Prima di applaudire la classe di Baggio e le geometrie di Guardiola, al Rigamonti di Brescia hanno avuto il privilegio di ammirare per due anni Gheorghe “Gica” Hagi. È stato indiscutibilmente il miglior giocatore romeno di sempre, il numero dieci per antonomasia. Tecnica, fantasia e innata leadership, oltre ad un sinistro quasi unico, lo hanno reso un calciatore di livello assoluto negli Anni Novanta.
Nasce a Săcele, un paesino del distretto di Costanza nel febbraio del 1965 ed entra nelle giovanili del Farul con il quale esordisce nel calcio professionistico. Si ispira a Iordanescu e Cruyff, a 13 anni indossa la prima maglia della nazionale, percorre tutta la trafila fino a saltare l’Under-21 perché Mircea Lucescu, suo grande maestro, lo pretende nella squadra maggiore e lo lancia in una amichevole contro la Norvegia, due anni dopo, appena ventenne, è già il capitano. Hagi si conferma intanto nello Sportul e finisce alla Steaua Bucarest, club gestito dal figlio adottivo di Ceaușescu e fresco campione d’Europa. In realtà, viene preso in prestito per giocare solo la finale di Supercoppa europea contro la Dinamo Kiev e quella gara la decide proprio lui, da giocatore di passaggio per una sola sera, rimane e diventa l’uomo nuovo della squadra di Bucarest.
Vince tre campionati e tre coppe nazionali di fila, è il giocatore di maggior spicco della Steaua e nel 1989 incontra il Milan di Sacchi in finale di Coppa Campioni: i rossoneri schiantano i romeni 4-0 ma un anno dopo Hagi compie il salto decisivo anche grazie al crollo del regime e vola al Real Madrid.
Con i Blancos non riesce a confermarsi fino in fondo, alterna magie, come il celebre gol all’Osasuna da centrocampo, a prestazioni meno convincenti e così arriva il momento di una nuova sfida, la Serie A.
Nel luglio del 1992 Corioni lo strappa al Real per otto miliardi, il giocatore invece, convinto anche da Lucescu già tecnico del Brescia, firma un triennale. Hagi accetta e si aggiunge alla colonia romena composta dall’allenatore, dal centrocampista Ioan Sabau e dal centravanti Raducioiu. La stagione delle Rondinelle appena promosse è però complicata e si conclude con la beffa della retrocessione dopo lo spareggio perso contro l’Udinese. Hagi disputa 31 partite, con 5 gol e 2 assist, non trova mai la giusta continuità di rendimento e spesso predica nel deserto.
Rimane a Brescia e scende di categoria, un anno di Serie B, la promozione è immediata e arriva anche un trofeo ad impreziosire la risalita delle Rondinelle, i biancoblu vincono la Coppa Anglo-Italiana 1993-94 battendo in finale a Wembley il Notts County con una rete di Ambrosetti.
Hagi saluta l’Italia dopo due stagioni e 15 gol per guidare la Romania nel mondiale statunitense. Segna nelle prime due partite (geniale il gol alla Colombia) e si ripete anche agli ottavi contro l’Argentina. I rigori con la sorprendente Svezia ai quarti regalano al numero 10 solo delusione ed amarezza, i romeni tornano a casa e Gheorghe vira sulla Spagna, stavolta con destinazione Barcellona dove ad attenderlo c’è il suo idolo Cruyff. La seconda esperienza in Liga è ancora avara di soddisfazioni, pochi gol, qualche sprazzo e nessun titolo. Dopo Euro ’96, il Galatasaray gli offre la possibilità di tornare a grandi livelli e Hagi non tradisce. Vince tutto in Turchia alzando anche due trofei europei: nel 2000 la coppa Uefa conquistata in finale contro l’Arsenal e subito dopo un’altra Supercoppa contro il Real. L’ultima recita del fuoriclasse con la maglia della nazionale si consuma agli Europei di Belgio-Olanda, il leader della Romania è sempre lui, chiude la sua avventura ai quarti, proprio contro l’Italia, dopo aver autografato con i suoi tacchetti la caviglia destra di Antonio Conte in seguito ad un’entrata assassina.
Nel 2001 viene nominato CT della nazionale romena, sei mesi soltanto e poi inizia a vagare per diverse panchine, tra cui anche quella del suo Galatasaray, senza mai riuscire a ottenere grandi risultati e a ripetere le prodezze di quando calcava il campo.
Nominato giocatore romeno del secolo, il “Maradona dei Carpazi”, miglior calciatore nazionale per ben sette volte, “Fotbalistul de rasa” come lo ha etichettato recentemente il giornalista Federico Buffa, ha detto senza mezzi termini di non aver vinto il Pallone d’oro nella sua carriera solo perché era romeno. Nel frattempo però, gli è stato dedicato lo stadio della sua città mentre la casa in cui è nato è stata trasformata in museo. Eccezioni e celebrazioni che possono riguardare solo i più grandi.
Matteo Ciofi