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L'Atalanta di Gasperini ha finito il suo ciclo?© LAPRESSE

L'Atalanta di Gasperini ha finito il suo ciclo?

Una domanda che, ultimamente, si stanno ponendo in molti

Vito Alberto Amendolara (Contrasti)

09.05.2022 11:45

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Dal gol di Choupo-Moting (quarto di Champions, 2020) a quelli di Nkunku (quarti di Europa League, 2022) sono cambiate le stagioni, gli avversari, la competizione, è rimasto identico il verdetto. Eppure si tratta di due eliminazioni diametralmente opposte. L’Atalanta allenata da Giampiero Gasperini, costruita da Giovanni Sartori e diretta dalla famiglia Percassi è stata senza dubbio la cometa che ha illuminato la volta della Serie A nell’ultimo lustro. In un campionato in evidente recessione tecnica, i bergamaschi hanno per lungo tempo colmato il vuoto lasciato dalle milanesi, affiancandosi con continuità all’armata Juventus. Oltre confine poi hanno vestito i panni di Cenerentola nelle massime competizioni europee, tangibile baluardo meritocratico ai progetti oligarchici e superleghisti, a testimonianza che le gerarchie del calcio si scrivono sul campo e non nei palazzi del potere.

E proprio nell’anno di (dis)grazia 2020, alle fasi finali della Champions League sconquassata dal Covid, sul neutro portoghese del Da Luz si è registrato probabilmente l’acme dell’epopea orobica. Una partita che stava per portare La Dea nel mito, e che invece i gol allo scoccare di Marquinhos e in pieno recupero di Choupo-Mouting hanno fatto ripiombare sulla terra. Eppure quella sconfitta, amarissima, aveva lasciato la netta sensazione che l’Atalanta di Gasperini avesse asceso l’ultimo gradino, quello della consapevolezza, verso un futuro non più solo da sorpresa bensì da protagonista. Un bagaglio che l’anno successivo si è materializzato in un’ulteriore crescita, con la finale di Coppa Italia poi persa contro la Juventus e una Serie A da seconda della classe – dietro l’imprendibile corazzata Inter – di cui solo l’ultima giornata ha ribaltato le posizioni, con il sorpasso del Milan.

Caduta morale o fine di un ciclo?

Così l'eliminazione di quest'anno in Europa League, per mano del Lipsia, ha avuto un valore “metaforico” ma soprattutto un gusto diverso: quello dell’occasione sprecata, quello della scintilla, l’ultima, in grado di alimentare ancora un progetto che ha perso l’abbrivio dei tempi migliori. Il saluto dei giocatori nerazzurri alla fine della partita ha dato l'impressione di un commiato verso la città, consapevoli anche loro di essere a un punto di svolta. La stagione in corso ha infatti prodotto una crisi di risultati senza precedenti nella gestione Gasperini, eppure non è questo l’elemento allarmante. Piuttosto sembra essersi un po' attenuato quel sacro fuoco, quell’attitudine garibaldina che aveva contraddistinto le ultime stagioni atalantine; il moto perpetuo alla ricerca di spazi e compagni, il pressing asfissiante e quel ritmo forsennato, così vicino al costume della Premier più che della Serie A, che non a caso ha reso l’Atalanta la squadra italiana più competitiva in Europa negli ultimi anni.

Un calo che ha portato lo stesso Gasperini prima a parlare di “caduta morale” della sua squadra (non proprio un’espressione da poco), e che poi lo ha spinto a confessare un periodo di “riflessione”, necessaria “quando ci sono dei cicli”: «Purtroppo il tempo passa. Il declino esiste, di una squadra, di un ciclo, di un giocatore. Non è facile per nessuno, nemmeno per le grandi squadre. Io lavoro per l'Atalanta e se si ripartirà, come spero, sarà con un rinnovato entusiasmo. Ma queste decisioni non le prendiamo noi allenatori», ha dichiarato ai microfoni di DAZN. E ancora, alla domanda diretta del giornalista – “il suo ciclo non è finito?”–, la replica: «bisogna anche capire. Se l'Atalanta deve vincere, come ci è stato chiesto anche quest'anno (…) Io metterei la firma per continuare ad avere i risultati degli ultimi anni. Non c'è limite al meglio, non c'è limite al peggio».

