ed incantare tutti, soprattutto nella semifinale con la Francia (tre gol) e nella finale con la Svezia (due). Diventando la prima icona sportiva planetaria con la pelle nera, forse il suo titolo più importante. Ed anche la prima icona planetaria del calcio, grazie alla televisione che si era persa molto del miglior Di Stefano, per non parlare di Meazza e di tutti gli altri fenomeni nelle rispettive epoche. 

Nel 1962 altra Coppa Rimet, iniziata con ben altro status: partita fantastica contro il Messico e poi un infortunio muscolare contro la Cecoslovacchia, che lo tenne fuori fino alla fine, regalando il posto ad Amarildo e l'attenzione mediatica a Garrincha. Che in realtà non fu mai suo rivale e non soltanto perché i ruoli erano diversi: Garrincha era il calciatore-calciatore, fragile appena uscito dal campo, Pelé è sempre stato consapevole di essere Pelé. Nato non in miseria, come vuole la leggenda, ma certo senza grande agi. Un ambiente modesto che però lo ha spinto a migliorarsi anche fuori dal campo: anche Pelé è stato vittima di truffe e raggiri, ma al contrario di altri campioni ne ha tratto utili lezioni.

Il Brasile del 1966 era potenzialmente il più grande di tutti, saldando Gilmar, Djalma Santos ed ovviamente Pelé ai Jairzinho, Tostão e Gerson. Pelé iniziò bene contro la Bulgaria, anche se fu massacrato di falli e dovette saltare la partita successiva. Contro il Portogallo di Eusebio stesso trattamento, con il fallo di João Morais passato alla storia come il fallo più violento nella storia della Coppa del Mondo. Eliminazione con rabbia, annunciando che quello sarebbe stato l’ultimo Mondiale, poi per fortuna il ripensamento prima dell’apoteosi del 1970, in finale sugli azzurri.

Prima del Mondiale 1974 voci su un suo clamoroso rientro nella Selecão, ma Pelé non volle rovinare il proprio mito e quel Brasile molto solido si arrese soltanto alla grande Olanda di Cruijff. Poi sul gran rifiuto del 1974 circolano anche altre versioni. Una dello stesso Pelé, ma fuori tempo massimo, 25 anni dopo: Pelé sostenne che non aveva voluto partecipare al suo quinto Mondiale per non essere identificato con la dittatura militare che governava il Brasile. Una spiegazione poco convincente, visto che la dittatura nel 1966 e nel 1970 era la stessa e Pelé aveva risposto sì alle convocazioni. Più credibili le voci di suoi dissidi con João Havelange, che proprio in Germania sarebbe diventato presidente FIFA al posto di Stanley Rous, perché il suo presidente federale aveva venduto i diritti commerciali sull’immagine di Pelé senza il consenso del giocatore.

Di sicuro il Pelé icona ha avuto mezzo secolo per superare il Pelé calciatore e bisogna dire che c’è riuscito, da grandissimo piazzista di sé stesso. Ministro dello sport sotto la presidenza Cardoso, ha cercato di combattere la corruzione nei limiti in cui questo è possibile nel calcio sudamericano, trovando sulla sua strada diversi nemici, due su tutti: Havelange ed il genero, successore a capo del calcio brasiliano, Ricardo Teixeira. Migliori i rapporti con Blatter, invece, che lo aveva rimesso nel circuito dei grandi eventi come sorteggi mondiali e cose del genere. Il Pelé di quest’epoca, fra il ruolo per le Nazioni Unite ed altre comparsate, è stato meno divisivo.

Certo è che fra mille biografie, film, documentari e rievocazioni varie, nessuno forse è mai riuscito a comprendere la vera essenza di un uomo che indossava il sorriso come una maschera ma che fin dall’infanzia aveva dovuto reggere pressioni enormi. Su tutte quella del padre Dondinho, ex ottimo attaccante del Fluminense con carriera stroncata da un’entrata di Augusto, che qualche anno dopo sarebbe stato il capitano del Brasile nel giorno del Maracanazo, cioè la sconfitta del Brasile nella partita decisiva (non era una finale, si chiudeva con un girone) del Mondiale 1950. Una partita che un Pelé di 10 anni ascoltò alla radio insieme al padre, piangendo per quella tragedia sportiva e giurandogli che il Brasile sarebbe diventato campione del mondo con lui in campo. Ha mantenuto la promessa, anche se nessuno sa il prezzo.

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