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Gli allenatori gestori sono davvero finiti?© Getty Images

Gli allenatori gestori sono davvero finiti?

Per sfatare un falso mito mediatico.

Marco Armocida

16.09.2022 12:40

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Il dibattito sportivo in Italia, spesso rabbioso e ultra-ideologizzato, propone temi disparati. Uno dei più recenti è quello relativo agli allenatori gestori, colpevoli per molti di non imporre una chiara impronta sul gioco delle loro squadre. Parte della critica, ad esempio, sostiene che il tempo dei gestori sia finito e che ormai essi siano superati dalla modernità che avanza. «Gli allenatori gestori non esistono più, sono superati dal tempo», ha detto e spesso ripetuto Lele Adani. E ancora i gestori, si dice, sfruttano il lavoro altrui e lasciano poca traccia ai posteri di sé. «Gli allenatori si dividono in due categorie: quelli che insegnano, e quelli che gestiscono. I primi sono pochi, hanno più problemi, ma alla fine lasciano un segno importante. I secondi sfruttano il lavoro altrui, vincono ma non convincono, e alla fine non lasciano niente». Così Maurizio Pistocchi nel febbraio 2022. La domanda sorge allora spontanea: è realmente così?

 

Carlo Ancelotti, il re dei gestori

Un recente report della Uefa ha cercato di prevedere i prossimi sviluppi del calcio europeo prendendo in considerazione i dati dell’ultima Champions League (2021-2022). I numeri sono inequivocabili. La maggior parte delle grandi squadre (City, Liverpool, Bayern, Chelsea) mantiene la difesa molto alta, imposta dal basso, schiera più di tre attaccanti in fase di possesso e pressa a tutto campo. C’è un allenatore, però, che costituisce una straordinaria eccezione: Carlo Ancelotti. Il suo Real Madrid (vincitore dell’ultima Champions League) difende basso, non rischia praticamente nulla e ha una media di passaggi in avanti che rasenta soltanto il 28 per cento. La stessa Uefa definisce Ancelotti “Re Mida”, quasi a sottolineare l’inspiegabilità, attraverso metodi razionali, della sua vittoria più recente.

 

A ben guardare, tuttavia, una spiegazione c’è. Eccome. La verità è che Ancelotti, che non aveva di certo a disposizione la squadra più forte, ha saputo (ancora una volta) integrarsi alla perfezione nell’ambiente in cui lavorava. Ha dato ai suoi una solidità difensiva e ha lasciato che a emergere fossero le grandi individualità in rosa. Ha responsabilizzato i suoi giocatori, accettando come sempre un confronto con loro alla pari. «Non sono autoritario e quindi non faccio l’autoritario: è semplice. Preferisco essere credibile. Mi piace la relazione pari livello con i miei giocatori».

 

Ancelotti non ha vinto perché il suo Real giocava meglio degli altri e nemmeno perché ha diffuso principi rivoluzionari. Lo ha fatto perché ha capito che a Madrid è necessario fare due passi indietro e lasciare che i riflettori del Bernabeu, nelle notti europee, puntino dritto sulle grandi individualità. Per dirla ancora con le sue parole: «Non penso di essere un allenatore di vecchia generazione. Rimango convinto che la cosa più importante, nel calcio, è rispettare le caratteristiche dei giocatori. Sono sempre i singoli a fare la differenza»

 

Ha trionfato perché ha rispettato la storia gloriosa e il Dna della squadra più grande di sempre. Perché ha compreso più di altri (Benitez e Lopetegui) che le Merengues, per vincere, hanno bisogno di un grande gestore, un uomo in grado di rapportarsi con delle star e coinvolgerle in ogni sua decisione. D’altronde lo dice anche Massimiliano Allegri: tutti si ricordano dei campioni del Real Madrid, nessuno del suo gioco. Lo stesso accade per le squadre di Ancelotti, allenatore che ha saputo smussare gli angoli più appuntiti dei suoi dogmi giovanili e che ora guarda le partite delle sue squadre come un generale che in groppa a un cavallo bianco osserva fiducioso i suoi dall’alto di una collina. Uno che ha rinunciato da tempo al ruolo di profeta, convinto che il calcio sia uno e voli libero senza padroni. Eccezion fatta, naturalmente, per i giocatori.

«Il bravo allenatore è quello che adatta il gioco alle caratteristiche dei giocatori. Se ho Modric e Kroos non posso pretendere di fare pressing alto. Sarei un idiota se con un attaccante come Vinicius, che ha un motorino sotto i piedi, non puntassi sul contropiede […] I giocatori sono di due tipi: quelli che fanno la differenza e quelli che devono correre. Deve averlo detto Conte, e se non è stato lui va bene ugualmente. Non ho mai coltivato un’ideologia. Il guardiolismo, il sarrismo. Il mio credo è l'identità di squadra». (Carlo Ancelotti, 2021).

 

Mourinho, gestore emotivo e comunicativo

Quando José Mourinho è stato nominato allenatore della Roma, in molti nutrivano dubbi. Lo Special One, che arrivava da stagioni complicate, sembrava ai più illanguidito. La mossa dei Friedkin ha denotato in realtà una straordinaria lungimiranza. José, secondo la nuova proprietà, era l’uomo ideale per guidare una piazza turbolenta. Più degli immediati risultati sportivi, a Mourinho è stato chiesto di prendere il timone del progetto e farlo crescere.

