GÖTEBORG - Qui, nella bionda, civile, laica e tenacemente monarchica Svezia, il peggio che ogni weekend gli può capitare è qualche «finocchio!» che piove giù dagli spalti del campetto dell'Utsiktens Bk, berciato da uno dei duecento biondi, civili, laici e forse tenacemente monarchici tifosi avversari saliti fino a Göteborg per insultare lui, il primo calciatore professionista dichiaratamente gay dai tempi della favola nera di Justin Fashanu: coming out nel '90 e un suicidio per impiccagione otto anni dopo essere stato rigettato dal mondo del calcio come un organo trapiantato male.
Anton Hysen, 20 anni, figlio orgoglioso di uno degli atleti che negli anni 80 contribuirono ad alimentare il mito del calciatore-macho, Glenn Hysen (difensore di Fiorentina e Liverpool, un indimenticato tackle sulle caviglie di Gary Lineker a Wembley che è ancora tra i ricordi più cari della Kop), due orecchini, un piercing sulla lingua, otto tatuaggi destinati a crescere (Ynwa sul braccio: sta per You'll never walk alone, il coro-totem della curva del Liverpool, città dove è nato), uno zio omosessuale, una cugina lesbica, terza stagione nella divisione 2 svedese (più di una Lega dilettanti, meno di una serie C italiana), è il ragazzo finito in copertina sul Guardian e, a cascata, su tutti i quotidiani. «Sei la quinta giornalista che viene a intervistarmi. Ma la prima non inglese - dice, tirandosela un po', davanti a una carbonara fumante -. E perché, poi? Perché sono gay. Ma cosa avrò di così speciale...?».
Niente, in effetti. Più aderente alla delicata iconografia dei personaggi di E.M. Forster che a un certo burlesque da Gay Pride («Oh, quelle forme di esibizionismo della propria omosessualità non fanno per me, così come non sono attratto dai gay effemminati, che pure mi corteggiano»), Anton pur essendo ingenuo e a digiuno di cose della vita sa benissimo che una storia come la sua in Italia non avrebbe diritto di cittadinanza. «Non ho niente da nascondere, ho fatto coming out per poter vivere me stesso alla luce del sole. Certo vivo in Svezia, un Paese ateo e liberale, una scelta del genere in una nazione cattolica come l'Italia sarebbe stata più difficile. Ai tifosi dovrebbe interessare che sono un giocatore tecnico e non velocissimo, se mi schierano in difesa o esterno di centrocampo, e non con chi vado a letto».
Ti insultano? «Certo che mi insultano». E cosa dicono? «Finocchio! Giochi come una femminuccia! Cose così...». E tu come reagisci? «Sento i cori, penso che provengono da gente ignorante e immatura, torno a concentrarmi sulla partita». E i tuoi compagni di squadra come hanno reagito? «Bene. Sono persone gentili e rispettose». Tuo padre Glenn è il coach dell'Utsiktens Bk. «Sì, ma non c'entra. Lui non viene sotto la doccia con noi». E sotto la doccia cosa succede? «Ma niente. I soliti scherzi, le solite battute... ». Tipo? «Tipo: c'è Anton, non lasciate cadere il sapone ragazzi!». È avvilente o divertente? «Non m'importa, a volte ci scherzo su anch'io, è normale. Io non sono religioso. Credo in me stesso, nella mia famiglia e nei miei amici. Vivo giorno per giorno. Il resto non mi preoccupa». Tutto qui? «Tutto qui». (...)
Lavora part time alla catena di montaggio della Volvo locale. Non è fidanzato. «Se uscirei con un calciatore? Se fosse carino, perché no?» ride, inconsciamente fedele allo stereotipo più duro da sradicare. Desidera uno stipendio migliore, un futuro luminoso, un amore vero. Come tutti, uomini e donne, gay e etero. Ecco perché alla fine, quando l'arbitro fischia il novantesimo e sotto la doccia ricominciano quegli scherzi infantili, la storia di Anton Hysen è uguale a quella degli altri dieci uomini in campo. Compresi quelli che fanno i disinvolti, e poi tengono davvero stretto in mano il sapone.
Fonte: Gaia Piccardi per il Corriere della Sera, link alla versione completa dell'articolo