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Mancini e il fair play anti-sportivo

Redazione

25 ottobre 2011

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Il Manchester City sta dimostrando l'assurdità teorica di quel fair play finanziario che secondo l'Uefa fra 3 anni renderà il calcio europeo più sano, ben al di là della sua impossibilità pratica (soprattutto in Italia, terra promessa dei pagamenti in nero). Non perché abbia già vinto la Premier League, anche se i 5 punti di vantaggio sullo United dopo 9 partite e un derby stravinto fanno sorridere i tifosi degli ex sfigati della città, ma perché sono bastati tre anni per cambiare lo status di una realtà depressa facendola diventare una delle mete più ambite per i giocatori (tranne Tevez) di tutto il mondo. Parliamo di status, non di trofei alzati. Un po' lo stesso discorso che si può fare con il Chelsea di Abramovich: a pensarci bene è incredibile che non abbia mai vinto in questi anni una Champions League, ma nemmeno un suo antipatizzante sosterrebbe che non faccia parte ormai stabilmente delle grandi d'Europa. Ecco, questo è lo status. Che è stato cambiato, sia dal Chelsea che dal City, grazie a soldi inizialmente buttati nella fornace a fondo perduto e non a piani di crescita trentennali. Al tifoso non importa di Abramovich o dello sceicco Al Mansour, non è obbligatorio acquistare una società di calcio e chi lo fa non deve venire a piangere miseria o impartire lezioni di ragioneria. Altrimenti si dedichi a hobby meno costosi del calcio. Il concetto base del fair play finanziario è che le entrate e le uscite della cosiddetta 'gestione caratteristica' devono equilibrarsi, ma è ovvio che questo schema (con molte falle, tipo le sponsorizzazioni) stabilisca per legge che i club con molti tifosi saranno in eterno superiori a quelli che ne hanno meno. Magliette, diritti televisivi, biglietti di Juventus, Inter e Milan produrranno in eterno più introiti di quelli di Chievo, Lecce e Cagliari. Solo l'arrivo al Chievo di un miliardario, invece che di un ricco signore che però deve far quadrare i conti, può cambiare la gerarchia dei valori in modo veloce. Per questo, nonostante i loro debiti e le loro ricapitalizzazioni astronomiche, sono proprio i grandi club quelli che tifano per questa forma di fair play. I piccoli già lo sanno che le entrate devono corrispondere alle uscite, adesso non possono nemmeno più sognare lo sceicco. Senza andare troppo lontano, lo sceicco ce l'aveva anche il Mancini giocatore. Con le nuove regole un Paolo Mantovani del terzo millennio sarebbe inimmaginabile, mentre di Agnelli, Moratti e Berlusconi club gestiti bene potrebbero teoricamente fare a meno. Stefano Olivari

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