Sono bastati appena sei giorni al Mondiale brasiliano per consumare la prima deflagrazione. Due giornate per decretare il primo impietoso verdetto che impone un brusco stop allo straordinario ciclo della Spagna. Proprio nel giorno della successione della corona di Re Juan Carlos, la Roja abdica in favore di Cile e Olanda e saluta il Brasile con un turno d’anticipo. Volendo romanzare, sembra la fine di due regni, uno per scelta e indolore, l’altro obiettivamente meno. Che la squadra di Del Bosque, quanto meno per un discorso statistico, partisse in leggero ritardo alla corsa al titolo, era prevedibile, ma una debacle di tale portate ha stupito tutti. Sette gol subiti e uno segnato su rigore in due partite sono numeri maledetti per i campioni di tutto. Per una squadra imbattuta nelle qualificazioni, prima nel ranking FIFA ormai da un lustro e, soprattutto, capace nei due ultimi successi (Europei 2012 e Mondiali 2010) di accompagnare al celebre tiqui-taca una solidità difensiva invidiabile. Che tradotto in cifre significa tre reti al passivo in due competizioni internazionali, poi vinte. Dando ai numeri e alla storia un valore relativo, perché, in fondo, in campo scendono i calciatori dell’oggi, anche dal punto di vista tecnico gli iberici hanno presentato un gruppo tutt’altro che poco attrezzato, con uno zoccolo duro formato da Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid, e gli altri da distribuire tra Bayern Monaco, Chelsea, Arsenal i due Manchester e il Napoli. Ovvero una rosa intera che ha disputato la Champions League, di cui oltre metà arrivata alle semifinali e impegnata fino a maggio inoltrato nella corsa al titolo nazionale. Un curriculum prestigioso che nella terra carioca non ha però mantenuto le aspettative, schiacciato da un secondo tempo folle contro l’Olanda e dalla garra dei cileni. Sorvolando sugli indiscutibili mezzi tecnici, ciò che ha veramente traballato è la filosofia del difendersi attaccando. Il prolungato possesso palla reso immenso da Guardiola e sintetizzato in maniera perfetta da Del Bosque ha mostrato le sue falle. Più per un problema di interpretazione che di concetto. La differenza di velocità di scambio tra la Spagna attuale e quella di due anni fa, è un macigno insostenibile, soprattutto in una competizione dal ritmo forsennato e contro, forse, due tra i peggiori avversari possibili tra tutte le squadre del Mondiale. I compassati triangoli spagnoli sono sembrati più fini a se stessi che funzionali a un’accelerazione sui sedici metri. Pressione, frustrazione e competitor di rosso e d’arancio vestiti hanno fatto il resto. Molto in linea con il Barcellona, emblema di quel calcio spagnolo. Spinto a un passo dalla meta dal talento e privato dell’alloro proprio sul rettilineo finale, dove servono gamba e polmoni. Lo scorso anno in Champions League il Bayern ne aveva intaccato le certezze, nella stagione appena conclusa, paradossalmente, Real e Atletico hanno trionfato discostandosi dalla filosofia campanilistica. Non per rifiuto a priori, ma per un’utilità finalizzata all’obiettivo. A Del Bosque sono mancate freschezza e, forse, un po’ di fame in più. Stravolgere la propria idea di calcio sarebbe stato complesso e non necessariamente garanzia di un risultato diverso, ma l’arruolamento di Diego Costa, adesso, fa pensare a qualche piccolo presagio. Il fallimento Mondiale è una ferita profonda, ma non determina la bocciatura di un calcio che ha incantato. La Spagna ha ancora forza e talento notevoli e una nuova generazione (Alcantara, Isco, Morata, Illaramendi) in grado di vincere. L’importante, per loro, è che accelerino.
Fabrizio Tanzilli