Insomma, difficile dire se “il ciclo” si sia effettivamente concluso: di certo pare essersi arrestato il percorso ascensionale dell’Atalanta, che ora dovrà stabilizzarsi ad alta quota (non altissima, magari) sapendo che qualche vuoto d’aria è assolutamente fisiologico. D'altronde nulla è eterno, nemmeno uno spirito trasferito magistralmente da Gasperini a forza di urlacci e lavoro, studio e sacrificio. Elementi congeniti al calcio del tecnico piemontese, che trasuda tutti gli spigoli di una personalità dal carattere esigente, irrequieto, impulsivo. Ingredienti essenziali per la riuscita della pozione magica, eppure pericolosamente esplosivi se dosati male, come dimostrano i casi di Gollini ma soprattutto del Papu Gomez, il cui addio probabilmente è stato sottovalutato nelle sue pesantissime conseguenze, tecniche e caratteriali. 

Il volto pensieroso di Gasperini in occasione di Atalanta-Salernitana, 1-1 

Dal caso Gomez ad oggi

Gomez era a tutti gli effetti il leader tecnico della squadra, direttore di un’orchestra prostrata ai suoi piedi: era lui a decidere ritmi e giocate sempre, immancabilmente, consapevole di tutto quanto accadesse in campo. Sensazioni che si trasferiscono ai numeri, specie quelli che hanno alimentato il tabellino della Dea. Se i 49 gol aiutano solo parzialmente a comprendere l’importanza del Papu, la cifra astronomica di 58 assist sotto la gestione Gasperini esemplifica meglio di ogni altra statistica il ruolo insostituibile dell’argentino. Così, considerato anche il faro della sostenibilità economica, rimpiazzare Gomez – con la sua dose inesauribile di esperienza e personalità – si è rivelata una missione più ardua del previsto. 

Il Papu non era infatti un semplice ingranaggio di un sistema perfetto, ma il “faro emotivo” della squadra, centro emozionale di una città ai suoi piedi e in cui lui finalmente aveva le stimmate da icona, la prima con la maglia nerazzurra dai tempi di Cristiano Doni, presto obliato in seguito alle vicende del ciclone calcioscommesse. Se a questo si aggiungono i problemi di Ilicic, l’altro in grado di far saltare il banco delle difese avversarie con il suo talento cristallino, il risultato è una squadra di grandi lavoratori, splendidi corridori, spirito indomito e anche buone individualità, privata però di quel surplus di imprevedibilità e genio che riusciva ad armonizzare tutto lo spartito. La svisata musicale che valorizza l’intera sinfonia.

In questa stagione non hanno poi aiutato gli infortuni (Zapata su tutti) né alcune cessioni pesanti (pensiamo al vuoto lasciato a sinistra da Gosens, prima anch'egli infortunato e poi venduto all'Inter), ma anche alcuni acquisti degli ultimi anni non sembrano essersi calati al meglio nei meccanismi perfetti di Gasperini (Mæhle, Boga, Miranchuk, lo stesso Malinovskyi che ha trovato ottimi numeri ma non la continuità del punto di riferimento). Anche qui, si gioca tutto sul filo sottile di una squadra “obbligata”, per crescere, a puntare su giocatori pronti: forti ma non troppo affermati, e soprattutto disponibili al sacrificio di uno stile di gioco totalizzante, inestimabile risorsa che rischia però – alla lunga – di trasformarsi in un limite strutturale. 

Il Papu Gomez, la 10 sulle spalle e la fascia di capitano al braccio, nella partita di Champions del 2020 contro il Liverpool

Un nuovo vivaio per una nuova Atalanta

Così negli ultimi anni il club ha cambiato lo stesso modello gestionale. L’Atalanta allestita da Sartori è stata il braccio armato delle illuminanti strategie di business di Antonio Percassi, mentre a Bergamo si riusciva a garantire la giusta accezione alla parola plusvalenza – da quelle parti ancora un vanto, non una minaccia della magistratura. La Dea è stata quindi in grado di cambiare pelle almeno due volte, riuscendo nell’impresa titanica di far registrare un utile di circa 130 milioni di euro tra il 2017 e il 2020 in una industry (quella del calcio) in perenne indebitamento. Uno schema molto semplice: comprare a poco, rivendere a tanto.

Una logica a tratti perversa che ha portato il club a una girandola vorticosa di prestiti, rendendolo il primo per distacco nella classifica di giocatori parcheggiati in giro per il mondo: addirittura 64, per un valore totale di circa 145 milioni. Ed è proprio nel contesto globale che oggi si muove l’Atalanta, avendo superato la sua storica dimensione locale. Lo ha spiegato qualche mese fa lo stesso Sartori sul Corriere dello Sport, partendo anche dalle nuove strategie di mercato e selezione del talento: «Il mondo si è globalizzato, non puoi più guardare solo nella provincia, nella regione o nella Nazione. Abbiamo voglia di trovare italiani ma non è così semplice, quindi dobbiamo andare all’estero». Non a caso l’Atalanta è arrivata oggi ad avere più di un terzo di stranieri in primavera, e nel 2019 ad essere la squadra con il minor numero di italiani in rosa nella Serie A (4). Una stagione chiusa con un record: il migliore attacco, 98 reti, ma neanche una messa a segno da un italiano. Un dato senza precedenti nella storia del nostro Paese, in netta controtendenza con il “modello Favini” e la vecchia “Atalanta degli italiani”.

