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Mura ricorda Di Bartolomei

Redazione

03.06.2014 ( Aggiornata il 03.06.2014 12:05 )

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Sono passati vent'anni dalla morte di Agostino Di Bartolomei, giustamente ricordato in questi giorni, sia dal calcio che dai suoi amici più stretti. Proprio a uno di questi, il medico Nicola Provenza, debbo una serata meravigliosa trascorsa un mese fa a Salerno, città adottiva di Di Bartolomei. Una serata condotta da Gianluca Di Marzio e ricca di contenuti, accompagnata dall'attenzione e dal calore di tantissimo pubblico. Va detto: cose che al Sud succedono più spesso che non al Nord. In quella stessa serata, è stata letto un saluto che Gianni Mura, il "nostro" Gianni Mura, ha voluto inviare ai partecipanti e alla famiglia di Ago. La ripubblico qui, perché lo trovo l'omaggio migliore per ricordare un gigante. Vent'anni dopo, campione immenso e fragile, nessuno ti ha dimenticato. Ciao, Ago. di Gianni Mura Bello che a distanza di 20 anni ci si ricordi di Agostino Di Bartolomei e intorno al suo ricordo si organizzi un evento legato al calcio e ai suoi valori. Non valori economici, di quelli si parla già fin troppo. Bello, giusto e anche doloroso. Vedrò di spiegare questi tre aggettivi. Bello perché una delle caratteristiche del calcio contemporaneo è la mancanza di memoria. Si vive in un presente tempestoso e davanti, nel futuro, si vedono più nuvole nere che schiarite. Bello perché il ricordo nasce a Salerno e in Cilento, una città e una terra cui Agostino voleva bene. Bello perché sua moglie e suo figlio possono sentire quanto affetto sia ancora vivo per il capitano morto. Non è solo una questione di "parce sepulto", è che di Agostino era ed è quasi impossibile dire male, fosse su un campo di calcio o fuori. Non uso volutamente la formula, tanto usata oggi, "come calciatore e come uomo" perché non credo che l'uomo e il calciatore siano scindibili. La serietà e il senso della  misura di Agostino erano quelle imparate da ragazzo, in famiglia e nelle prime squadrette a Tormarancia. Bello, ancora, perché so che a Marisa e a Luca non sono mancate in questi vent'anni le testimonianza d'affetto, le dichiarazioni di vicinanza. Non riempiranno un grande vuoto, una lunga assenza, ma aiuteranno a conviverci. Giusto:perché tutti gli atti d'amore sono giusti e perché Agostino amava il calcio. Il suo calcio, tanto lontano da questo. Ma il suo è anche il mio, è anche il vostro o di molti di voi. Sarebbe facile etichettarlo come il calcio della nostalgia. Ma era il calcio della lealtà, dell'impegno, dell'esempio, della correttezza, dei rispetto dei ruoli e delle regole. Quando Luca Di Bartolomei ha riordinato gli appunti di suo padre e ne ha tratto un manuale ad uso dei bambini e dei loro istruttori (figure importantissime quanto trascurate o svilite, spesso), queste parole erano le colonne portanti. Come tutti gli sport, in particolare gli sport di squadra, il calcio può educare alla convivenza, aiutare a crescere. E, più in là, può dare soddisfazioni, notorietà, ricchezza, ma anche dolori, frustrazioni, miserie. La fase formativa è la più importante. Chi viene dopo, allenatori di squadre professionistiche, saprà valutare. Non è un caso che i primi a credere in Agostino siano stati Scopigno e Liedholm, due tecnici che non avevano una visione banale nè del calcio né della vita. Doloroso: penso che avrei potuto evitare questo aggettivo e le considerazioni relative. Ma non lo faccio, perché il ricordo di una persona seria impone serietà. Di un calcio non ancora arrivato ai livelli d'inciviltà che abbiano misurato di recente, di un calcio arrogante, violento e disumano Agostino era presago, ne riconosceva e combatteva i batteri. E ne è stato vittima. Ha misurato com'è profondo il mare, quando si è stanchi di nuotare in mezzo a onde sempre più ostili e fredde. Capitani non si nasce, si diventa, avevo scritto vent'anni fa in fondo a un pezzo che mai avrei voluto scrivere. Agostino Di Bartolomei è stato un grande capitano e un grande calciatore, altro che bravo ma lento. Che poi, quale sarebbe l'opposto? Brocco ma veloce? Non era lento, era riflessivo. Me ne accorsi la prima volta che lo intervistai, nella sua casa sulla Laurentina. Soppesava le domande e le risposte, non era il calciatore che ogni due minuti guarda l'orologio e ti fa capire che non vede l'ora di smetterla.  Parlava dell'importanza dell'educazione, della formazione, sosteneva la necessità di inserire, nelle scuole elementari, la storia dello sport. Non del calcio soltanto, di tutto lo sport, perché il capitano aveva l'occhio lungo. A quei tempi, la fascia da capitano non si dava al più famoso e osannato dalla curve, ma al più riflessivo e responsabile. A quei tempi succedeva che un calciatore avesse più idee che tatuaggi. E che, segnato un gol, sfuggisse le ammucchiate, le capriole, i trenini, insomma il folclore. Agostino diceva che la velocità del gioco è un falso mito e che bisognava tornare a insegnare la tecnica. Parole d'oro, ieri come oggi. Era avanti, Agostino, ma il mondo del calcio lo ha lasciato indietro. Della sua passione, della sua serietà, della sua voglia d'insegnare  non c'era bisogno. Invece sì, ma è tardi per dirlo. Non riesco a pensare a Salerno senza pensare al suo poeta, Alfonso Gatto. E per questo ricorro alle parole di un altro poeta. "Canto la sua eleganza con parole che gemono/ e ricordo una brezza triste tra  gli olivi". le scrisse Federico Garcia Lorca per chiudere un lungo poema in morte di Ignacio Sanchez Mejias, torero incornato a morte nell'arena. E non si risentiranno Lorca e il torero se le uso, in questa giornata bella ,giusta e dolorosa, per Agostino Di Bartolomei.

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