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Sessanta saluti da Kobe Bryant

Redazione

14.04.2016 ( Aggiornata il 14.04.2016 10:56 )

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Ci sono vari modi di lasciare l'agonismo, quando l'età lo impone. Il trentottenne Kobe Bryant, dopo venti stagioni nella NBA e nei Los Angeles Lakers, ha scelto un modo davvero da Kobe Bryant: 60 punti nella vittoria, davvero imprevedibile visto che i compagni sono ai confini della decenza e gli avversari erano in corsa per i playoff (ora ne sono quindi fuori), contro gli Utah Jazz in uno Staples Center impazzito. Bryant è uscito dal campo a 4 secondi dalla fine, fra cori e lacrime di chi si rende conto che due decenni della propria vita sono trascorsi. E dire che a questi saluti ci si era preparati bene, visto che da mesi Kobe gioca in un clima agiografico-celebrativo che lo ha reso quasi fuori tempo massimo personaggio 'condiviso', lui maschio Alfa cresciuto nel mito del più Alfa di tutti, Michael Jordan, quindi strutturalmente non simpatico agli avversari e a dirla tutta nemmeno a chi gioca con lui. Cosa ha fatto Bryant nella sua straordinaria carriera è scritto dappertutto con grande evidenza, cosa non ha fatto invece si legge fra le righe e ci permettiamo di sottolinearlo, per la simpatia (meglio i 'cattivi' degli ipocriti) che abbiamo sempre avuto nei suoi confronti e non soltanto per la sua infanzia italiana. Prima di tutto Bryant non ha mai migliorato il rendimento dei propri compagni, che anche nelle versioni migliori dei Lakers spesso lo sono stati a guardare: certo, spesso li ha trascinati alla vittoria (cinque anelli lo testimoniano, anche se soltanto gli ultimi due, quelli senza Shaq, Kobe li ha vissuti come davvero suoi) ma come gregari sia in senso psicologico che tecnico. Se Jordan aveva capito che la triple post offense di Phil Jackson e Tex Winter non era soltanto uno schema base da lavagnetta, sia pure con decine di varianti, ma una vera filosofia collaborativa di vita e di gioco, Bryant l'ha sempre mal sopportata vivendola come una specie di ostacolo nella sua strada verso il mito. La seconda cosa che a Bryant è mancata è stato un vero impatto emotivo sul pubblico NBA, al di là del merchandising che lo ha quasi sempre visto in testa ad ogni classifica: l'inseguimento ossessivo nei confronti di Jordan testimoniava da solo che lui non era Jordan, con il risultato che può essere ben definito lo stile di gioco di gente molto inferiore a Bryant mentre anche noi che abbiamo visto centinaia di sue partite non sapremmo indicare un aspetto del gioco in cui Kobe sia stato il migliore di tutti i tempi. Altra cosa che Kobe non è riuscito a fare è stato l'integrarsi davvero con compagni dello stesso rango: se con Shaq, viste le personalità debordanti di entrambi, questo era scontato, lo è stato di meno con Howard, Malone, Payton, Odom, Artest, Nash e altri, con l'unica eccezione di Pau Gasol. All'inizio non amato da Kobe che lo riteneva soft (stupidaggine condivisa da molti addetti ai lavori, che non si sono arresi nemmeno di fronte al Gasol dell'ultimo Europeo), il catalano lo ha conquistato con l'intelligenza di non mettere mai in discussione la sua leadership e le sue scelte offensive. La quarta cosa che non gli è riuscita di fare è stato vincere senza Phil Jackson a guidarlo, impresa che del resto non è riuscita nemmeno a Jordan: se l'allora commissioner David Stern non avesse bloccato nel 2011 l'operazione che stava portando ai Lakers Chris Paul e Howard forse ce l'avrebbe fatta, ma non si può mai dire. All'attivo di Bryant tante cose, come abbiamo premesso, che resteranno tutte nella storia del gioco. La più grande di tutte rimane quella di avere trasformato in una battaglia sportiva anche la più sonnacchiosa delle partite di stagione regolare. Kobe ha sempre fatto sul serio, in una lega come la NBA dove due terzi delle squadre e dei giocatori vanno in campo con atteggiamento da rebuilding o da esibizione. Il suo amore e la sua ossessione per questo gioco erano evidenti, in ogni giocata si intravedeva il bambino che a Rieti, Reggio Emilia, Reggio Calabria e Pistoia questa giocata l'aveva sognata diecimila volte.

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