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Platini e il Mondiale alla Carter

Platini e il Mondiale alla Carter

Redazione

3 novembre 2015

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L'ottava edizione della Coppa del Mondo di rugby, terminata sabato scorso con la vittoria di una Nuova Zelanda straordinaria e piena di campioni a fine ciclo (su tutti Dan Carter) con la maglia degli All Blacks, è stata un grandissimo successo di pubblico: sia dal vivo, due milioni e mezzo di biglietti venduti per le 48 partite della manifestazione, sia dal punto di vista televisivo. Sorvolando sui paragoni con il calcio, impossibili per le differenze planetarie come base di praticanti e di spettatori occasionali, per quanto riguarda l'organizzazione bisogna notare che il rugby è saldamente in mano alle nazioni che lo hanno reso grande. La federazione internazionale, denominata World Rugby e con sede a Dublino, è governata da un consiglio così composto: le otto cosiddette 'foundation nations' (Inghilterra, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Sudafrica, Galles, Scozia e Irlanda) esprimono due consiglieri ognuna, altre quattro (Italia, Argentina, Giappone e Canada) ne esprimono uno ognuna e sempre uno ne esprimono le sei confederazioni continentali. Un voto a testa per il presidente e il vicepresidente della federazione. In sintesi: 28 voti totali, ma con le nazioni trainanti che ne esprimono 18 visto che presidente e vicepresidente di solito vengono dalle loro fila. Questo non significa che il rugby, stiamo parlando del rugby a 15 (cioè il rugby union), sia praticato in pochi paesi: le federazioni affiliate sono 100 e la tendenza è al rialzo, ma nemmeno le 'escluse' dal potere mettono in discussione il diritto delle nazioni leader di dettare le regole ma soprattutto di custodire lo spirito originario del gioco, per quanto retorica possa sembrare questa espressione. Un meccanismo di governo che può non piacere e che insieme ad altri fattori porta a una cristallizzazione dei valori (nei quarti del Mondiale inglese l'unica 'intrusa' era l'Argentina), ma che davvero ha preservato il rugby dalle degenerazioni di altri sport. Non che manchi il professionismo a livello di club, anche se è confinato a pochi grandi tornei, il punto è che chi esprime un movimento modesto non può contare quanto Nuova Zelanda o Australia. Un male inteso senso di democrazia, con il voto delle Cayman che vale come quello della Germania, è alla base invece di tutte le storture FIFA: la democrazia pura può funzionare solo fra entità di pari valore, o per lo meno fra chi ha gli stessi interessi. La pensa così Michel Platini, stando a chi lo conosce molto bene, che per le elezioni del 26 febbraio non solo ha come UEFA un piano B (Gianni Infantino) ma addirittura un piano C se comitati etici e personaggi disseminati ovunque da Blatter continueranno a trattare il famoso bonifico ricevuto da un conto FIFA per lavori del passato alla stregua di una delle tangenti che i tanti impresentabili transitati in questi anni a Zurigo hanno intascato in ben altre forme. Il piano C, dunque: minacciare una sorta di secessione morbida dell'Europa (Russia esclusa), inizialmente con Stati Uniti e Giappone e in un secondo tempo con Brasile, Argentina e Uruguay. E poi giocatevela voi Congo-Honduras a Qatar 2022. Per il momento una minaccia pre-elettorale che circola su alcuni tavoli che contano (anche quelli della nostra FIGC), in futuro chissà. Twitter @StefanoOlivari

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