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Le troppe anime della Juventus, il futuro di Di Maria, il rosso del Milan e lo scippo di Emery.
La prematura uscita della Juventus dalla Champions League non è soltanto un fallimento di Allegri, come è giusto e anche comodo dire per tutti, ma soprattutto il fallimento di Andrea Agnelli e del suo progetto. Non perché sia sbagliato, nel calcio tutto è opinabile e legato all’ultimo risultato, ma perché non esiste. Dall’estate 2018 si è passati dalla squadra iper-mediatizzata di Cristiano Ronaldo alla squadra di giovani accompagnati da mestieranti a fine contratto, passando prima per lo stesso Allegri, cioè l’archetipo dell’allenatore resultadista, per uno con bisogno di tempo (che non gli fu lasciato) come Sarri e per una scommessa, poi persa come di solito avviene per le scommesse, come Pirlo, prima di tornare ad Allegri e dargli in mano una squadra con anime troppo differenti: i giovani sconosciuti, i giovani già affermati come Vlahovic, i resti della vecchia guardia cone Bonucci, una stella ad altissimo rischio, sotto ogni profilo, come Pogba, giocatori che non si è riusciti a vendere come Rabiot e operazioni di brevissimo respiro come Di Maria. È quasi ovvio che ognuno remi in una direzione diversa.
L'assenza del progetto, o il suo continuo cambio, non ha impedito nel frattempo di continuare a vincere, era Pirlo compresa, in attesa della ricostruzione. Che certo non può passare dagli instant team con trentaquattrenni come Di Maria che non vedono l’ora di andarsene. Insomma, troppe operazioni in contraddizione fra di loro che hanno generato partite come quella di Lisbona, in cui si è passati da una possibile imbarcata storica (il Benfica dello scatenato Rafa Silva ha sfiorato più volte il 5-1) ad una quasi impresa, con il 4-4 sfiorato con i giovani (ma anche Milik, sempre positivo) in campo, fra i quali un Iling che sulla sinistra ha fatto cose notevoli. Insomma, sulla Juventus dell’Allegri bis (a proposito, per lui prima volta su dieci in cui non va agli ottavi di Champions) si scrivono sempre le stesse cose, ma va detto che con lo stesso criticatissimo allenatore, più Pogba, Chiesa e Paredes sani (Di Maria non lo contiamo più), a gennaio si potrebbe davvero vedere una squadra diversa. Il fallimento, anche se Allegri dice che non è un fallimento, è più della società (la stessa dei nove scudetti consecutivi, peraltro) che dell’allenatore. Sia Allegri sia Agnelli hanno qualcuno sopra di loro che li può cacciare, fra poco o a fine stagione.
Tutt’altro spirito in casa del Milan, uscito trionfatore a Zagabria e totalmente padrone del proprio destino in Champions: mancherà gli ottavi soltanto in caso di sconfitta contro il Salisburgo. Il disastro è in questo caso soltanto fuori dal campo, visto che l’approvazione del bilancio 2021-22 ha ufficializzato un passivo di 66,5 milioni di euro. Da ricordare che nella scorsa stagione, chiusa con lo scudetto, il Milan aveva il quarto monte ingaggi della Serie A con 100 milioni, contro i 170 della Juventus, i 130 dell’Inter e i 110 del Napoli, senza contare San Siro sempre pieno e la forza commerciale del marchio: non si può quindi dire che strapaghi i suoi calciatori o che abbia sul mercato fatto colpi eccezionali. Quindi o i dirigenti della Serie A sono tutti incapaci, e tanti senz’altro lo sono, oppure c’è strutturalmente qualcosa che non funziona.
Fra le cose che non funzionano c’è un mercato di fatto sempre aperto in tutta Europa, per giocatori e allenatori. Al punto che nessuno si è scandalizzato per una squadra inglese in zona retrocessione come l’Aston Villa che pagando la clausola rescissoria (6 milioni di euro) ha dalla sera alla mattina portato via l’allenatore, ovviamente con il consenso ben pagato dell’allenatore stesso, alla sesta squadra della Liga, l’anno scorso semifinalista in Champions League. Buon per Emery, che cercava una situazione di maggiore visibilità, un po’ meno per il calcio. Se ne parla poco soltanto perché il Villarreal fa vendere poco e perché la cosa non ci tocca da vicino.
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