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Le vera vittoria di Tabarez© AFPS

Le vera vittoria di Tabarez

L'allenatore dell'Uruguay guiderà la Nazionale fino al 2022 e quindi potrebbe raggiungere i 18 anni su una delle panchine più prestigiose del mondo. Ma la sua importanza non è soltanto statistica...

Stefano Olivari

23 settembre 2018

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Oscar Washington Tabarez ha appena rinnovato fino al 2022 il contratto come allenatore della nazionale uruguayana: se tutto andrà bene ‘El Maestro’ raggiungerà quindi i 18 anni totali di permanenza alla guida di una delle squadre più prestigiose del mondo. Già è l'unico allenatore della storia ad avere guidato la stessa nazionale in quattro Mondiali... Tabarez è fra l’altro uno dei pochi per in quali la definizione di maestro non è usurpata: lui, discreto calciatore sempre infortunato, nelle scuole elementari ci ha insegnato sul serio e non per hobby o per posa, visto che la sua carriera in campo gli aveva reso quasi niente.

Non è comunque certo per i suoi metodi di insegnamento che passerà alla storia, ma per essere stato rispettato in epoche lontanissime fra di loro, dal punto di vista sportivo e umano. Da guida dell’Uruguay ad Italia ’90 aveva affrontato come avversari nelle varie partite del torneo Luis Suarez, Guy Thys e Azeglio Vicini… Sembra di parlare di un secolo fa ed in effetti un po’ è così. Era l’Uruguay che aveva come leader il parzialmente incompreso Enzo Francescoli, con una qualità media inferiore alle grandi versioni della Celeste del passato ma anche all’Uruguay dei giorni nostri. Grazie a quel torneo Tabarez si guadagnò una credibilità internazionale che in realtà già avrebbe dovuto avere, vista la Copa Libertadores vinta con il Penarol nel 1987. Svoltò a livello finanziario ma non convinse mai fino in fondo. E i suoi pochi mesi nel Milan, scelto da Galliani fra le perplessità di Berlusconi che lo avrebbe esonerato per richiamare (dalla Nazionale!) un Sacchi ormai in declino, sono in questo senso significativi. Il calcio dei club, dove l’allenatore è spesso soltanto un capro espiatorio, non è mai stato il vero calcio di Tabarez anche se in diversi contesti lui ha fatto bene: ci vengono in mente il Boca Juniors e tutto sommato anche il Cagliari. Meglio i tempi lunghi delle nazionali, dove il senso di appartenenza (a maggior ragione in Uruguay) permette di portare avanti un progetto.

E quale progetto più a lungo termine del suo famoso ‘Proceso’? Cioè il ‘Proceso de Institucionalización de Selecciones y la Formación de sus Fútbolistas’, in altre parole il piano che lui sottopose alla federazione uruguayana quando nel 2006 fu richiamato a guidare la Celeste reduce dai disastrosi anni Novanta, non a caso il periodo di massimo fulgore di Paco Casal, e con una crisi di talenti apparentemente irreversibile, per non parlare delle tre qualificazioni mondiali su quattro fallite. Al netto della mitizzazione che in Italia si fa spesso di tutto ciò che è sudamericano e quindi anche del Proceso, si trattava e si tratta di una riorganizzazione delle nazionali giovanili che dà per scontata la minore qualità anche dei club storici come Nacional e Penarol e punta su una crescita dei giocatori fin dall’adolescenza più all’interno di strutture federali che del club. Una scelta intelligente, per una nazione di tre milioni e mezzo di abitanti, in cui il confronto interno è nel mondo di oggi meno formativo di quello come uruguayani contro il mondo esterno.

I risultati di Tabarez sono sotto gli occhi di tutti: è come se un ipotetico allenatore con a disposizione soltanto i ragazzi di Roma (per dire una città con quasi la stessa popolazione dell’intero Uruguay), arrivasse alle semifinali del Mondiale 2010, agli ottavi di quello 2014, ai quarti di quello russo, sempre dovendosi giocare la partita decisiva senza una delle sue stelle (Suarez nei primi due casi, Cavani nel 2018). Il senso di appartenenza gli uruguayani l’hanno sempre avuto, non è stata un’invenzione di Tabarez. La cui più grande invenzione è stata invece quella di essere un allenatore che non lavora in base a dogmi tattici (pur non avendo quasi mai derogato dalla difesa a quattro), non ha atteggiamenti da duro, non ha rapporti privilegiati con certi procuratori (e basta guardare le agenzie di riferimento dei convocati delle Celeste per rendersene conto), non allena contro qualcuno, convive con la sua grave malattia neurologica senza esibirla, anche se al Mondiale è stata chiara la sua importanza in chiave motivazionale. Non ha alzato tanti trofei, Tabarez, ma ha davvero vinto. 

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