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L'ultima panchina di Zeman© LAPRESSE

L'ultima panchina di Zeman

Con l'esonero al Pescara forse si è chiusa la carriera di un allenatore e di un uomo che ha quasi sempre lavorato in contesti difficili. Uno che non sarà ricordato per il 4-3-3 ma per l'idea di sport che ha sempre cercato di inserire in un gioco...

Stefano Olivari

06.03.2018 15:43

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È sempre difficile parlare di Zdenek Zeman come di un allenatore e non di un simbolo, per questo il suo esonero dalla panchina del Pescara lascerà indifferenti i simpatizzanti e fornirà nuova benzina agli antipatizzanti, fra i quali la percentuale di juventini è, per usare un eufemismo, notevole. Al punto che è diventata materia di discussione anche una cosa apperentemente oggettiva come il numero di esoneri. Sarebbero secondo alcuni 12, ma quelli in senso stretto sono 9: con Foggia, Parma, Lazio, Napoli, Salernitana, Lecce, Roma, Cagliari e appunto Pescara. Non pochi, ma allenando Barcellona, Bayern Monaco e Manchester City forse farsi cacciare è più difficile. 

L’ultima sua esperienza in panchina è durata quindi poco più di un anno: una situazione già compromessa ereditata da Oddo, la retrocessione in B e adesso i saluti con la squadra tredicesima in classifica ma anche a soli 3 punti dalla zona playoff. Zeman così conferma una delle leggi più rispettate dello sport, quella che suggerisce di evitare i grandi ritorni e che Boscia Tanjevic ha mirabilmente sintetizzato: “Mai tornare dove sei stato felice”. Il meraviglioso Pescara della promozione in A del 2012 era figlio anche di intuizioni geniali che non possono ripetersi tutti gli anni: Immobile, Insigne, Simone Romagnoli, Capuano e Verratti con il senno di poi erano giocatori in serie B quasi illegali ma con quello del prima erano un attaccante in cui la Juventus non credeva e che aveva fallito sia a Siena sia Grosseto, un attaccante legatissimo a Zeman che lo aveva lanciato nel Foggia, un difensore che il Milan non vedeva nemmeno come riserva e due ragazzi di Pescara. Non è difficile capire perché Zeman a Pescara sia considerato una divinità.

La rosa attuale del club di Sebastiani sembra avere poca qualità anche in prospettiva, al di là dei risultati tristi: questa volta il tandem formato da Zeman e Pavone non ci ha preso, con la mancanza di gioco (all’interno dell’immutabile 4-3-3) che ha stupito più di quella di risultati. Una rosa comunque troppo ampia, visto che soltanto contando i convocati nelle singole partite ufficiali Zeman ha dovuto lavorare con 41 (!) elementi, ma soprattutto piena zeppa di prestiti da società importanti (molti dalla Juventus, anche se il talentino Capone, diciottenne in cui Zeman credeva molto, è dell’Atalanta) saldati a discreti professionisti di categoria. Niente che potesse far scattare la scintilla, insomma. Così la mannaia è calata pochi giorni dopo l'ennesima polemica mediatica pretestuosa, nata con l'endorsement dato da Zeman ai Cinquestelle. 

A quasi 71 anni, li compirà il 12 maggio, Zeman sembra così arrivato alla fine di una emozionante carriera iniziata da semidilettante nella Sicilia profonda degli anni Settanta, in campi che lo hanno reso indifferente alle polemiche del calcio professionistico e anche di molti attacchi su commissione, una carriera diventata qualcosa di serio dalle giovanili del Palermo in poi. Una carriera in cui le situazioni difficili è sembrato quasi andare a cercarsele: anche al Lugano, per fare un esempio recente, portato a una salvezza quasi miracolosa nel massimo campionato svizzero. Segno di un’inquietudine mai davvero analizzata, la stessa che gli ha fatto quasi sempre rifiutare contratti pluriennali e ingaggi televisivi. 

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