Festa grande a Berlusconia: alla corte rossonera è finalmente cominciato il ballo per il diciottesimo scudetto. Quanti invitati, quanti ospiti al galà del Milan. C’è Allegri, il giovane allenatore già entrato nell’albo degli eroi. Ci sono Pato, Ibra, Boateng, cavalieri di una tavola rotonda come il pallone che calciano. E c’è Adriano Galliani, il suddito numero uno, il consigliere più astuto del re. Dietro il successo dei diavoli c’è (anche) lui, il vice-presidente vicario, da sempre braccio destro del Berlusconi presidente.
Galliani è una sorta di dottor Jekyll e mister Hyde: imperturbabile gentleman ai microfoni, imprevedibile guascone in tribuna. E’ lì che gol e azioni diventano reazioni, espressioni gommose del Galliani incontrollabile, l’ultrà con la cravatta gialla, il tifoso nei panni del dirigente. E vai con l‘rwm, allora. Anno 1999, stadio Renato Curi. A Perugia il Milan di Zaccheroni conquista lo scudetto, era il numero sedici. Ma se le gesta eroiche di Guly e Bierhoff (gli autori dell‘1-2 finale) dribblano la memoria, quasi impossibile è scordare il suo show sugli spalti: s’avvinghiò a Braida, urlò, impazzò, impazzì. Gli rubarono il portafoglio. Berlusconi lo richiamò all’ordine nell‘intervallo: cribbio, un po’ di contegno. Fu lui una volta tanto a dire: mi consenta, qui c‘è in palio il titolo.
Nella notte dell’Olimpico, contro la Roma, ha abbassato i toni e alzato i pugni al cielo. Esultare sì, ma con classe. Giusto una preghierina a san Pareggio purché si avveri il punto che mancava da pezzo. E il fioretto come si faceva una volta: “Io e Allegri andremo al santuario a piedi”. Perché Galliani è un metodico e un metodista, ma con l’animo romantico che, prima o poi, prende il sopravvento su tutto il resto. Gli scudetti del Milan li sente germogliare dentro. Il primo da dirigente è stato bello perché era il primo. Il secondo perché è la conferma del primo. Il terzo perché non c’è due senza tre. L’ultimo perché spezza l’egemonia dell’Inter e interrompe il digiuno rossonero che durava da sette stagioni. “Bisognava fare qualcosa. Solo noi potevamo spezzare il predominio”. Voilà.
Sceglierebbe sempre allenatori esotici o di altre scuole di pensiero (Terim, Tabarez). S’innamora di giocatori timidi, ma preziosi, decisivi, oggettivamente campioni, fino a considerarli figliocci suoi. Van Basten? “Il più grande di tutti”. Inzaghi? “Resta qui tutta la vita”. Spese parole per Sheva quando andò al Chelsea e prima del suo ritorno a Itaca: “Lui sa che il Milan è casa sua”. Lo ha ripetuto per Kakà. Forse per facilitarne un ritorno: “Per lui ho pianto perché l‘ho amato intensamente”. Lacrime che pure versò per Leonardo quando smise di giocare, ma saputo il suo accordo coi cugini nerazzurri l’aria si gelò: tu quoque, Leo, figlio mio.
Galliani è la storia del Milan vista da una prospettiva diversa. A metà: tra quella del presidente-signore e quella del popolo dei tifosi. E’ l’ambasciatore che non porta pena, è il depositario dei segreti istituzionali ma anche il supporter col cuore grande così. E’ il diplomatico che una volta dice “su con la vita, siamo primi” e un’altra tira giù il castello di sabbia: “Champions tutta la vita. Lo scudetto lo vincono in cinquantatre squadre, la Champions una soltanto”.
Giorgio Burreddu