di Giovanni Tarantino
Chiacchierando con Massimo Raffaeli c’è la tentazione di cedere al paragone tra il cosiddetto calcio moderno e quello dei tempi andati. Il suo ultimo libro, La poetica del catenaccio e altri scritti di calcio (Italic/Pequod, pp. 258, euro 16) è l’atto terzo e ultimo di una trilogia iniziata con L’angelo più malinconico (2005) e proseguita, poi, con Sivori un vizio (2010). Anche La poetica del catenaccio è un libro declinato al passato. Eppure Raffaeli riesce a parlare di storie di calcio senza cedere alla retorica della nostalgia. Forse perché, dopo tutto, essendo lui un filologo, l’oggetto principale dei suoi scritti è il nesso inscindibile tra calcio e letteratura. O forse perché, anteponendo il senso critico al tifo, riesce ad avere una visione del calcio non omologata al sentire comune dei giorni nostri. Sicchè può emergere dal suo profilo un «autoriconoscimento alla visione delle maglie della Juventus» e un totale disinteresse alla conta degli scudetti cominciata nella stagione di Calciopoli, o altrettanta indifferenza nella obsoleta difesa del cosiddetto stile Juve.
Nell’antefatto narrato ne La poetica del catenaccio spiega di essere diventato ipso facto juventino alla visione giovanile di Sivori. In Sivori un vizio, tuttavia, aveva dichiarato che detesta il tifo considerato «una religione secolarizzata e decaduta, oggi vero e proprio fondamentalismo», preferendo «una passione, con tutto ciò che essa comporta di vivo e di umano». Un po’ come Giovanni Arpino, che ricordava che «tifo», in greco, vuol dire «nebbia». È la passione per il calcio – quella autentica –, allora, l’alternativa “costruttiva” alle degenerazioni del tifo?
Mi capita anche oggi di sentirmi indifferentemente un tifoso e un appassionato. Tuttavia sono due stati d’animo profondamente diversi, l’uno prodiga sensazioni tribali, l’altro si riferisce a una tensione più introversa e più complessa. È vero che nella etimologia della passione c’è il patire, il soffrire, ma non c’è per fortuna la cecità del tifo che invece è programmatica, accarezzata e di continuo autoalimentata. Perché il tifo è un impulso che esige il proprio trionfo nell’umiliazione e nella cancellazione, non solo simbolica, dell’altro. Nella passione, viceversa, non viene necessariamente ammutolito lo spirito critico, mentre il tifo lo spegne a priori. L’ho imparato tardi, non prima dei miei trent’anni (anche se sono stato sempre un tifoso mite) ma questo l’ho imparato davvero e ne ho tratto degli autentici benefici. Se il tifo è una religione, un credo, una presunzione identitaria, mi chiedo cosa possa vivere realmente del calcio e nel calcio chi vi si riconosce: forse solo una esperienza amputata, mutilata, o deformata. Se per esempio tu non tieni per l’Inter o per il Milan, che cosa te ne resta delle giocate di Van Basten o di Milito, i due massimi attaccanti dell’ultimo trentennio? Forse un rancore o un risentimento. Una sottaciuta invidia. Ma l’invidia, se la analizzi criticamente, si rivela sempre una forma inconscia, persino violenta, dell’ammirazione. Dunque siamo daccapo.
Lei ha più volte dichiarato che le sue predilizioni «hanno presto assunto sembianze, per così dire, politeiste». Si rende conto che questa affermazione ribalta la prospettiva (identitaria) secondo la quale siamo stati «educati» fin da piccoli per cui la squadra del cuore è una sola e non si cambia?
