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La svolta di Gigi Radice© LaPresse

La svolta di Gigi Radice

L'allenatore appena scomparso è stato per il calcio italiano un innovatore, al di là dello storico scudetto 1975-76 vinto con il Torino. Negli anni in cui tutti parlavano della Grande Olanda, lui provò a fare qualcosa sul campo... 

Redazione

08.12.2018 10:11

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Il nome di Gigi Radice resterà per sempre legato allo scudetto del Torino 1975-76, anche se era stato un ottimo difensore nel Milan con carriera stroncata dagli infortuni e come allenatore aveva e avrebbe fatto bene in tanti altri posti, dal Monza al Bologna, dalla Fiorentina all’Inter, senza dimenticare la sua buonissima seconda incarnazione granata negli anni Ottanta. Ma quale è stata la peculiarità di Radice, al di là dei luoghi comuni sul sergente di ferro (che era meno di tanti altri, infatti quasi tutti i calciatori lo adoravano) e sul calcio all’olandese che tanto all’olandese non era, visto che spesso utilizzava libero e marcature, da bravo allievo di Rocco?

La svolta da lui rappresentata a metà anni Settanta fu soprattutto fisica e mentale. Le squadre di Radice, non soltanto quel memorabile Torino, potevano a volte giocare male ma sempre avevano un’intensità che in quell’epoca comunque non preistorica era sconosciuta. Il pressing alla Radice, questo sì di derivazione olandese, era portato in maniera continua e coordinata da tutti i giocatori (il proverbiale ‘generoso Graziani’ non era l’unico, quindi), e almeno in Italia mandava in tilt squadre abituate a respirare anche contro le grandi. Si può addirittura dire che soltanto negli ultimi anni tutte le squadre della nostra serie A iniziano a pressare a tutto campo già prima del rinvio del portiere avversario. Ma questo alla luce delle regole che esistono dal 1992 sul passaggio al portiere ha un senso, mentre negli anni Settanta sembrava di assistere a qualcosa di avanguardistico.

La tattica poteva variare (quel Torino aveva Caporale libero staccato, in anni successivi Radice si sarebbe convertito a una sorta di 4-4-2 flessibile), ma l’atteggiamento delle squadre di Radice, anche di quelle andate male, era riconoscibilissimo. Figlio di una preparazione atletica accurata, ma anche di attenzione alla medicina sportiva (in quel Torino scudettato fu eccellente il suo rapporto con il dottor Boccardo), agli aspetti psicologici e anche a discipline negli anni Settanta considerate confinanti con la stregoneria. Memorabile un servizio del Guerin Sportivo sull’uso dello yoga da parte dei granata: due sedute settimanali dopo l’allenamento, il martedì e il giovedì, riservate soltanti ai volontari. Che comunque venivano sollecitati ad esserlo… Nello studio di Giovanni Gastaldo i più assidui erano Zaccarelli, Castellini, Santin e Salvadori, ma tutti almeno per curiosità provarono. Con ottimi risultati, perché quel Torino aveva evidenti limiti in alcuni giocatori ma tutti andavano nella stessa direzione. Lo yoga del Torino venne messo in contrapposizione al training autogeno del Cesena di Marchioro (che usava anche l’ipnosi, fra l’altro) e soprattutto all’allenamento tipico della maggioranza delle altre squadre, compresa la fortissima Juventus di Trapattoni.

Altra caratteristica era la sua propensione a lavorare con i giovani e con i calciatori emergenti e sottovalutati: sempre per tornare a quel Torino, non tutti nel gerarchizzato calcio italiano dell’epoca (e nemmeno in quello del 2018, a dirla tutta) avrebbero dato le chiavi del gioco a due ventenni come Patrizio Sala e Pecci. Sarebbe stato un ottimo allenatore della Nazionale, che non gli fu mai proposta perché i suoi anni migliori furono anche gli anni migliori di Bearzot. Non ha mai avuto rapporti facili con i presidenti, e non solo per le sue idee politiche di sinistra, mentre dal punto di vista mediatico passò rapidamente dal rango di profeta all'essere considerato uno per la scossa a squadre di media cilindrata. 

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