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Peterson-Bianchini e il No Star Game

Peterson-Bianchini e il No Star Game

Redazione

11.01.2016 ( Aggiornata il 11.01.2016 15:48 )

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Baruffe Chiogiotte … o quasi. Volano stracci bagnati in casa Reyer. Durante l’intervallo della partita di Eurocup tra la Reyer e i russi del San Pietroburgo il vulcanico ex presidente Brugnaro, insoddisfatto dal rendimento dei suoi, ha deciso di fare la voce grossa nello spogliatoio di casa, attaccando prima i giocatori e poi anche il coach. Il buon Recalcati, alla veneranda età di 71 anni, non se la è sentita di prenderle e basta e ne è scoppiata una lite dai toni molto accesi. La Reyer ha comunque perso la partita di due punti e l’ambiente è uscito abbastanza scosso dall’accaduto. Non una grande mossa quella di Brugnaro, a meno che non abbia in mente di far saltare la sua panchina: sfiduciare un coach davanti alla squadra non dà mai buoni risultati. Lo stesso Recalcati sta prendendo tempo per pensare e nel frattempo ha minimizzato l’accaduto, ma con poca convinzione. Il dilettantismo che c’è in questo ambiente si misura anche così: presidenti (o ex) che intervengono sul lavoro dei loro allenatori, dimostrando così in una volta sola di non saper allenare, ma neanche dirigere una società. La storia pare all’inizio e vedremo dove porterà. Auguri Coach Peterson. Ha compiuto 80 anni il 9 gennaio il più famoso allenatore di basket che abbia mai lavorato nel nostro paese. Originario dell’Illinois, contea di Cook (la stessa dove John Landis ha piazzato l’orfanotrofio dei Blues Brothers, quello gestito dalla “Pinguina”), Peterson arrivò alla Virtus Bologna nel 1973 dopo aver insegnato basket nelle Università di Michigan State, USNA e Delaware e dopo essere stato head coach della nazionale Cilena (incarico che gli valse il sospetto, in Italia, di essere un uomo della CIA). A Bologna ha conquistato uno scudetto e una Coppa Italia, quindi si è trasferito all’Olimpia Milano, dove tra il 1978 e il 1987 ha messo in bacheca 4 scudetti, una Korac, una Coppa dei Campioni e un paio di Coppe Italia, titoli che gli sono valsi il premio di miglior allenatore italiano (due volte) e miglior allenatore europeo. Nel 1987, a 51 anni, con almeno altri 10 – 15 anni di carriera davanti, sorprendendo tutti, ha appeso il fischietto al chiodo (stress) per poi tornare ad allenare, sempre all’Olimpia, nel 2011 dopo l’esonero di Bucchi a stagione iniziata. Coach di grandissima personalità, Peterson ha portato in Italia concetti tecnici come la difesa 1-3-1 e la difesa pressing a tutto campo, usata come arma tattica nelle sue squadre; ma non solo, è stato tra i primi a lavorare in maniera continua sul lato umano del giocatori, che sceglieva anche in base al carattere e che motivava di continuo. Il marchio di fabbrica della sua Olimpia era difatti lo “sputare sangue”, affidato a giocatori di buon livello tecnico ma soprattutto di gran coraggio, disposti a tutto pur di vincere. Una sorta di guardia pretoriana, che in campo eseguiva, e al meglio, quanto imparato in palestra e che ha dato il via a quelli che probabilmente sono stati gli anni più belli della pallacanestro italiana. Capace come pochi di accendere i riflettori su uno sport che cresceva in popolarità, Peterson ha trovato il suo alter ego nel rivale di sempre: il “Vate” Valerio Bianchini, vero pezzo da 90 tra gli allenatori italiani, capace di “trasformare in evento qualsiasi avvenimento importante”.  I meriti extracestistici di Peterson sono pari se non superiori a quelli meritati sul campo. Sospesa la carriera da allenatore, il coach si è dedicato (tra le altre cose) a quella di commentatore sportivo. Esperto di sport, ma anche di cultura americana, ha portato nelle case di tutti gli italiani il mondo della NBA e la spettacolarizzazione del basket, facendo fare un ulteriore passo in avanti al movimento cestistico italiano e creando modi di dire e veri e propri tormentoni. Così mentre un paio di generazioni di telespettatori non poteva fare a meno di dire almeno un paio di volte a settimana “mamma butta la pasta”, una classe intera di allenatori nostrani predicava al proprio playmaker di fare “arresto e tiro non oltre la linea del tiro libero in contropiede”.  Intervistato in occasione del suo compleanno, sul palcoscenico dell’All star game italiano, il coach ha detto che a 80 anni è pronto a tornare nel mondo del basket, basta solo una chiamata. Guardandoci intorno: che aspettiamo a fargliela? Chi non salta bianco è. Si è svolto nel week end l’All Star Game italiano. Sul campo di Trento si sono sfidati giocatori italiani e stranieri in quella che dovrebbe essere una celebrazione dello spettacolo e del talento dei suoi praticanti. Un po’ come accade quando qualcuno organizza una cena a cui nessuno vuole partecipare, i più veloci si sono affrettati a darsi malati, con piccoli infortuni (non meglio identificati) da recuperare, dolori che non consentono di giocare e tutto il repertorio classico delle scuse, per gli altri invece partita, gara del tiro da tre punti e gara delle schiacciate, il tutto in diretta su Sky. Senza mettere in dubbio l’impegno e la dedizione messi in campo dai convocati, l’All Star Game di questo anno verrà ricordato per due motivi: il primo, in panchina sedevano Bianchini e Peterson, unica ragione per cui la partita ha avuto spazio enorme sui media italiani, andando oltre quello che avrebbe meritato; il secondo, la gara delle schiacciate. Al di là della fantastica schiacciata, di Awudu Abass, eseguita col completo dei Lakers, a lasciare il segno (nel vero senso della parola), è stato Trent Lockett, che in vestito elegante ha tentato di schiacciare scavalcando Poeta vestito da fotografo. Risultato: Lockett ha letteralmente investito il compagno di squadra che è uscito dal campo sanguinante vincendo un bonus per due punti al pronto soccorso. Il video dell’incidente è subito diventato virale e in tutto il mondo e, finalmente, anche in America si parla dell’All Star Game italiano. Al di là dell’episodio, ci si interroga sull’opportunità di giocare una partita che non è riuscita a fare il tutto esaurito in una piazza come Trento e che non richiama grandi attenzioni neanche in TV. Nato come evento per celebrare il campionato e riunire in un campo solo tutti i talenti di A1 e di A2, la gara ha cambiato nel tempo formula arrivando a varcare anche i confini nazionali. A scorrere l’albo d’oro degli MVP si trovano i più grandi nomi della pallacanestro non solo italiana, ma anche europea e mondiale: Richardson, D’Antoni, Michael Cooper, Oscar, Djordjevic, Woolridge, Sabonis, Meneghin (figlio), Fucka, solo per dirne qualcuno. Grandi nomi di campioni, ma del passato, che tutti ricordano. Oggi non è più una questione di formula, ma di uomini: chi ricorderà Christian Eyenga e Alex Kirk tra dieci anni? Twitter @luigi_ceccon

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