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Addio Cesena

Addio Cesena

La scomparsa di una società che ha fatto la storia del calcio italiano, soprattutto dagli anni Settanta in avanti, mette tristezza ma non cancella ciò che hanno fatto il conte Rognoni, Dino Manuzzi, Edmeo Lugaresi, Radice, Bersellini, Marchioro, Cera, Ceccarelli, Frustalupi, Schachner e i giocatori che avrebbero vestito la maglia azzurra con Conte...

Stefano Olivari

16.07.2018 20:52

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Il fallimento del Cesena fa male a tutte le persone cresciute considerando familiare questo nome in serie A o B. Dopo la salvezza nell’ultimo campionato cadetto, guadagnata sul campo dopo il ritorno in panchina di Castori, finisce così una storia durata 78 anni e che forse riprenderà dai Dilettanti. Una storia che per ben 13 anni è stata legata alla serie A: dal 1973 al 1977, dal 1981 al 1983, dal 1987 al 1991, dal 2010 al 2012 e per l’ultima volta nella stagione 2014-15, quindi quasi fino ai giorni nostri. Una storia fatta di tanti buoni giocatori, ma soprattutto di ottimi allenatori: Radice, Bersellini, Marchioro, Bagnoli, Bigon, Lippi, solo per citare i migliori… Pochi e quasi tutti buoni i presidenti: dal fondatore, il leggendario conte Alberto Rognoni (storico editore e direttore del Guerin Sportivo oltre che personaggio chiave del calcio italiano), a Dino Manuzzi per arrivare a suo nipote (suo di Manuzzi) Edmeo Lugaresi, bersaglio fisso di 'Mai dire gol'. L’ultimo presidente del Cesena è stato proprio il figlio di Lugaresi, Giorgio, che ha chiuso come peggio non si poteva questa storia in una voragine di debiti e plusvalenze sospette, ma soprattutto debiti fiscali nell’ordine dei 40 milioni di euro. 

Ci piace quindi ricordare il punto più alto della storia del Cesena, quella stagione 1975-76 in cui la squadra di Pippo Marchioro arrivò sesta giocando un calcio splendido che in quell'epoca di zero (o quasi) partite in televisione si poteva vedere solo quelle poche volte dal vivo: all’1 all’11 Boranga, Ceccarelli, Oddi, Festa, Danova, Cera, Bittolo, Frustalupi, Bertarelli, Rognoni, Urban. In panchina Bardin, Zuccheri e De Ponti. Non è un errore di battitura, c’erano davvero soltanto tre giocatori in panchina. Una squadra che potremmo definire alla Liedholm (Marchioro era stato suo vice a Monza), all’avanguardia anche come metodologie di allenamento e di psicologia sportiva, fra l'altro la prima in Italia a caricarsi con il training autogeno. Una squadra che nell’autarchico calcio italiano dell’epoca conquistò molti estimatori e che si qualificò anche per la Coppa UEFA.

Lì Marchioro fece quello che anni più tardi avrebbe definito l’errore più grave della sua carriera: dopo essere stato in trattative per passare alla Juventus (che poi scelse Trapattoni, che al Milan allenava ma sotto la tutela di Rocco) accettò le proposte del Milan. Ma era un Milan minore, con un Rivera declinante, in quel momento storico non superiore al Cesena ma con un ambiente convinto che fosse ancora il Milan degli scudetti e delle Coppe dei Campioni. Il presidente rossonero Duina si liberò del totem Rocco per dare tutte le responsabilità al giovane tecnico: Marchioro ne uscì triturato e il Cesena in Coppa UEFA lo guidò Giulio Corsini, prima di essere esonerato. Eliminazione al primo turno contri tedeschi est del Magdeburgo, che schieravano campioni come Streich e Sparwasser… Sconfitta 3-0 in Germania ma quasi rimonta in casa: 2-0 all’inizio del secondo tempo e assalto del Cesena, con tante occasioni ma anche tanti contropiede lasciati a Sparwasser, che in un’occasione non perdonò Boranga. L'adesso settantenne ex calciatore magari ricorda di più il gol segnato al Mondiale alla Germania Ovest due anni prima, ma quello fu comunque un bellissimo gol e ci dispiace di non averlo ritrovato su You Tube. Poi il Cesena in 10 per l’espulsione di Mariani vinse 3-1, ma la sua avventura europea si concluse lì.

La storia sarebbe andata avanti, con tanti altri momenti di gloria. Senza riaprire libri polverosi, basti ricordare a che a Euro 2016 Conte aveva convocato ben cinque ex giocatori del Cesena: Candreva, Guaccherini, Eder, Pellé e Parolo. Tutte le storie finiscono, però. E mai bene, non fosse altro che perché sono finite. 

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