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Il calcio italiano ai tempi del colera© LAPRESSE

Il calcio italiano ai tempi del colera

Nel 1973 il campionato fu messo in pericolo da un'epidemia scoppiata soprattutto a Napoli e Bari. Ma di paragonabile al caso coronavirus c'è soltanto la psicosi collettiva, perché in concreto quel colera portò a soltanto 24 morti...

Stefano Olivari

14.03.2020 16:13

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Il calcio italiano è fermo a causa dell’epidemia di coronavirus, come del resto gran parte di quello europeo. E la di là dei calendari e di quel che rimane della regolarità delle competizioni, che sono comunque problemi seri, questa situazione di vuoto è destabilizzante per tutti: calciatori, dirigenti, allenatori, media, tifosi. Qualcosa di simile, in scala molto, anzi moltissimo, minore, avvenne da noi nell’estate del 1973: stiamo parlando della famosa epidemia di colera che colpì Napoli, Bari e varie altre città e che spaventò tutta l’Italia anche se la mobilità non era certo quella di oggi.

Come per quasi tutte le epidemie, non ci sono certezze sulla sua nascita. Di sicuro il colera apparve (anzi, riapparve, a 62 anni dall’epidemia precedente) a Napoli il 20 agosto 1973, probabilmente a causa di cozze crude contaminate dal vibrione, e nel quadro di una pandemia iniziata oltre un decennio prima in Indonesia. I primi morti scatenarono il panico fra la popolazione e anche in era pre social network si diffusero notizie strampalate, come quella di migliaia di morti e del Comune di Napoli che occultava i cadaveri. Manifestazioni di piazza, immondizia bruciata per strada, richieste di aiuto al governo: un film vecchio anche all'epoca. 

In concreto l’epidemia si fermò con vari provvedimenti, su tutti un piano di vaccinazioni di massa attuato grazie al fondamentale aiuto dei militari americani della Sesta Flotta, che utilizzarono siringhe a pistola testate per vaccinazioni di massa in Vietnam. In totale, fra Napoli, Bari, Cagliari, Caserta, Taranto, Foggia e altre località meno colpite, ci furono 227 infettati dal colera e 24 morti. Dal punto di vista statistico niente, in rapporto all’eco mediatica che ebbe il colera del 1973 e che investì pesantemente anche il calcio.

Il caso venne aperto il 31 agosto dal Bologna, che due giorni dopo sarebbe dovuto andare a Napoli per una partita del suo girone di Coppa Italia. Il direttore sportivo dei rossoblu, Carlo Montanari, chiese per la sua squadra, futura vincitrice di quell'edizione (in panchina Pesaola, in campo Bulgarelli e Savoldi) il rinvio alla Lega, presieduta da Franco Carraro. Ma non ebbe risposta, con la giustificazione ufficiosa che il panico dovuto a una partita di calcio rimandata sarebbe stato più dannoso del colera stesso. Intanto il sindaco di Bari con un’ordinanza sospese la disputa di Bari-Palermo, sempre per la Coppa Italia, e il calcio dovette a questo punto accodarsi alla politica, sospendendo anche Napoli-Bologna. Per precauzione venne rinviata a data da definire anche Foggia-Juventus del 9 settembre, sempre per la Coppa Italia. La cosa da ricordare è che i numeri dell’epidemia erano relativamente piccoli rispetto a quelli del coronavirus, ma la psicosi e lo spazio mediatico erano del tutto paragonabili a quelli odierni. In molte città del Nord ci fu la corsa alla vaccinazione anticolerica e molte squadre, come l’Inter di Herrera, si fecero vaccinare in massa.

Si arrivò così a Genoa-Napoli del 16 settembre, con la Regione Liguria che chiese al Napoli di non venire, mentre in contemporanea il Verona stava meditando se rinunciare o no alla trasferta di Bari. Intervenne la Lega Calcio e Carraro impose la disputa di Bari-Verona e quella di Genoa-Napoli ma a campo invertito, quindi a Napoli, con il benestare del presidente del Genoa Berrino, che fece infuriare i genoani, e ovviamente di quello napoletano Ferlaino. Ma giornali e televisione continuarono ad insistere sull’emergenza colera, che indubbiamente c’era ma che aveva numeri ridotti, così alla vigilia delle partite i giocatori di Verona e Genoa annunciarono che non sarebbero andati a Bari e Napoli perché la salute era più importante del calcio. Sostenuti dall’Associazione Calciatori di Sergio Campana, i calciatori non trovarono troppo sostegno (eufemismo) fra media e tifosi, meno che mai fra i dirigenti.

Intanto a forza di ingigantire la questione, la psicosi dilagava fuori dall’Italia e nessuno voleva più nemmeno i nostri arbitri: Aurelio Angonese, designato per un Torpedo Mosca-Atletico (Atletico all'epoca) Bilbao di Coppa delle Coppe, dovette rinunciare perché le autorità sovietiche volevano imporre una quarantena a ogni italiano. E una quarantena in una struttura medica del'URSS di Breznev non era di sicuro una vacanza. Per sua fortuna questo atteggiamento durò poco e qualche mese dopo sarebbe stato l'arbitro italiano ai Mondiali del 1974, dirigendo anche la finale per il terzo posto Polonia-Brasile. 

Dopo gli 0-2 a tavolino, con anche un punto di penalizzazione, inflitti a Genoa e Verona, si arrivò così a parlare di campionato in pericolo. Ma il presidente della FIGC Artemio Franchi stroncò sul nascere qualsiasi ipotesi di rinvio, confidando nel fatto che l’epidemia fosse davvero poca cosa. Una scommessa che si sarebbe rivelata giusta: il 7 ottobre la Serie A iniziò regolarmente, con tutte le sue 8 partite e 16 squadre (fra cui Napoli, Cagliari e Foggia) alle 15. Gli italiani si erano già dimenticati del colera, che sarebbe sopravvissuto soltanto in qualche coro da curva. Speriamo possa accadere qualcosa di simile con il coronavirus, anche se le dimensioni del problema e la sua diffusione rendono impossibile ogni paragone.

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