Ma al di là dei natali, degli italiani e degli stranieri, quello dell’Atalanta è stato un cambio radicale di politica nel settore giovanile: se prima i prodotti del vivaio venivano fatti esordire e lanciati in prima squadra – il club si è potuto costruire sulle uscite del primo ciclo (Gagliardini, Kessie, Conti, Petagna, Spinazzola, Caldara, Cristante etc) –, adesso i fiori all’occhiello del vivaio sì e no ci arrivano ad esordire in A con la maglia nerazzurra (pensiamo ai casi recenti di Diallo e Kulusevski, rispettivamente 5 e 3 presenze in Serie A con l’Atalanta, venduti per 21 e 35 milioni). «Noi abbiamo giovani in pianta stabile, e in questi ultimi anni ne abbiamo fatti esordire. Comunque sì, sono esordi sporadici e non continuativi», per citare ancora Sartori. Un’inversione di tendenza confermata dalle statistiche del CIES, per cui solo il 3,9% dei giocatori schierati nella stagione in corso sono cresciuti nel settore giovanile nerazzurro: Zappacosta (di rientro dopo un lungo giro del mondo), Scalvini e le rare apparizioni di Sportiello. Così, da risorsa tecnica, il settore giovanile si è trasformato prima di tutto in risorsa economica.

“Per certi aspetti è un crack”: così Gasperini sul classe 2003 Giorgio Scalvini

Gli americani a Bergamo

Un modello di business comunque invidiabile, che ha portato all’acquisizione dello stadio e un’appetibilità internazionale verso nuovi investitori. Ed era forse parte di un disegno programmatico e lungimirante, o magari una necessità economica viste anche le difficoltà post-pandemiche, l’ingresso in società di nuovi capitali. È accaduto a febbraio con la cessione del 55% delle quote a un fondo di investitori americani capitanato da un Pagliuca che ben poco ha a che fare con il portierone di USA ’94, ma molto più con i Boston Celtics e Bain Capital, uno dei fondi di investimento più importanti al mondo. La scelta ha persino scatenato qualche protesta in città, ma la volontà della famiglia Percassi di aprire nuovi mercati e il miraggio di perseguire la crescita del progetto sportivo è stata più forte di ogni sentimentalismo.

Ad oggi Antonio e Luca Percassi ricoprono ancora le cariche rispettivamente di Presidente e Amministratore Delegato della società, un segno di continuità in un progetto virtuoso, ma di certezze il futuro ne riserva poche, soprattutto nella Bergamo calcistica. Le prime avvisaglie di un cambiamento comunque ci sono già state, e non possono essere ignorate. Giovanni Sartori lascerà a fine stagione dopo otto anni a servizio della Dea, trasferendosi all’ombra delle torri bolognesi, mentre a Bergamo arriverà Tony D’Amico, attuale Direttore Sportivo dell’Hellas Verona che ha lanciato le carriere in panchina di Juric e Tudor. Se il Gasp, come possibile, lascerà il timone a fine stagione, sono proprio loro i due i principali indiziati a sostituirlo: una rivoluzione ma nel segno della continuità tecnica, nell’impronta di quello spirito sfrontato, intenso e battagliero che Gasperini ha trasferito alla squadra. 

Le rivoluzioni però si sa come iniziano, ma non come finiscono. Esattamente come il futuro della Dea. Un punto di svolta cardinale che ci fornirà molte risposte, tra cui quella sull'effettiva dimensione dell’Atalanta. Eppure, anche qualora dovesse chiudersi il ciclo con un ridimensionamento stabile, ricorderemo a lungo questa squadra: non tanto per i trofei che ha il rammarico di non aver alzato, quanto per averci ricordato quello che Alessandro Bonan sul Foglio Sportivo chiamava «un pensiero altrimenti debole: quello del piccolo che demolisce il grande». In una burrasca di venti sull’Europa minacciosi di Superlega, la Dea Atalanta ha ricordato a tutti che non conta il potere economico, ma quanto veloce corri in campo. E fa niente se sia stata ingannata e si sia fermata a raccogliere qualche mela d’oro di troppo: la sua storia, negli ultimi anni, è già entrata nel mito.

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