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Dialogo con Pantaleo Corvino, maestro del Lecce© LaPresse

Dialogo con Pantaleo Corvino, maestro del Lecce

Dai giovani ai colpi di mercato: a Lecce si vive (e si costruisce) con le idee.

Annibale Gagliani

11.10.2022 14:37

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Pantaleo Corvino, classe 1950, responsabile dell’area tecnica dell’Unione Sportiva Lecce, è lu mesciu Pantaleo (il maestro). Uomo di sani principi che ha coniugato la vittoria alla vocazione per la scoperta dei talenti, disputando tutte le categorie, partendo dalla terza dei dilettanti fino ad arrivare alla Champions League. Nella sua brillante carriera tra Salento, Firenze e Bologna ha avuto dei comandamenti precisi: raggiungere gli obiettivi attraverso la valorizzazione dei giovani, in particolare, per ampliare il valore delle società, rendendole solide, sostenibili e innescando un virtuoso collegamento tra settore giovanile e prima squadra. Una delle poche figure in Italia da poter interpellare per la ricostruzione della Giovine Italia, ovvero le Nazionali del futuro con l’obiettivo del Mondiale 2026. Nelle sue esperienze sportive, si è sempre battuto per la creazione di strutture adeguate alla crescita dei calciatori italiani (il tallone d’Achille del calcio nostrano), fondando anche negli anni Duemila la Corvino Academy a Villa Convento.

Il Lecce poi è uno splendido caso di simbiosi tra territorio e compagine sportiva, feeling identitario che lega le nuove generazioni alle proprie radici, coinvolgendo il Tacco delle Puglie: un connubio che rimanda al calcio romantico, come rito collettivo, religione laica. Corvino è uno dei simboli di tale processo: un fuoriclasse delle trattative e della patrimonializzazione, trasformando risorse tecniche in economiche. Il suo mercato delle idee (il migliore in relazione alla capacità di spesa) riflette una mentalità calcistica che è metafora di vita, sintetizzabile con un pedagogico proverbio salentino: lu pinsieri te campa, ca lu pane quantu pare ca te binchia (è il pensiero a farti vivere, che il pane può solo saziarti). Più che incontrollabili fiumi di denaro, nel suo percorso sono prevalse le idee, attuate per il raggiungimento di un progresso economico che garantisse lo sviluppo del club. Per i giovani calciatori, selezionati guardando l’uomo assieme al talento, il fine non è l’affermazione delle potenzialità, ma metamorfosi delle stesse in qualità (tecnico-tattiche e umane).  

 

Si è concluso il vostro “mercato delle idee”, un profondo rinnovamento della squadra con quasi cinque milioni di euro di spesa e oltre tre milioni di guadagni. Diciassette innesti nella rosa e un valore complessivo che è cresciuto, superando i sessanta milioni di euro. È soddisfatto del lavoro svolto?

 

La creatività, il virtuosismo nel fare mercato, è fondamentale per affrontare il calcio d’oggi. Nella mia carriera, pur essendo arrivato diverse volte in Champions League, sono l’unico direttore sportivo in Italia ad aver superato in poche circostanze la spesa di quindici milioni di euro. Mi è capitato quando ho acquistato i campioni del mondo Luca Toni e Alberto Gilardino nella prima avventura alla Fiorentina, oltre a Juan Vargas, e Giovanni Simeone durante il mio secondo periodo a Firenze. Credetemi: quest’anno abbiamo fatto un grande sforzo per avvicinarci alla competitività della massima serie, che vede nella lotta per mantenere la categoria un livello che si è alzato di molto. Se ci siamo riusciti lo abbiamo fatto per lo più attraverso le idee.

 

Ci sono state delle ‘corvinate’, operazioni simbolo del suo mercato, tirate fuori dal cilindro in maniera inaspettata, che hanno sorpreso positivamente la critica e tutti i tifosi italiani. Facciamo tre nomi, su questi mi spende qualche parola: Federico Baschirotto, il corazziere con tanta gavetta alle spalle; Lameck Banda, ala dotata di estro ed esplosività; Samuel Umtiti, un campione del mondo a Lecce, operazione clamorosa. 

 

Baschirotto ha le caratteristiche dei calciatori che cerchiamo: grande duttilità nei ruoli e pronto a lavorare sodo per migliorarsi. Elementi duttili come lui – e ne abbiamo acquistati diversi – ci permettono un equilibrio della rosa, che per forza di cose è allargata in modo da affrontare gli impegni stringenti. Baschirotto era un po’ fuori dai radar delle squadre più blasonate. Lo abbiamo pescato dalla Serie B e negli anni precedenti ha fatto una trafila dall’Interregionale fino alla Serie C. E adesso si è ritrovato a marcare Lukaku al Via del Mare e Osimhen allo Stadio Maradona. Una bellissima storia.

