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Mondiali, gli sconfitti di lusso

Redazione

10 giugno 2014

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La bellezza di un Mondiale è anche e soprattutto in tutto ciò che racconta, nell’eredità che lascia alla storia e nella lettura che se ne può trarre. Storie di squadre e paesi che per un mese vivono sospesi con il mondo che li osserva e che, al di là del verdetto del campo, si consegnano alla memoria. Che da sempre abbraccia vincitori e vinti. E di vinti, dal 1930 ad oggi, in quasi un secolo, il Campionato del Mondo ne ha offerti di illustri, ognuno specchio di una propria dimensione o veicolo di un’idea ben definita. Non solo l’Olanda degli anni ’70 o l’Ungheria di Puskas, la storia dei Mondiali ci consegna una collezione di istantanee, di disfatte sportive e sogni sfumati. Alcuni a pochi secondi dalla sirena, altri, meno intuitivi, in corso d’opera. Sconfitte che passano alla storia e rimangono indelebili perché  come successi, alcune, e incredibili sprechi, altre. L’Ungheria del 1954 e l’Olanda di Michels, sono gli esempi più scolpiti nelle nostre memorie. Formazioni romantiche e rivoluzionarie, rimaste con l’urlo di gioia strozzato in gola, eppure arrivate al Mondiale con un pedigree completamente diverso. Mentre i magiari si presentavano come campioni olimpici in carica, grazie al successo sulla Germania Ovest nella finale di Helsinki del 1952, gli Orange, nonostante la ventata di cambiamento portata da Feyenoord e Ajax,  si sono presentati al Campionato del Mondo tedesco del ’74,  di sicuro privi dell’etichetta dei favoriti. Il cammino, oltre i pronostici, è stato poi pressoché identico. L’Ungheria di Sebes, la prima squadra assieme alla Honved, della quale ne era la prosecuzione in ambito internazionale, a introdurre il concetto di spazio, a parte la “Battaglia di Brema” contro il Brasile, arriva all’atto conclusivo del torneo con esagerata facilità, tra l’altro spazzando via anche i campioni del mondo in carica dell’Uruguay. L’Olanda, scintillante nella sua divisa arancione, si è disfatta di ogni avversario, compresi l’Argentina, con un abbondante quattro a zero, e il Brasile erede del 1970, con il gioco più bello mai visto. Entrambe hanno trovato sulla propria strada la Germania Ovest, che nel ’54 ha represso la libertà e vent’anni dopo ha ammutolito la rivoluzione, ma senza scalfirne il mito. A Puskas, Hidegkuti e Czibor, come a Cruyff e Neeskens, alla fine non è  neppure servito alzare la Coppa del Mondo (o la Coppa Rimet), la Aranycsapat (la squadra d’oro) e l’Arancia Meccanica erano già un capitolo della storia. Lacrime amare ne ha versate anche la Nazionale brasiliana, in due occasioni, in cui a Rio già si pensava a festeggiamenti e caroselli. Dal dramma del 1950 all’incredulità dell’82, due Mondiali che i verdeoro hanno gettato via per incauta presunzione. Nel campionato del mondo casalingo sono stati Schiaffino e Ghiggia a congelare il Maracanà e a consegnare a Pelè e Garrincha, otto anni dopo, il compito di portare i sudamericani sul tetto del mondo. Una vetta che alla vigilia del torneo spagnolo del 1982 sembrava davvero già pronta alla samba. Una squadra talentuosa come quella di Socrates e Zico, con Falcao e Cerezo a metà campo, raramente si era vista. Eppure, la scarsa propensione ad accontentarsi di un banale pareggio, è stata ancora una volta fatale. E dalla rete di Ghiggia alla tripletta di Paolo Rossi i trentadue anni di distanza sono passati in un baleno. Una beffa dolce allora, ma che ha poi presentato agli azzurri un conto molto salato, almeno fino alla fine degli anni ’90, con il Mondiale disputato proprio in Italia, come esempio principe della perfida ritorsione del destino. La Nazionale di Vicini aveva tutto per festeggiare in casa la Coppa del Mondo: una squadra ricca di campioni, solida, con un giovane genio di nome Baggio e un bomber baciato dal cielo come Schillaci. Tutto si è infranto su una zuccata di Caniggia, unico gol subito dagli azzurri, a venti minuti dalla finale di Roma. La Germania, seppur forte, come da tradizione, si sarebbe inchinata. Ma se per le solite note basta fare un esercizio di memoria, per altre, meno stellate, occorrono sforzi e ragionamenti maggiori. Come per la Jugoslavia, sempre nel ’90. Una generazione dal talento cristallino, che un anno dopo, avrebbe trionfato in Coppa dei Campioni con la maglia della Stella Rossa, prima di essere spezzata dalla guerra. Le loro notti magiche, però, si sono infrante ai rigori contro l’Argentina, immeritatamente. Con molta probabilità gli slavi non sarebbero riusciti a superare Italia e Germania, ma quel Mondiale era solo una nitida anteprima di ciò che avevano tra i piedi. Il preludio a una nuova Ungheria, meno disciplinata magari, ma dalle potenzialità indiscusse. Il conflitto bellico, restando al calcio, li ha privati degli Europei del ’92 e dei Mondiali del 1994, dove maturità e consapevolezza avrebbero fatto la differenza. Trionfare nelle sconfitte, parafrasando Michel de Montaigne, filosofo francese del ‘500, richiede dignità e sacrificio pari a chi i trofei li alza al cielo e può lasciare molto più indelebile di una stella sul petto. E se oggi la Honved è comunque più conosciuta della Nazionale tedesca del ’54, qualcosa vorrà pur significare. Fabrizio Tanzilli

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