Ventanni fa, il 5 settembre 1993, moriva Vladimiro Caminiti, il mitico Camin. Oltre che grandissima firma del suo Tuttosport, fu per molti anni collaboratore assai apprezzato del Guerin Sportivo, dove scriveva con piacere di tutto. Siciliano, immaginifico, polemista di livello sopraffino, abbiamo avuto piacere di ricordare Camin con un pezzo scritto nel luglio 1990 e dedicato al problema degli hooligans, diventato di attualità durante il Mondiale in corso in Italia.
di Vladimiro Caminiti
Mi chiedo se gli hooligans hanno ucciso l'anima del calcio inglese e rispondo di no. La notte di Bologna mi ha istruito al riguardo, anzi mi ha illuminato. Io non so come dire la grazia di Bologna, tutto il cielo dello stadio diffuso da un colore rosa che non avevo mai visto sopra nessun prato verde del mondo, nemmeno a Mar del Plata che nel 1978 mi aveva assolutamente incantato. È difficile capire il mistero che ci circonda, nel preciso istante in cui apriamo gli occhi e ci inonda un senso di vertigine. Il calcio inglese è ancora l'espressione di quello che noi abbiamo sempre creduto il migliore calcio possibile, la voglia del cuore di animare il gesto, la parata di Banks gattesca e definitiva e prima ancora la finta di Matthews sull'out, il pallone che andava a cadere verso lo smarcatissimo Lawton, per la deviazione e il gol. Nemmeno il vituperato fascismo fu in grado di risolvere l'annosa questione se noi, con Meazza, fossimo più forti di loro con Matthews, Arpinati convocato ed impettito dinanzi al duce, il generale Vaccaro pallido come un cencio lavato. Altro che Matarrese, il piccolo estroso e simpaticissimo Antonio, quartogenito di una famiglia che, mi ha garantito il notaio Costantini, non ha in lui il genio, ce lo ha nel fratello vescovo, il cui nome è Giuseppe. Gli hooligans non hanno ucciso il calcio inglese. L'Inghilterra di Bobby Robson è una lezione di fede. Io continuo ad amare il calcio inglese. Né potrebbe essere diversamente, ognuno ha il suo ceppo originario, le mie letture convergevano da ragazzo sul Calcio illustrato e certi nomi, Witterbotton ad esempio, ma anche Nottingham Forest e Gilbert Oswald Smith, e Derby County, e Steve Bloomer, e Billy Meredith che in campo non ci andava solo ma con uno stuzzicadenti in bocca, e dribblava, e fintava, e correva e io lo immagino come il mattacchione che deve essere uno che è ala di ruolo.
Una volta mi persi a Londra, era il 1961, ero parecchio ragazzo. Era un tempo in cui mi perdevo spesso senza riuscire a ritrovarmi per giorni interi: quella volta percorsi per ore la capitale perché era successo che Peronace (e la sua banda) mi avevano letteralmente dimenticato in treno, coi miei bagagli, alle sei del mattino. E dire che quel mio primo viaggio in Inghilterra mi aveva riempito d'ansia, ma ora nel tassì, girando per le strade di quella città bella e inquietante, tremando come un verme, vicino a smarrirmi, coi pensieri più tristi, da pochi mesi uscito dalla mia Palermo, domandavo a Iddio di non abbandonarmi, di darmi un ricordo. Quale era l'albergo di cui fuggevolmente avevo letto il nome? Ed improvvisamente rispuntò quel nome, nella congerie di nomi inglesi, io che non ho mai voluto studiare altra lingua, dopo aver tentato col russo, the Mount Royal Hotel, ed urlai al tassista quelle parole benedette, e fui salvo. Io credo che non si possa scrivere il calcio senza una buona cultura di calcio, cioè di football. Io credo fermamente che il calcio inglese, per noi sempre splendidamente irraggiungibile, sia ancora il migliore per capire cosa è per davvero questo gioco. Nella notte di Bologna tutto questo mi è stato improvvisamente chiaro. Intanto Bobby Robson più britannico di lui si muore. Ha un senso titanico del comico, senza saperlo. È un personaggio mitico per questo calcio di oggi popolato di mezzani. Qualcosa di lui c'è in Vicini. Hanno i pomelli gioiosi per le bevute sane, in pace dei sensi, che si fanno alla salute nostra. E poi Shilton. Non si può tacere l'importanza di questo portiere quarantenne, quercia che non vacilla, la solidità di un bel cassettone antico, di quelli dove nelle case di un tempo si riponevano le gonne o i cappotti smessi, le gonne delle nonne. Shilton è un nonno, ma sano, perentoriamente forte. La sua stabilità presidia il ruolo che tipi indimenticabili come lo gnomo nero Parker o il potente Pearce o il torreggiante Butcher tutelano con la partecipazione più fanatica. E non si può essere inglesi se non si è fanatici, la fantasia burlesca del calcio inglese brilla anche in personaggi come Paul Gascoigne, un gran burlone, mentre Chris Waddle, lui, ha una strana mestizia che lo assale in campo, fuori un allegrone, in campo la tensione lo trasforma, si fa livido, ha momenti di pura rabbia anglosassone, il suo dribbling sembra carezzato dal vento dell'Atlantico, ne ho conosciuti tipi così, a esempio Joe Baker oppure Dennis Law, il calcio inglese che ho sempre amato, che continuo ad amare, non ho avuto dubbi nello scegliere, prima ancora del gol decisivo di Platt, gli inglesi nel duro traccheggio tattico con i belgi, tra i quali mi ha deluso Preud'homme, come vengo a spiegarvi.