 

Come sostiene Fabio Caressa, Mourinho è un genio dal punto di vista dell’intelligenza relazionale. Fin dai primissimi istanti, lo Special One si è calato alla perfezione nella realtà di Roma, conscio del fatto che un messaggio, per essere diffuso, deve necessariamente tener conto del contesto in cui si diffonde. Sin dai primi tweet (indimenticabile il suo “Daje Roma") o video (iconico mentre guida a Trigoria una Vespa senza casco) Mourinho si è presentato come il prolungamento ideale di ogni tifoso romanista. Ha voluto comunicare qualcosa attraverso ogni suo piccolo gesto: l’amore per la Roma.

«Ringrazio la famiglia Friedkin per avermi scelto a guidare questo grande Club e per avermi reso parte della loro visione. […] L’incredibile passione dei tifosi della Roma mi ha convinto ad accettare. […] Daje Roma!»

Coadiuvato dal magistrale e avanguardistico lavoro dei Friedkin su marketing e brand, ha raggiunto risultati straordinari. Il più importante, forse, è quello relativo all’affetto della gente, visibile da una campagna abbonamenti quasi senza precedenti (oltre 36000 tessere vendute per la stagione in corso). L’Olimpico, grazie a Mou (e ai Friedkin) è dunque tornato ad essere una voce viva, vibrazioni che camminano fiere a passo d’uomo. Uno stadio, si veda la semifinale con il Leicester, in grado di accompagnare i giocatori in campo e incidere direttamente sui risultati.

 

Oltre a ciò, Mourinho ha anche vinto. Lo ha fatto perché, a differenza di chi lo ha preceduto in questi anni, ha saputo gestire i momenti più duri. Anzi, li ha sfruttati per dare linfa vitale al suo spogliatoio. La cocente sconfitta di ottobre contro il Bodo Glimt è stata essenziale, e senza di essa probabilmente la Roma non avrebbe fatto quel percorso trionfale in Conference League. La verità è che Mourinho è stato scelto anche per questo, per guidare una nave che negli anni precedenti si è fatta troppe volte travolgere dai movimenti altalenanti del mare mosso della città. Perché a Roma, per vincere, non serve soltanto un allenatore di campo, ma anche un uomo capace di gestire i trionfalismi e i malumori di una piazza a cui troppo spesso manca un equilibrio. Qualcuno che abbia sempre in mano la situazione e che sia in grado di reggere l’asfissiante pressione che giunge dall’esterno. E sfruttarla, magari, per compattare il gruppo squadra e renderlo un blocco unico.

«Mi scuso con lo studio, ma sono stanco e voglio andare a casa. È una vittoria della famiglia, non solo di quella che era in campo e in panchina ma di quella allo stadio. Questo è il nostro merito più grande: l’empatia, questo senso di famiglia».

Infine, Mourinho è perfetto per Roma perché dà un ampio respiro internazionale. Non è un caso che giocatori come Matic, Dybala e Wijnaldum abbiano scelto di sposare la causa romanista. La realtà parla chiaro: lo Special One è credibile e il suo palmares attira i campioni. Se la Roma oggi è una squadra più forte lo deve soprattutto a lui, che ha dimostrato come un progetto calcistico, per crescere, non debba necessariamente passare attraverso la qualità espressa dal gioco della squadra. Ci sono tante vie alternative, come ad esempio l’amore della gente, le vittorie o il calciomercato.

 

Lunga vita ai gestori

L’ultima stagione calcistica ha dimostrato come il tempo dei gestori non sia affatto finito. La verità è che il calcio non è una scienza esatta. Non c’è un solo di modo di vincere, né tantomeno di crescere: ogni piazza ha le sue esigenze, spesso diversissime tra loro. Per citare ancora Ancelotti e la differenza con un altro gigante della panchina, Pep Guardiola: «Le sue squadre sono sempre molto ben organizzate, ma io credo che non tutti vogliano le squadre molto ben organizzate. L’organizzazione la devi avere in fase difensiva, ma in fase offensiva (con una rigida organizzazione) se gli avversari ti leggono bene è molto più facile per loro. Se io volessi avere un Real Madrid organizzato dovrei dire a Benzema di fare il centravanti fisso, senza svariare a destra o a sinistra perché ci sono già altri giocatori che occupano quello spazio; ma se il genio Benzema pensa che a sinistra può creare qualcosa di positivo per la squadra... perdiamo un po’ di organizzazione, ma acquistiamo in creatività e imprevedibilità»,

 

E ancora: «In fase difensiva l’organizzazione deve essere perfetta e maniacale, ma in fase di possesso palla, se gli avversari leggono i movimenti dei giocatori è negativo. Si danno delle indicazioni ai giocatori su certi movimenti, ma poi decidono loro se e quando metterle in pratica. Avere le squadre molto ben organizzate in fase d’attacco non so se è un vantaggio». Due approcci radicalmente diversi, se non proprio opposti. Non sta a noi stabilire quale sia il migliore, ma più che operare una divisione tra allenatori e gestori, forse sarebbe il caso di analizzare le differenze, i contesti, le caratteristiche. E soprattutto di scindere tra allenatori meno bravi e più bravi. Questi ultimi, che gestiscano o meno, troveranno sempre un posto adatto dove lavorare. E vincere.

 

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