Ciò che una volta ho chiamato politeismo corrisponde ad alcune tappe della mia formazione. Juventini erano in casa i miei zii e uno di costoro, il fratello di mio padre, mi portò con sé a Bologna quando avevo sei anni: era l’anno dello scudetto di Fulvio Bernardini, il ’63/’64, la Juventus fu battuta ma Omar Sivori segnò un gol che nessuna moviola potrebbe restituirmi nella sua bellezza plastica. Essere juventino, per me, è restare fedele a quell’attimo, ai calciatori che giocavano quel giorno intorno a lui. Non molto di più, anche se a quell’attimo si lega un automatismo tuttora funzionante, per cui quando vedo una maglia bianconera scatta sempre un certo meccanismo di proiezione e di autoriconoscimento. Lo stesso dico della Lazio: fino ai miei diciannove anni, ogni mese di settembre lo passavo a Roma in casa di parenti, tutti quanti laziali come sono a Roma i “burini”. Abitavano a duecento metri dallo stadio Flaminio, dove ho visto giocare (si trattava di partite di precampionato o di Coppa Italia) la squadra di Giancarlo Morrone e di Nello Governato, lo scrittore di cui sarei tanti anni dopo divenuto amico. Non era proprio una squadra di assi ma dovrei dimenticarla? O, peggio, scegliere tra le due? Ma scegliere tra che cosa, nel qual caso, tra due spazi e tempi della mia vita? Non vedo perché dovrei. Non basta: negli anni settanta, ho vissuto a Bologna da studente universitario e naturalmente, la domenica, mi capitava di andare alla partita, perché allora il welfare esisteva e gli studenti godevano di prezzi ridotti. Ho visto le ultime partite di Giacomino Bulgarelli, un artista del gioco costretto a pedalare in una squadra mediocrissima. Dovrei scordare anche questo per soggiacere alla metafisica monoteista del tifo? Non c’è nulla di nostalgico nella mia equanimità, c’è solo una sequenza strutturata di esperienze e di ricordi che proprio non vogliono smemorarsi o inquadrarsi in una gerarchia.
Sulla scorta di argomenti del genere, il giornalista Gigi Garanzini ha parlato di una necessaria «disintossicazione dal tifo». Eppure, ribaltando la prospettiva, le chiedo: un calcio senza tifo sarebbe un calcio senza colori? Il senso del calcio sta o non nel parteggiare per qualcuno e nello schierarsi?
È una domanda che gli appassionati di boxe (come me, che da ragazzo l’ho praticata) o di scherma non si farebbero mai. Si dirà che sono sport individuali, e va bene. Ma evidentemente gli sport di squadra evocano le risposte del branco. Il tifo è fanatico per elezione, “fan” deriva da “fanum” “tempio”. Io preferisco i profani, gli uomini scettici che rimangono fuori del tempio, senza genuflettersi a pregare e invocare qualche miracolo o, peggio, qualche guerra santa contro gli infedeli. Non penso sia un caso che la tv abbia ufficializzato il ruolo dei cronisti-tifosi, vale a dire dei giornalisti che sono lì per obbedire non al diritto/dovere della cronaca e della critica bensì per sovvenire alle esigenze impellenti (primordiali) della faziosità. Siamo alla formattazione del fanatismo, al suo accreditamento ufficiale. Ma siamo anche, ritengo, alla normalizzazione dell’accecamento.
Ne La poetica del catenaccio viene recuperata la figura di Salvatore Bruno, l’autore del romanzo L’allenatore. Lei regalò una copia di quel libro al suo beniamino Omar Sivori. Salvatore Bruno è stato dimenticato troppo presto?
Salvatore Bruno, non so se dire purtroppo o per fortuna, rimane un perfetto outsider nonostante diversi tentativi, negli ultimi anni, di riproporne l’unico romanzo, L’allenatore, che non è un romanzo sul calcio ma piuttosto un romanzo di formazione anni sessanta che nel calcio (nel tifo delirante per una squadra, proprio la Juventus di Omar Sivori, cui il libro è espressamente dedicato) presume la ricompensa fantasmatica a una vita altrimenti mancata, o fallita. È scritto in un’unica presa di fiato, è un’opera di grande compattezza linguistico-stilistica, è il vero ritratto dell’artista da tifoso, eppure aspetta ancora i suoi lettori. Che lo avessero proposto, nel ’63, Romano Bilenchi, Cesare Garboli e Geno Pampaloni, che Bruno avesse mantenuto degli estimatori, non ha affatto cambiato le cose. Bruno è morto nel 2001, solo e dimenticato, a Presicce, il paese natale cui era tornato dopo gli anni della bohème romana. È comunque una buona notizia che un giovane ricercatore leccese, Daniele Greco, abbia appena finito di scrivere una sua documentatissima biografia.
È celebre l’assunto pasoliniano secondo cui il calcio sarebbe «l’ultima rappresentazione sacra» del nostro tempo. Si ha l’impressione, tuttavia, che tale rappresentazione sia stata “dissacrata”. Da cosa?
