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Il fallimento di LeBron James© Bongarts/Getty Images

Il fallimento di LeBron James

In questa puntata di Guerin Basket: i Lakers fuori dalla corsa playoff, l'impatto di Mario Chalmers sulla serie A e l'assenza di punti italiani

Stefano Olivari

05.03.2019 ( Aggiornata il 05.03.2019 15:30 )

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I Lakers fuori dai playoff, verdetto non ancora matematico ma quasi sicuro, possono essere commentati con una parola sola: fallimento. Fallimento loro, che per la sesta stagione di fila salutano già ad inizio aprile, ma anche di LeBron James che i playoff non li mancava dalla sua prima vita ai Cavs. Secondo le peggiori tradizioni nel mirino c’è l’allenatore, un Luke Walton che ha dovuto gestire un roster che di fatto è stato quasi tutto sul mercato fino all’All Star Game, alla ricerca del grande colpo (Anthony Davis, in sostanza) per essere da corsa fin dal primo anno dell’era LeBron in gialloviola. Le colpe principali sono quindi di Magic Johnson, che ha fatto sentire tutti di passaggio e non ha permesso a Walton di costruire alcunché. Con i problemi che si ripropongono pari pari in estate: solo che oltre alla seconda stella della situazione bisognerà anche arrivare ad un free agent di quelli affamati di un titolo e possibilmente non bollito, ragionamento che peraltro fanno tutti. Insomma, un fallimento con poche giustificazioni vista la quantità di talento giovane che c’era intorno a James: da Lonzo Ball a Kyle Kuzma, da Brandon Ingram a Josh Hart, il potenziale per costruire qualcosa c’era. Gli anni del Prescelto sono 34 e rotti, la prossima stagione sarà quindi da ora o mai più. Magari con un più gradito allenatore-pupazzo.

Ingaggiando Mario Chalmers la Virtus Bologna potrà schierare il giocatore della nostra serie A più conosciuto nel resto del mondo. Un giocatore di 33 anni con un passato NBA come il suo, fra i due titoli vinti con gli Heat di LeBron-Wade-Bosh e il resto, è roba da Serie A degli anni Ottanta e Novanta. Un giocatore che appare relativamente integro, visto che l’infortunio al tendine d’Achille è storia di tre anni fa e la scorsa stagione a Memphis è stata discreta. Il ragazzo dell’Alaska non è il classico mestierante da buone statistiche in stagione regolare, ma uno che ama gestire i palloni decisivi: lo ha dimostrato nella carriera universitaria a Kansas, dove ha trascinato i Jayhawks al titolo nel 2008, ma anche a Miami con i Big Three. A proposito, non ci vengono in mente altri giocatori, anche più forti di Chalmers, che siano entrati in rotta di collisione con LeBron per gestire le fasi calde della partita… Con questo non vogliamo dire che la squadra allenata da Sacripanti sia diventata la favorita per lo scudetto, ma senz’altro che Zanetti ha mostrato con un colpo ad effetto la volontà di tornare allo status di una volta. Una bella notizia per un campionato che l’anno prossimo passerà da 16 a 18 squadre, senza un vero perché.

La pallacanestro è in continua evoluzione, assurdo paragonare statistiche di epoche diverse al di là dell’ovvio discorso sui minutaggi: nella serie A di una volta gli americani erano due, giocavano 40 minuti a partita o poco meno, erano quasi sempre i riferimenti offensivi delle loro squadre. Fa comunque impressione che dopo 20 partite ci sia un solo giocatore sopra i 20 punti di media, James Blackmon. Capocannoniere del campionato con 20,7 punti di media davanti a Erik McCree, suo compagno a Pesaro. Per trovare un altro capocannoniere sopra quota 20 bisogna tornare indietro di tre campionati rimanendo però a Pesaro, con Austin Daye. Cosa vogliamo dire? Niente di negativo o di nostalgico, non sono più i tempi di Morse e Jura, ma soprattutto gli allenatori ruotano almeno 8-9 giocatori invece di 6-7. La cosa negativa è che il primo marcatore italiano sia Pietro Aradori, al 23esimo posto con una media di 13,6 punti a partita, e che per trovare un altro italiano si debba scendere fino alla poszione numero 48 con Abass. Gli altri nei primi 70 sono Ricci (49), Moraschini (53) e Della Valle (69). In altre parole, 5 italiani nei primi 70 marcatori del campionato italiano. La situazione in ottica Nazionale non è disastrosa perché all’estero ci sono Gallinari, Belinelli, Hackett, Melli, Datome, Michele Vitali e Gentile, ma lo diventa per il senso che assumono le nostre (nostre?) squadre. Bande di sconosciuti, i cui nomi sono con poche eccezioni conosciuti solo dai propri tifosi.

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