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Redazione

19 settembre 2011

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Aurelio De Laurentiis è l'unico presidente nella storia del calcio italiano che abbia portato il suo club dalla serie C alla Champions League, ma dal punto di vista mediatico viene spesso trattato come una macchietta. Un po' lui ci marcia, avendo capito come si conquistano i titoli dei giornali (basta spararla grossa, in fondo), ma molto dipende dal fatto che si parte dal presupposto che su base nazionale importi solo di tre squadre (quelle che insieme raccolgono il 75% del tifo, inutile dire quali siano) e che tutto il resto sia al massimo una simpatica intrusione. Il Berlusconi criticato come politico è ritenuto pressoché infallibile come presidente del Milan, Moratti per definizione giornalistica non sbaglia mai e i colpevoli sono sempre i dirigenti incapaci, gli allenatori rigidi e i calciatori ingrati, Agnelli vive dell'onda lunga della sudditanza italiana nei confronti della Fiat (la domanda è: fallirà prima la Fiat o l'Italia?). Ma torniamo al nipote del grande Dino, che nel 2004 prese in mano un Napoli fallito e lo ristrutturò partendo dalla C1. Con una buonissima squadra: un diciottenne Abate, Mora, Corrent, Montervino e quel 'Pampa' Sosa adesso opinionista di Sky: per la categoria un lusso. La promozione arrivò però nel campionato seguente e la A nel 2007. Da lì in poi De Laurentiis ha costruito pazientemente la squadra che oggi si fa rispettare in Italia e in Europa, con una ricetta semplice: rinforzarsi ogni anno con giocatori che facciano la differenza rispetto al livello medio, nel mare delle compravendite che spostano poco. Nel 2006 Cannavaro, nel 2007 Hamsik e Lavezzi, nel 2008 Maggio, nel 2009 De Sanctis e Campagnaro, nel 2010 Dossena e Cavani, la scorsa estate Inler e Dzemaili. Un pezzo alla volta, facendo rispettare i contratti: cosa che nemmeno club più titolati sono ormai capaci di fare. Il Napoli come punto di arrivo e non come 'farm team' dei soliti noti. Insomma, il Napoli magari non vincerà lo scudetto (o magari sì), però di sicuro ha dato una lezione a chi straparla di programmazione. In parole povere, basta tenersi quelli bravi e non rinforzare i concorrenti. Stefano Olivari

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