Sì, Pasolini pensava che il calcio fosse la necessaria permanenza del sacro nelle società affluenti del neocapitalismo. Presumo, dal mio limitatissimo punto di vista, che la dissacrazione vi fosse già iscritta: c’è qualcosa, qui e ora, che può mai esulare dalla forma della merce e dalle dinamiche del mercato? Il calcio non fa eccezione, così come il tifo che ne è la fattispecie ideologica, vale a dire la falsa coscienza tanto più accecata e subalterna quanto più si presume libera dai vincoli del mercato e portatrice di un credo parareligioso indenne da interessi economici, finanziari, mediatici, politici. Il calcio che i media introducono nelle case di milioni di persone, il suo racconto spesso sgangherato e sfacciato, è solo una variante, e fra le più perniciose, del populismo. In questo gli ultras organizzati, se pure sono i più pericolosi, sono anche i più conseguenti. Ogni volta che sbroccano, come si dice a Roma, le società di calcio se ne sdegnano, se ne dicono contrite e allarmate ma sanno bene che gli ultras rappresentano in essenza il pubblico allo stadio, essi sono la parte specifica e predeterminata di un tutto anonimo e sempre aleatorio (cioè il pubblico indeciso fra la gradinata e la tv nella sala da pranzo). Gli ultras per parte loro, che lo sappiano o no, che lo vogliano o no, avvalorano lo stesso sistema che dichiarano di voler contestare: alzano la posta in gioco, sublimano la merce mettendola a rischio. Mi hanno spesso fatto notare che ci sono ultras e ultras, che alcuni si richiamano a simboli e icone rivoluzionarie ma fatto sta che dalle curve degli stadi, in città come in provincia, normalmente si intonano cori antisemiti, xenofobi, razzisti. Non ho alcuna simpatia per gli ultras, non ne ho mai avuta.
Il pensiero unico che la fa ormai da padrone in politica, in tv, nel costume italiano si è appropriato anche del calcio. Ore di talk show su operazioni immaginifiche di calciomercato, telecronache enfatizzate fino all’inverosimile. Siamo a un punto di non ritorno?
Non lo so se siamo a un punto di non ritorno. La forma inclusiva/espansiva del mercato conosce limiti solo in sé stessa, non ha confini visibili e preordinati dall’esterno. Chi ne ha coniato la definizione, Ignacio Ramonet, ha anche scritto che nel pensiero unico la ripetizione sostituisce la dimostrazione. La forma della radiocronaca e quella del telegiornale tendono ormai a essere una cosa sola, il tg apre con una drammaturgia musicale simile all’aria di Haydn che introduce le partite di Champions, Enrico Mentana scandisce l’edizione delle 20 per La 7 allo stesso ritmo con cui Fabio Caressa racconta le partite di calcio o presume di farlo: che Mentana disponga di un buon italiano e Caressa invece si compiaccia di un gergo sciamannato non cambia affatto le cose. Tutto questo è abbastanza allarmante e vuol dire, a casa mia, che il tifo ha cancellato o surrogato il pensiero critico.
Siamo alla fine della storia nel calcio, oppure lei valuta sbocchi positivi per il futuro? In altre parole: un altro calcio è possibile o dobbiamo arrenderci alla malinconia?
Non siamo alla fine di niente né all’inizio di qualcosa. Del resto temo la nostalgia, perché il calcio premoderno, quello che precedeva l’attuale Neocalcio (come l’hanno definito Liguori e Smargiasse, quasi fossero al cospetto di una neoplasia) aveva altri problemi e non minori problemi. La malinconia non è affatto la nostalgia, la quale spasima perché torni dal passato un qualche fantasma. La malinconia, al contrario, è il sintomo di una perdita o di un manque come dicono i francesi. Per me, manca proprio il pensiero critico, fatte salve le ovvie e reverende eccezioni, ma questa è una mancanza che non affligge solamente il calcio, purtroppo.
Il «nesso abissale» che lei rileva tra calcio e letteratura che riflessioni può suggerirci?
È una domanda molto personale, probabilmente dovuta al fatto che, specie negli ultimi anni, mi è capitato di occuparmi più volte di calcio e di scrittori che lo abbiano trattato, da Giovanni Arpino a Gianni Poter scegliere tra un numero molto ampio di
giochi casino permette a tutti i giocatori di non annoiarsi mai. Brera da Mario Soldati allo stesso Salvatore Bruno. Rispondo con le parole di un amico, il poeta Antonio Prete, secondo cui nel calcio e nello sport in generale si può inseguire «un’altra armonia», diversa ma non sempre indegna della letteratura. Personalmente, sono convinto che l’arte dia forma compiuta all’incompiutezza frammentaria di ogni singola vita: ebbene, anche una partita di calcio, sia pure a momenti e per intermittenze, può alludere alla restituzione della compiutezza. È quello che ogni tanto mi capita di vivere andando allo stadio o solo vedendo una partita in tv. Non capita spesso ma capita ancora, ed è per questo che la mia passione, dopo tutto, non è venuta meno.
