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Ripartendo con gli All Blacks© Getty Images for New Zealand Rugby

Ripartendo con gli All Blacks

La Nazionale di rugby il 6 novembre all'Olimpico torna ad esibirsi davanti al pubblico dopo quasi due anni e con un nuovo allenatore. Ma nemmeno Crowley ha la bacchetta magica per invertire una tendenza...

Stefano Olivari

16.10.2021 ( Aggiornata il 16.10.2021 17:12 )

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L’Italia del rugby torna a giocare davanti al suo pubblico il 6 novembre, all’Olimpico di Roma, dopo quasi due anni a porte chiuse e con risultati tremendi dal punto di vista quantitativo, i punteggi spesso punitivi, e qualitativo. I tanti soldi del Sei Nazioni non hanno migliorato il livello della Nazionale, che proprio al sei Nazioni non vince una partita dal 2015. Le sconfitte consecutive sono ormai diventate 32, con il bollettino della sconfitta ci fermiamo qui...

E la ripartenza con il pubblico sarà con il peggiore avversario possibile, cioè la Nuova Zelanda: bene per lo straordinario fascino degli All Blacks, tre volte campioni dekl mondo ma iconici a prescindere, anche presso il pubblico generalista, male perché iniziare un ciclo con l’ennesima ripassata non contribuirà a togliere all’ambiente del rugby italiano quel misto di vittimismo, fatalismo ed anche ingiusticato snobismo che lo sta tenendo fermo da tempo immemorabile.

Nuovo ciclo, dicevamo. È quello che ha il nome di Kieran Crowley, che degli All Blacks ha fatto parte sul serio, da riserva nella squadra campione del mondo 1987, prima Coppa del Mondo, e che in Italia ha sia giocato, a Parma negli anni Ottanta, sia allenato (il Benetton Treviso dal 2015 al 2021). L’ennesimo luminare straniero chiamato al capezzale del malato rugby italiano, che non ha un c.t. italiano dal Mondiale 1999, quando sulla panchina azzurra sedette Massimo Masciarelli. Nell’era Sei Nazioni, iniziata nel 2000, soltanto allenatori stranieri, magari con filosofie diverse ma sempre all'inizio con una ricetta per svoltare. Crowley conoscendo l’Italia ha messo le mani avanti, dicendo che all’inizio non pretenderà risultati ed in ogni caso è impossibile che questi risultati arrivino contro la Nuova Zelanda.

L’Olimpico sarà al 75% della capienza ed è possibile che a questo livello ci sia il tutto esaurito anche se la partita è stata annunciata con ritardo, considerando le difficoltà di spostamento dovute al Covid e alle misure anti-Covid. Crowley non intende fare una Nazionale soltanto di giovani, al punto che non sarebbe stato contrario a richiamare Sergio Parisse: peccato che il trentottenne mito azzurro, 142 presenze che nel rugby significano un logorio fisico devastante, sia infortunato. Insomma, il solito cantiere con il pubblico del rugby abbastanza intelligente da saper applaudire anche gli altri. Difficile che si applauda una vittoria azzurra anche il 13 novembre, quando a Treviso arriverà l’Argentina, mentre una settimana dopo a Parma, contro l’Uruguay, gli azzurri partono da leggeri favoriti.

Da ricordare che non stiamo parlando di una squadretta, ma di una Nazionale che nonostante tutto è la numero 14 del ranking mondiale e che dietro le nove ingiocabili (le altre cinque del Sei Nazioni e le quattro grandi dell’emisfero australe, Nuova Zelanda, Australia, Sudafrica e Argentina) è comunque fra le migliori. Il problema nel rugby è che le gerarchie sono molto chiare e la fortuna incide quasi zero, semmai incide la sfortuna sottoforma di infortuni. Se il livello medio dei primi trenta giocatori italiani è così diverso da quello dei primi trenta neozelandesi sarà sempre difficile per il Crowley di turno tirare fuori la trovata geniale che cambia la storia.

Fra l’altro dopo le nove grandi l’Italia non è nemmeno la migliore europea, anche se il business del Sei Nazioni nemmeno prende in considerazione di sostituirla con la Georgia. Comunque il campo dice in maniera impietosa che due decenni di Sei nazioni, con relativi incassi, e le franchigie (per l’Italia Benetton e Zebre) hanno prodotto una Nazionale inferiore a quella degli anni Novanta.

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