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Ha ancora senso il campionato Primavera?

Redazione

30.03.2015 ( Aggiornata il 30.03.2015 17:54 )

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Tante volte, ipotizzando delle soluzioni plausibili nel tentativo di rilanciare il calcio italiano, ci si è appellati alla rivalutazione dei vivai. I settori giovanili, considerati giustamente come un potenziale serbatoio per le rose delle prime squadre, da tanto, troppo tempo ormai, sembrano aver perso la loro centralità, se non addirittura il loro significato. Già, perché se è vero che da sempre è difficile anche per i giocatori più talentuosi emergere poi da professionisti nella squadra che li ha visti nascere, se questa si chiama Milan, Juventus, Roma o Inter, da almeno una decina d’anni a questa parte si è evidenziato come pure giocare in una squadra provinciale non apri chissà quali strade immediate, una volta completato l’iter della Primavera. Il campionato Primavera è finito così a infiammare i dibattiti di vari addetti ai lavori, pronti a sancirne la definitiva resa, in tempi in cui appunto nemmeno al Chievo, ultimo vincitore nella stagione scorsa, viene naturale pensare di inserire in prima squadra quei giovanotti protagonisti di un’impresa storica da queste parti. Della rosa vincitrice nemmeno un anno fa –  in un processo di crescita che vedeva la società della Diga ormai da tre anni cliente fissa ai playoff – non mancavano di certo giocatori promettenti, in particolare l’insuperabile difensore centrale e capitano Kevin Magri, il colosso Mbaye in mezzo al campo, oppure quel Filippo Costa, da tanti anni azzurrino nelle varie Under, e ora titolare fisso e punto di forza della fascia sinistra del Pisa in Lega Pro. In A però, bocciato quasi subito l’ex Under 21, di proprietà dell’Inter, Biraghi, si è preferito adattare il centrale mancino Zukanovic. Ma non è il tema dell’esterofilia accentuata che si intende trattare in questa sede, fermo restando che il fenomeno riguarda tutti i campionati nazionali, con i maggiori club di Champions League (vedi i casi di Paris Saint Germain, Chelsea, Manchester City o Real Madrid) composti da più da all stars  che da rappresentanti autoctoni. Certo però che la cosa viene di conseguenza, e se non si lancia almeno qualche giovane meritevole in orbita, difficilmente la nazionale azzurra potrà tornare ad essere competitiva. Il caso recente di Cataldi, già brillante condottiero della Lazio Primavera, e protagonista un anno fa della splendida stagione del Crotone, ora punto fermo della squadra di Pioli nella rincorsa al terzo posto, pare la classica rondine che non fa primavera, se si concede il gioco di parole. Ma in quella squadra che nel 2011/12 perse la finale scudetto contro l’Inter per poi centrare il bersaglio grosso dodici mesi dopo, non c’era solo il regista in possesso di notevoli mezzi tecnici, l’undici base era davvero competitivo in tutti i reparti. Pensare che di questi solo l’attaccante Keita sia arrivato a giocare in serie A mentre la maggior parte di loro è nei Dilettanti o fatica tremendamente a emergere in cadetteria o Lega Pro, è il segnale che qualcosa è assolutamente da rivedere, visto che il discorso lo potremo allargare anche alle altre formazioni vincitrici degli anni zero e dieci. Quello che maggiormente pare lampante nei nostri giovani al cospetto dei corrispettivi stranieri, è soprattutto la mancanza di personalità quando si trovano a misurarsi con il calcio dei grandi. C’è stato un tempo in cui la colpa era facilmente attribuibile agli allenatori, la maggior parte di essi in parte restii ad affidarsi ai colpi dei loro bambini prodigi, specie se impegnati nella corsa alla salvezza. Insomma, in emergenza, meglio affidarsi a gente esperta, magari degli “scarponi” a livello tecnico, ma senza nemmeno troppi grilli per la testa. Non è giusto generalizzare, per carità, ma pensiamo a come sarebbe stato accolto ad esempio un diciottenne Cristiano Ronaldo al suo esordio tutto prodigo di finte e dribbling ubriacanti? Molto probabilmente, al primo non riuscito, sarebbe come minimo stato redarguito e ricondotto su binari più tranquilli. L’impatto con i professionisti è troppe volte duro, per non dire traumatico, e a rimetterci sono soprattutto i giocatori che contano le maggiori abilità tecniche. Visti talvolta con diffidenza, per paura di sbagliare, si limitano al compitino ma così facendo ottengono spesso il risultato opposto, quello di non farsi notare, di non risultare decisivi. La gavetta, perché di questa si tratta specie in Italia, è difficile perché le chances di giocare sono poche, nonostante gli incentivi per l’utilizzo dei giovani in Lega Pro e B, e la concorrenza spietata. Poteva risultare interessante il caso del Prato, divenuta in maniera ufficiale una succursale dell’Inter, visti i buoni rapporti tra i due club protratti nel tempo, ma al di là dei risultati che la squadra toscana può o meno ottenere in campionato, quanti di questi giovani in effetti si stanno monitorando e tenendo seriamente in considerazione per i prossimi anni? La storia insegna che i più bravi