Lameck Banda è un talento del 2001, un’operazione che caratterizza uno degli aspetti di questa società: cercare di creare delle risorse non solo per il presente, bensì per il futuro, in un’ottica di sostenibilità del club e di aumento del valore dei calciatori. Lui è Banda in una banda, di ragazzi esordienti e affamati si intende. Noi abbiamo la rosa più giovane del campionato: ventitré anni. Contro il Napoli sono scesi in campo esterni Gendrey (’00) e Gallo (’00), sulla mediana Hjulmand (’99), Helgason (’00), Askildsen (’01), González (’02) e in attacco Banda (’01) stesso e Colombo (’02). In un mercato delle idee, è importante sondare i mercati alternativi. Abbiamo esplorato quelli del Nord Europa, in particolare l’area scandinava. Siamo passati poi ad osservare il Medio Oriente, con Israele, e successivamente lo scenario africano. Banda lo abbiamo osservato nelle partite con la Nazionale dello Zambia e nel campionato israeliano.

Riguardo a Samuel Umtiti, tutti mi chiedono “com’è nato questo colpo?”. Negli anni ho stretto degli ottimi rapporti con professionisti dell’area spagnola, che lavorano in relazione alla Liga. Uno di questi è il procuratore Arturo Canales. Avevo tesserato a zero lo scorso anno per la primavera un talento della cantera del Barcellona, da lui rappresentato, e che si è preso il centrocampo del Lecce: Joan González. Quest’anno abbiamo colto tutti di sorpresa, portando, insieme, nel Salento, un campione del mondo.

Degli avversari qual è il colpo di mercato che l’ha impressionata di più?

Non mi piace guardare ‘il colpo’, osservo quello che hanno fatto i miei colleghi in generale. Tiago Pinto nella Roma, sia in entrata che in uscita, ha fatto un ottimo lavoro e se ne parla poco. Avrebbe meritato più gratificazione. È riuscito addirittura a portare Dybala a parametro zero. Certo, se proprio devo guardare al singolo colpo, il capolavoro l’ha fatto il Napoli con Kvaratskhelia.

La società è tornata a investire nel settore giovanile come ai fasti dei primi anni Duemila, parliamo del Lecce primavera campione d’Italia. Il primo prodotto della ‘cantera leccese’, che si sta facendo apprezzare in Serie A, è proprio il citato Joan González. Quali sono le prospettive future in questo senso, usciranno fuori altri come lui?

Stiamo ritornando a creare le condizioni di quel periodo, nel quale il settore giovanile del Lecce riuscì a vincere sette titoli nazionali, tra primavera, giovanissimi e allievi, e sfornare talenti del territorio e da altre parti del mondo, come il Sud America e l’area balcanica. Una struttura solida figlia delle nostre idee. Quando arrivai al Lecce, il settore giovanile lo abbiamo ricostruito nuovamente con dedizione. Oggi stiamo ricreando quella sinergia tra le scuole calcio dei vari comuni, gli osservatori e la prima squadra. Oggi siamo riusciti a riportare la primavera in A1 e man mano stanno uscendo fuori risorse importanti, grazie allo stesso metodo utilizzato nelle vincenti annate degli inizi Duemila.

 

Nella sua storia c’è una fucina di talenti scovati, giusto per citarne qualcuno, Miccoli, Chevanton, Vucini?, Ledesma, Pellè, Ovaldo, Orlandoni, Toni, Montolivo, Jovetic, Vlahovi?, Milenkovi?. Ci racconta a quale di queste trattative è più legato, magari per qualcosa di particolare che è accaduto?

Sono affezionato a ognuna di queste, perché ogni singolo colpo ha una storia dietro. Certo, i miei primi dieci milioni di euro spesi nella Fiorentina dei Della Valle nel 2005 per prendere Luca Toni, che veniva dal Palermo e che non era più giovane potevano sembrare un azzardo. Quando l’ho preso, all’esordio contro la Sampdoria gli dissi, “Mi raccomando, dai il meglio, che io quei soldi non gli ho mai spesi” e lui mi rispose, “direttore quest’anno ti farò divertire!”, fu di parola. Alla fine di quella stagione, Toni non solo ha vinto la Scarpa d’oro, portandoci in Champions, ma conquistammo perfino il Mondiale con lui prima punta.

Lei prese Dusan Vlahovi? alla Fiorentina nel 2018 per un milione e mezzo di euro. Poco più di tre anni dopo è passato alla Juventus per ottanta milioni di euro. Che effetto le fa vederlo combattere sui più prestigiosi palcoscenici d’Europa?

Sono operazioni che ti rendono orgoglioso. Arrivare prima su un ragazzo di enormi potenzialità è difficile, ma quando ci riesci, perché sei più convincente e puoi portare il calciatore a crescere e migliorarsi, è una sfida davvero stimolante. La partita si gioca tutta nel trasformare le potenzialità in qualità. Non sempre è possibile riuscirci. Ci sono tante variabili. Con Vlahovi? è successo e vedere tutto il mondo che ammira quelle che ormai sono qualità, mi inorgoglisce molto. Come mi fa piacere che la proprietà abbia potuto sviluppare dall’operazione un grosso capitale per il futuro.