Personaggi come Gipo Viani, o Cina Bonizzoni, di cui lei parla nel suo libro, sono relegati per sempre in un passato che non tornerà? Il calcio di oggi è così incapace di riproporre personaggi “veri”?
I personaggi esistono ancora, eccome, anche se sembrano tutti di riporto o di secondo grado, come fossero dei replicanti o delle istallazioni postmoderne. Faccio solo due esempi: Mourinho, grande tecnico e sommo trombone, è un Herrera globalizzato, mentre Benitez, così saggio e pacioso, fa venire in mente un Nereo Rocco con tanto di laurea. La loro verità non è un originale, oggi forse impossibile, ma nel loro essere contraffazioni d’autore. Lo stesso si potrebbe dire di Messi e Cristiano Ronaldo, che ammiriamo, eppure (parlo per me) sempre sospettiamo ripetano un qualche precedente. È per questo che amo, paradossalmente, Ibrahimovic, perché la sua strafottenza, la sua maleducazione, il suo cinismo, il suo efferato opportunismo sono autentici e si offrono per quello che sono: Ibra è un uomo probabilmente insopportabile, tutto gli si può imputare ma non il fatto di mascherare la natura, i meccanismi e le finalità dell’attuale football professionistico.
Il calcio a cui lei è legato era forse più lento di quello di oggi. Il cosiddetto calcio moderno la attrae comunque? Continua a seguirlo?
Come ho già detto, continuo a seguire il calcio e, quando capita, vado allo stadio (più spesso a Bologna, due ore da casa mia, una città cui torno sempre volentieri). Anche se magari vincono meno delle altre, mi attraggono le squadre più tradizionali, quelle in cui la geometria degli schemi e la caratura tecnica siano ancora visibili. Il Barcellona ha stravinto, ma quel gioco simile al flipper (dove, a parte le accensioni di Messi, non si tira mai in porta e anzi si presume di entrarci col pallone e tutto) mi annoia mortalmente; molto meglio l’Inter di Mourinho, che l’ha battuto adattando il vecchio (e “santo” diceva Brera) catenaccio. Anche la Juve di Conte non mi entusiasma, perché vedo che il numero delle conclusioni a rete è inversamente proporzionale al numero dei passaggi più o meno oziosi. Allora, per quel poco che ne ho visto quest’anno, preferisco il Napoli di Benitez, capace di affondi e di cambi di marcia repentini, talvolta spettacolari.
Di tanto in tanto si assiste a riproposizioni del passato che ritorna. Lei ha scritto del centenario del Bologna. Di recente i 120 anni del Genoa, società più antica d’Italia, sono stati celebrati in grande stile. Anche la Juventus, nel suo Stadium, ospita un museo. A che punto è l’Italia calcistica quanto a valorizzazione della sua storia?
I tifosi, specie quelli più giovani, sanno poco della storia del calcio, in genere ignorano la storia del club per cui dichiarano di fare il tifo. Ma non è un male, anche questo, che in Italia riguardi solo il calcio. L’Italia è un paese che rigurgita di “memoria” e di rituali della memoria ma ignora i fatti della sua storia. Se posso fare un esempio eclatante: il 27 gennaio da più di dieci anni è vissuto come la giornata che riguarda in esclusiva gli ebrei e le altre minoranze sterminate dal nazifascismo. Dovrebbe essere invece la giornata in cui i buoni cristiani, finalmente memori della propria storia, s’interrogano sul perché abbiano programmato, attuato o tollerato lo sterminio delle minoranze che da secoli vivevano con loro. Se una simile e disinvolta contraffazione può capitare alla Shoah, come stupirsi dell’ignoranza che riguarda la piccola storia del calcio?
La malinconia, lei dice, a differenza della nostalgia, è la spia di una mancanza. Cosa manca al calcio dei giorni nostri?
C’è un saggio, celeberrimo, di Freud, Lutto e malinconia, che ne spiega l’origine connettendola a una perdita. Lo ripeto: sento perduto il bene della critica quale bene comune e, anzi, di senso comune. Critica vale, per etimologia, “distinguere, valutare e giudicare”. Si capisce che il tifo (imperante, invadente, dogmatico) non può che esserne l’antipode, mi verrebbe da dire il carnefice.