bruciano le tappe in fretta e anche chi fosse costretto a partire dalla terza serie, ci metterà in teoria molto poco a salire di categoria. La stragrande maggioranza di chi è protagonista in ambito giovanile fino ai 18 anni poi fa perdere le proprie tracce, sparendo dai radar professionistici. E allora una soluzione concreta sarebbe quella di istituire anche in Italia le cosiddette “squadre B”, come da tanto tempo avviene con successo in Spagna o Germania. Diverso il caso dell’Inghilterra dove ai tornei giovanili viene affiancato un campionato “riserve”, dove trovano spazio i giocatori in esubero ma che non appare adatto a risolvere la questione della valorizzazione dei migliori talenti nostrani. Il meccanismo delle squadre B permette invece ai club che ne usufruiscono di poter attingere in qualsiasi momento della stagione al proprio serbatoio, non andando comunque a falsare i campionati in cui sono iscritte (che sia la seconda, la terza o la quarta serie). Per quanto forti possano essere infatti i migliori giovani ad esempio del Barcellona, si tratta pur sempre di ragazzi in via di formazione, che le prime squadre sono brave a reintegrare tra i propri ranghi non appena li vedono pronti per il salto. In Spagna è un meccanismo che, specie per la compagine blaugrana, ha fatto le fortune del club, se pensiamo che tutti, ma proprio tutti, i più forti rappresentanti del suo vivaio si sono potuti misurare in tornei competitivi come la Segunda Division, sapendo che sarebbero potuti subito tornare utili alla causa. Una sorta di principio meritocratico che è andato a premiare di volta in volta i vari Xavi (55 presenze e 3 reti col Barcellona B tra il 1997 e il 1999 intervallate da diverse capatine nella Liga a stagione in corso), Iniesta (49 presenze e 5 reti tra il 2000 e il 2003) e addirittura il 4 volte Pallone d’Oro Lionel Messi, che nel 2003 a 16 anni giocò 10 partite, segnando 5 gol con il Barcellona C, per passare l’anno dopo al Barcellona B, prima del salto definitivo nella Liga e poi tra i più grandi di tutti i tempi. Qualcuno potrebbe obiettare che si andrebbe ulteriormente a ingolfare il sistema professionistico italiano, dopo che negli ultimi anni si è assistito a una drastica, quanto salutare e necessaria, visti gli sgravi economici di molte squadre, riduzione di esse. Altri potrebbero temere che la cosa andrebbe a discapito di società gloriose, storiche, il cui impatto nel territorio a livello di tifo e appartenenza è ancora vivo e caldo, ma credo che ovviamente andrebbe fatta un monitoraggio approfondito delle varie situazioni economiche dei club, andando a scongiurare l’ipotesi che a essere estromessi dai campionati professionistici siano società in regola dal punto di vista amministrativo e burocratico. Spiace rimarcarlo, ma quante volte negli ultimi anni abbiamo assistito a tornei lacunosi, con squadre fortemente penalizzate a stagione in corso (in alcuni clamorosi casi, addirittura radiate) e la credibilità del tutto andata perduta? Andrebbe certamente rivista la formula dell’intero sistema professionistico italiano, qualora si introducessero le squadre B, e rivalutata la possibilità che queste possano a tutti gli effetti competere per salire di gradino, contendersi la promozione con le concorrenti, tanto per essere chiari. Non è tuttavia questo l’obiettivo delle squadre B spagnole o tedesche, non avrebbe nemmeno senso, visto che sono nate esclusivamente per tastare concretamente le reali capacità dei propri giocatori. Poi, statisticamente, saranno comunque pochi quelli che esploderanno in prima squadra, ma quello fa parte in fondo della selezione naturale che avviene in tutti gli sport, dove ci si costruisce una carriera duratura per tutta una serie di circostanze. Il fatto però che in Italia spesso ai giovani negli ultimi dieci anni non è stata concessa loro neanche una possibilità di sbagliare, nella ricerca spasmodica del risultato “tutto e subito”. Con quali esiti poi? Che ormai i giocatori italiani che militano ad alti livelli in serie A si contano sulle dita di una mano, con i migliori (vedi Verratti) acquistati per pochi spiccioli in modo lungimirante dai maggiori club internazionali e con i giovanissimi che intravedono maggiori prospettive di carriera, emigrando all’estero ancora minorenni (vedi il caso del fortissimo centravanti scuola Roma Gianluca Scamacca passato agli olandesi del Psv Eindhoven non appena compiuto il diciassettesimo anno di età, e quindi nella possibilità di firmare a prezzo vantaggiosissimo il suo primo contratto da professionista). Occorre quindi per tutelare un patrimonio di giovani talenti nostrani e valorizzarlo al meglio, modificare l’assetto del settore giovanile, concludendo da Under 17, con il campionato nazionale Allievi l’iter nei vivai, per poi misurarsi in età “Primavera”, Under 19, nelle serie professionistiche, B o Lega Pro che sia. Solo così sarà realmente misurabile il valore della loro forza e messo alla prova il loro status di calciatori “futuribili”, anche in chiave azzurra. Gianni Gardon giannivillegas.wordpress.com

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