 

“Non sono contro la scienza, la modernità, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un software che tra gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio non ci sto”. Parola di Walter Sabatini. Lei che ne pensa dell’intelligenza artificiale nella ricerca del talento? Non è una deriva che rischia di diventare totalizzante e di togliere poesia e umanità a un mestiere che si basa sulle sensazioni, sull’intuito, sulla conoscenza degli uomini?

Ognuno sfrutta i mezzi, soprattutto economici, a disposizione. Se lavori in una big sei portato a sviluppare uno scouting capillare, mondiale, e servirti di nuovi sistemi tecnologici di poca fatica. Quando non si può contare su risorse importanti, devi usare atri metodi. Per un direttore oggi è fondamentale intravedere, vedere e stringere rapporti di amicizia per avere una rete di rapporti costruiti in tanti anni di lavoro, con le fonti di informazione personali.

Ha cominciato a fare calcio tra i dilettanti, nella sua piccola Vernole e poi a Scorrano. Che ricordi ha di quegli anni?

Ho cominciato come direttore sportivo del Vernole, a 25 anni, del tutto casualmente. Il presidente era un imprenditore edile tornato nel Salento dalla Francia. Un vecchio collega di mio padre, che a sua volta era un mesciu, maestro muratore. I due parlarono di me. Siccome papà si ammalò, dovetti abbandonare l’obiettivo di diventare un calciatore e un buon studente per cominciare subito a guadagnare. Ero entrato nell’aeronautica a 16 anni. Ma il mio sogno era di fare fuori dal campo quello che non ero riuscito a compiere nel terreno di gioco. Il direttore sportivo, appunto. Quell’imprenditore (Luigi Turco, detto Fifì) mi chiamò per fare il direttore al Vernole in terza categoria. Abbiamo scalato insieme fino alla prima categoria. Parliamo della metà degli anni Settanta, all’epoca era già un mio pallino la valorizzazione dei giovani.

Con dei miei amici creammo una società da far giocare in terza categoria per dare finalmente un’occasione ai nuovi talenti salentini. Allora c’era il mercatino dei dilettanti, un giro importante di giovani calciatori e noi giravamo ogni singolo comune del Salento per pescare talenti da lanciare. Ogni comune aveva una squadra e risorse da proporre. Riuscii ad arrivare in Promozione, allo Scorrano, creando il settore giovanile. Ricordo che vendemmo Vincenzo Mazzeo al Casarano per centocinquanta milioni di lire, molti soldi per l’epoca, che divenne poi colonna del centrocampo del Lecce negli anni Novanta, passando anche dal Verona. Tante operazioni prolifiche che mi portarono a debuttare tra i professionisti a Casarano.

 

Arriviamo alla fine degli anni ’80, con il debutto come direttore sportivo in Serie C1 al Casarano. L’inizio di una carriera da professionista che le ha portato quattro vittorie di campionato sulle cinque partecipazioni alla Serie B con il Lecce, passando alle salvezze sempre con il Lecce alle oltre seicento gare nella massima serie non considerando la Champions League e Europa League. C’è un aneddoto tra queste esperienze a cui è particolarmente legato?

Sono tante le gioie che mi porto dentro. Dalla vittoria ad Anfield con la Viola e il primo posto nel girone in Coppa Campioni, fino al 3-4 col Lecce in casa della Juve di Lippi. Ma una delle gioie più intense l’ho avuta il 18 maggio 2008. Testa a testa della mia Fiorentina per un posto in Champions contro il Milan di Ancelotti, campione d’Europa. Erano gli ultimi minuti contro il Torino, all’Olimpico. 0-0 difficile da sbloccare. In campo stava per entrare un calciatore a cui tengo molto, una delle mie scoperte, Pablo Osvaldo. Ho sempre creduto in lui, ci ho scommesso tanto, nonostante i mugugni della piazza che ne aveva fatto una figura caricaturale per il suo stile e il suo carattere. Prima di entrare in campo, a pochi minuti dalla fine, siccome ero in panchina a soffrire insieme allo staff tecnico, ho preso Pablo in disparte e gli ho detto veemenza, “mi raccomando, entra, segna e facci vincere la partita… è una grande occasione per me e per te”. Il risultato è stato che Osvaldo si è inventato una rovesciata clamorosa, spettacolare, l’essenza del calcio e ci ha portato a sentire la musichetta della Champions. Quello 0-1 mi emoziona ancora oggi.

Come si è innamorato del calcio Pantaleo Corvino?

Da bambino, giocando per le strade polverose della mia Vernole e in un campo della Parrocchia. Era l’unica valvola di sfogo in un Salento di duro lavoro e sacre tradizioni.

Qual è la sua massima di vita che segue ogni giorno?

Svegliarsi presto la mattina. È il primo passo per fare un buon lavoro.

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