Erick Thohir che rileva l’Inter, ponendo fine all’epopea della famiglia Moratti, è la fine di un mondo?
A me non fa nessun effetto che Moratti se ne vada e arrivi un quidam indonesiano ancorché miliardario. Non sono un nazionalista e mi hanno insegnato da piccolo che pecunia non olet, il denaro non ha odore. L’Alitalia e la Parmalat sono fallite eppure erano dirette da italiani, non da indonesiani. Perché dovrei stupirmi o adontarmi di Tohir? Vediamo come è capace di gestire una squadra che ha il peso e la storia dell’Inter. Il capitalismo italiano è familistico ma dubito che potrà continuare ad esserlo. Per me, un capitalista indonesiano, in sé, non è meglio né peggio di uno nato in Lombardia o in Piemonte. Che faccia il suo mestiere, se lo sa fare.
Crede nel possibile successo del cosiddetto fair play finanziario?
Temo che il fair play finanziario sia una pia illusione o una pudibonda foglia di fico. Vale per i piccoli club, o per quelli condotti sull’abbrivio di una cultura gestionale ben consolidata, ma vale molto meno per alcune grandi società che continuano a spendere e spandere anche quando non potrebbero: voglio ricordare che il Real Madrid ha appena acquistato un giocatore per una cifra che sfiora (qualcuno dice eccede largamente) i 100 milioni di euro. Di che cosa stiamo parlando?
Ne La poetica del catenaccio, al capitolo intitolato Black, fa una «dedica» a Jean Marie Le Pen. Il calcio è davvero malato di razzismo?
Il calcio specialmente in Italia è una culla del razzismo, altro che. Se l’antisemitismo o comunque il razzismo, come disse qualcuno, è il socialismo degli imbecilli, il calcio rigurgita di tensioni sociali deviate, allucinate, dove il nemico non è chi ti licenzia o ti affama, ma uno come te o anche messo peggio di te e cioè, di volta in volta, il meridionale, l’extracomunitario, il nero, l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale, lo straniero. Non è una grande novità, purtroppo. Balotelli è un ragazzo caratteriale ma non si dimentichi che è cresciuto a Brescia, dove qualche anno fa un assessore propose candidamente che sugli autobus ai nativi e agli extracomunitari fossero assegnati posti differenziati. Perché quando Del Piero fa le boccacce il suo gesto viene ritenuto una griffe di Pinturicchio e quando invece le fa Balotelli un gesto maleducato e provocatorio?
Senza mezzi termini lei esprime preferenza per il calcio all’italiana, per dirla alla Brera fatto di «catenaccio» e «contropiede», piuttosto che il gioco del Barcellona che giudica «stucchevole». Può spiegarci le ragioni di questa sua scelta?
Non c’entra l’italianità, è una questione di estetica e, ancor prima, di ritmo. Nel contropiede la profondità del campo si apre di colpo, il cambio di ritmo è imprevedibile, persino violento: questo mi colpisce molto più della cadenza manovrata dei sudamericani o del ritmo costante e percussivo degli anglosassoni. Ma va aggiunto che le scuole calcistiche si sono ormai contaminate rendendo spesso reversibili i moduli o addirittura interscambiabili.
Lei denuncia che oggi il «contropiede» si chiama «ripartenza». Perché è stato rimosso il termine contropiede? Chi sono i responsabili?
L’Italia è il paese di Don Ferrante, il personaggio manzoniano che presumeva di ignorare la peste cambiandole il nome in febbre pestilenziale. Nel paese del trasformismo e dell’opportunismo (che, dicono gli storici, è uno dei tratti specifici della cosiddetta identità italiana) taroccare il nome di una cosa simula il cambiamento della cosa stessa. Arrigo Sacchi ha mutato il contropiede in «ripartenza» non solo e non tanto perché sa poco e male l’italiano quanto, soprattutto, per negare il peso e il prestigio di una tradizione di cui si sentiva l’eversore.
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Giovanni Arpino si è occupato a lungo, nella sua carriera, di Juventus. Probabilmente era juventino. Era certamente il padrino di battesimo di Gianfelice Facchetti. Giacinto è il modello positivo del suo Azzurro tenebra. Oggi, tuttavia, a tratti, tutto il calcio italiano sembra prigioniero dell’annosa querelle Juventus-Inter, figlia dei veleni di “calciopoli”. «Quanti sono gli scudetti della Juve?»: da questioni del genere non ne usciremo mai? Come la pensa a riguardo?
