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Joaquìn Peirò numero 9 per la storia© LaPresse

Joaquìn Peirò numero 9 per la storia

La morte del giocatore della Grande Inter, legato come immagine a un famoso gol al Liverpool ma in realtà tutt'altro che un attaccante di rapina...

Stefano Olivari

18.03.2020 ( Aggiornata il 18.03.2020 19:47 )

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Con Joaquìn Peirò se ne va a 84 anni uno dei nomi più noti della Grande Inter di Herrera, anche se lui in realtà in quell’Inter giocò relativamente poco: 47 partite in totale dal 1964 al 1966, fra Serie A e coppe, ricordando che in Italia all’epoca potevano scendere in campo soltanto due stranieri fra quelli tesserati e che gli altri due dell’Inter erano Suarez e Jair… Di sicuro il suo nome come attaccante è più legato all’Atletico Madrid e addirittura anche alla Roma, dove precedette di due anni l’arrivo dello stesso Herrera e giocò discretamente fra il 1966 e il 1970. Da ricordare che in Italia aveva anche avuto due stagioni con il Torino. Certo con la maglia nerazzurra ci sono state per lui alcune di quelle poche partite segnano la storia, su tutte quelle della rimonta al Liverpool nelle semifinali della Coppa dei Campioni 1964-65 e del celeberrimo gol rubando il pallone a Tommy Lawrence.

Nonostante fosse un giocatore di cilindrata internazionale, con la Spagna giocò ai Mondiali del 1962 e in quelli del 1966, Peirò in quell’Inter era poco più dello straniero di coppa ed è significativo come una delle squadre italiane più ricordate di sempre non abbia in fondo mai avuto un centravanti, o prima punta per esprimersi in termini del 2020, di riferimento. Nelle quattro stagioni concluse con almeno un trofeo italiano o internazionale, si possono citare Bicicli, Petroni, Ciccolo, Morbello, Di Giacomo, Cappellini, Canella, Gerry Hitchens e un Aurelio Milani che come Peirò è ricordato più per un gol europeo (nella finale 1963-64 contro il Real Madrid) che per tutto il resto.

In realtà l’Inter di Herrera non prevedeva il centravantone classico, ma giocatori offensivi (di solito veloci, cosa che invece Peirò non era in maniera particolare) che si adattavano alle situazioni specifiche. Lo stesso Peirò era una mezzala molto tecnica e come tale si era affermato a Madrid, prima di venire in Italia e di quel gol al Liverpool che rivisto duecento volte lo ha trasformato in una sorta di Pippo Inzaghi. Nella stessa Inter giocò in diverse posizioni, poi nella Roma di Oronzo Pugliese tornò al suo vero ruolo anche se in una realtà senza grandi ambizioni. Questo non gli impedì di diventare capitano giallorosso quando Herrera, nel frattempo arrivato a Roma, sfilò la fascia a Losi, e di alzare una Coppa Italia che non aveva il valore di quelle di oggi ma che in quella stagione, segnata dalla morte di Taccola, fu importantissima. Era la Roma di Santarini, Capello, Cordova, Carpenetti, Salvori, che in Peirò aveva il proprio punto di riferimento.

L’anno seguente la Roma si fece strada in Coppa della Coppe, arrivando alle semifinali contro i polacchi del Gornik Zabrze: 1-1 all’Olimpico e 2-2 a Katowice, non c’era la regola dei gol in trasferta (o meglio, c’era ma era confinata ai 90’ regolamentari mentre quella partita finì ai supplementari) e quindi spareggio a Strasburgo. Gol di Lubanski, pareggio di Capello su rigore, ancora 1-1 dopo i supplementari. Arrivò il momento del lancio della monetina, che già aveva detto bene al secondo turno con il PSV Eindhoven. Peirò, su suggerimento di Herrera, scelse croce e invece uscì testa. La sua carriera di giocatore, seguita da una molto meno gloriosa come allenatore, finì di fatto quella sera a Strasburgo. Ma non è stata una carriera sfortunata, inutile anche in questo caso fare cattiva poesia. Certo non era un centravanti e meno che mai un centravanti di rapina: ma adesso a chi importa?

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