Intanto, è di figura raggrinzita e l'unica cosa notevole del suo viso gli spenzola dietro, sono i capelli che lo accompagnano come le rughe dolorose delle guance. Non c'è paragone tra lui e Shilton. Lui non ha storia, non dico epopea. Ad un collega mio, valorosissimo ma privo di sintassi, un tipo avvolgente e coinvolgente, di questi cronisti d'assalto della nuova moda giornalistica in uso, anzi usa e getta, sbatti il mostro in prima pagina, ha dichiarato papale papale che i portieri si distinguono in due categorie, della prima farebbero parte gli irresponsabili o incoscienti, dell'altra quelli che ammattiscono per non essere appunto della prima categoria. Perciò Preud'homme è uno zingaro che fa il portiere; altra cosa il grande portiere anche quando è stravagante come Tacconi, bugiardo e vanitoso come Zenga, ma anche elegante come Zenga, il più elegante, il più stilo-so portiere italiano di sempre. Il grande portiere non può apparire più brutto quando è in divisa, come è brutto nella sua divisa Preud'homme, che la indossa come un benzinaio la tuta. Della sua squadra, mi hanno colpito i segni, le cicatrici, il martirio fisico di De Wolf, insieme all'alacrità tuttoggi battagliera, al tempismo di quel seccolone di Gerets.
Io ricordo tutte le stanze d'albergo dove ho dormito. Mi rivedo a Mexico City, Chapultepec Hotel, il cielo, il vento, la pioggia, ogni goccia un chilo di goccia, ma che meraviglioso albergo. Nemmeno il principe Raimondo Lanza di Trabia che fu un vero principe, si sentiva ricco come me, la notte tra quelle coperte, su quei cuscini, pensando di essere in Mexico, tra dolore e amore, mai amerò più disperatamente i bambini poveri, i soli veri poveri che ho conosciuto, come in Mexico. A parte che in quel letto ho imparato a capire Camillo Sbarbaro, poeta straordinario più di Montale. Mi rivedo in Argentina, a Mar del Plata, l'albergone che Bacci requisì per noi di Tuttosport, i soli che avessero per albergo una casa eravamo noi di Tuttosport, con il caro Pierce Baretti, le cui grosse mani di artigiano e di lavoratore mi accompagnano, ed ancora stritolano la mia. Mi rivedo a Barcellona, in España, anche lì alberghi splendidi, ricordo la stanza dove ho dormito dopo le imprese storiche definitive di Paolo Rossi e compagni contro Argentina e Brasile. Ma io sono certo che non ricorderò le stanze d'albergo italiane di questo Mondiale pur bellissimo, pur travolgente. Forse mi manca la cultura dell'albergo italiano. Forse perché non ho patria, come ogni emigrante, forse perché veramente i nostri alberghi non sono accoglienti e funzionali e allenati a ricevere il mondo come quelli di Argentina, di Spagna, di Messico. Sì, io credo che non ricorderò il Mondiale 90 per gli alberghi ed i letti dove ho dormito, ma per le imprese del Camerun, ed una frase di Zoff che mi ha colpito, quella per cui si va verso un calcio sempre più abitato dai neri. Solo la forza fisica luccicante dei neri può scoprire al gioco del calcio nuovi orizzonti.