Proprio non mi interessa la contabilità degli scudetti della Juventus. Ho sempre detestato un personaggio come Moggi ma non ho mai creduto che bastasse da solo, o in combutta con un altro, a traviare un intero sistema; allo stesso modo, ammiro e ho sempre ammirato Giacinto Facchetti ma non credo che l’Inter sia la banca etica del calcio italiano. Chi dovrebbe esserne il simbolo, forse Marco Tronchetti Provera? Insomma si tratta di una faida e, oramai, di una faida abbastanza grottesca.
Lo «stile Juve», se è mai esistito, esiste ancora?
Lo stile Juve, cioè l’etica dei gentiluomini, era lo stigma di classe degli aristocratico-borghesi che fondarono il club. In effetti questo stile è liquidato da gran tempo: di recente era ancora il riflesso del mito di cui era circonfuso Gianni Agnelli, l’ultimo monarca familista del capitalismo all’italiana. Ma diciamola tutta: di quale stile può essere testimone uno che parla come parla Antonio Conte?
Cosa ne pensa della moviola in campo?
Sono favorevole alla moviola in campo. Non perché sia la panacea o la redentrice di tutte le ingiustizie ma perché l’arbitro non può essere continuare a essere l’unica persona che vede dopo la partita quello che tutti vedono, sia in campo sia a casa, in presa diretta.
Rileggere libri sul calcio, ragionare su un certo modello di giornalismo sportivo (dei tempi andati) è la sola chiave di lettura critica per sfuggire all’apologia dell’esistente?
Sì, ancora una volta, la sola chance possibile è la critica, il suo uso vorrei dire militante in relazione al gioco come al sistema complessivo del calcio. Se ne legge pochissima, purtroppo, ma ancora se ne legge. Faccio solo alcuni nomi, relativi alla generazione di mezzo, per esempio quelli di Gianni Mura, Gigi Garanzini, Mario Sconcerti, Marco Ansaldo.
Dove sono le voci critiche, oggi, nel calcio?
Vorrei citare i libri di alcuni giornalisti che hanno saputo tradurre la memoria del calcio in una vera e propria storia. Beninteso non quella che si chiama “una bella storia”, magari edificante, ma la storia come possibile eredità e patrimonio di tutti. Penso al libro di Carlo D’Amicis su Re Cecconi, a quello di Darwin Pastorin su Mané Garrincha, all’inchiesta di Massimiliano Castellani sui calciatori malati di Sla ma anche, e in quest’occasione mi fa due volte piacere citarlo, al profilo biografico che Matteo Marani ha dedicato ad Arpad Weisz, l’allenatore ebreo del Grande Bologna anni trenta morto nelle camere a gas di Auschwitz. Non è un libro ma una stupenda canzone Gaetano e Giacinto, scritta da Gaetano Curreri degli “Stadio”, ed è un possibile contravveleno alla faida di cui dicevo un attimo fa.
Ultimamente c’è stata in Italia una proliferazione di libri sul calcio. Si scrive troppo su questo argomento?
Ho l’impressione, la netta sensazione, che si scrivono e si pubblicano troppi libri anche di calcio. Non sempre necessari, non sempre fondati, non sempre motivati. È un male che affligge l’editoria in generale, per carenza di editing e di un adeguato filtro editoriale, per l’assenza di progetti che davvero siano tali. Si insegue, ancora una volta, il mercato, l’umore di un momento, il personaggio che sembra garantire la tiratura. Ma il mercato in sé non garantisce nulla se non la possibilità di una proliferazione illimitata. Lo spreco, diceva mio nonno, è figlio della miseria.
Il calcio più autentico è diventato quello amatoriale, dei settori giovanili. O anche lì esistono già zone d’ombra? Le uniche isole felici resteranno le partitelle per strada o in campetti di periferia?
Le isole felici non esistono e temo non siano mai esistite. Non seguo il calcio amatoriale ma immagino che lì ci si possa ancora divertire senza l’isteria obbligatoria e gli eccessi della competitività. Mi è invece capitato di assistere a qualche partita fra ragazzini delle scuole di calcio. Qui non vorrei essere eccessivamente pessimista né fidarmi troppo di impressioni estemporanee, ma la presenza dei genitori e dei fratelli più grandi di solito guastava lo spettacolo e offriva un pessimo esempio: come niente fosse, costoro urlavano e maledicevano, strepitavano, né esprimevano altra passione se non una passione da tifosi. Una passione triste, non c’è dubbio.