        Alla fine del marzo 1994 l&rsquo;Italia &egrave; scossa da un autentico terremoto politico: Silvio Berlusconi ed il suo Polo delle Libert&agrave;, sconfiggono contro ogni pronostico l&rsquo;Alleanza dei Progressisti guidata da Achille Occhetto. Per lo Stivale &egrave; il passaggio definitivo dalla Prima Repubblica alla Seconda Repubblica. In ambito calcistico il 30 marzo c&rsquo;&egrave; in programma una sfida storica allo Stadio Sant&rsquo;Elia di Cagliari: i padroni di casa, infatti, che mai sono andati cos&igrave; forte in una competizione europea, sono opposti ad un&rsquo;Inter che invece &egrave; alle prese con una delle stagioni pi&ugrave; tribolate della sua storia. Reduce da ben cinque sconfitte consecutive in campionato la societ&agrave; del presidente Pellegrini, che ha appena esonerato Osvaldo Bagnoli, si &egrave; affidata alle cure di Giampiero Marini, una soluzione interna temporanea in vista dell&rsquo;arrivo, gi&agrave; prenotato per la stagione successiva, di Ottavio Bianchi. I nerazzurri sono attesi per altro da una trasferta insidiosa al cospetto di un Cagliari che &egrave; stato letteralmente rivitalizzato da un tecnico probabilmente sottovalutato come Bruno Giorgi (subentrato a Gigi Radice alla seconda giornata), il Paul Newman del calcio italiano, che per altro ha gi&agrave; portato nella stagione 1989-90 la Fiorentina ad una finale di Coppa UEFA. Gli isolani sono guidati in campo dalla regia del grande ex Gianfranco Matteoli, l&rsquo;architetto dello scudetto nerazzurro dei record nella stagione 1988-89, che a 35 anni sta vivendo una seconda giovinezza nella sua Sardegna. La vigilia in casa Inter non &egrave; serena e lo si intuisce anche da queste parole di Marini: &laquo;Ho fatto quello che ho potuto e ho visto la vera Inter solo in tre partite: con Napoli, Udinese e a Dortmund. Ma stavolta i problemi sono degli uomini. Se non capiscono che molti potrebbero non giocare mai pi&ugrave; una partita cos&igrave; importante, non so che farci&raquo;. In casa Cagliari che, all&rsquo;appuntamento con la storia, giunge con ben sei infortunati, i fari sono puntati sulla mezzala Massimiliano Allegri, un centrocampista dalle indubbie qualit&agrave;, che per&ograve; Giorgi non vede bene nel suo spartito tattico perch&eacute; poco propenso alla fase difensiva (che sar&agrave;, ironia della sorte, un marchio di fabbrica dell&rsquo;Allegri allenatore) e che contro l&rsquo;Inter avr&agrave; l&rsquo;occasione della vita, partendo nell&rsquo;undici titolare: &laquo;Magari mi vedr&agrave; qualcuno e mi vorr&agrave; comprare!&raquo;, queste le dichiarazioni del linguacciuto giocatore livornese che comunque, una volta passato dall&rsquo;altra parte della barricata (cio&egrave; sulla panchina) spender&agrave; sempre parole di elogio per Bruno Giorgi. Anzi, si pu&ograve; dire che l&rsquo;Allegri allenatore assomigli di pi&ugrave; dal punto di vista tattico e filosofico al compianto tecnico di Pavia, rispetto al suo mentore Giovanni Galeone. &nbsp; Il Sant&rsquo;Elia &egrave; pieno &nbsp; Alle 18.30 di mercoled&igrave; 30 marzo 1994 lo Stadio Sant&rsquo;Elia &egrave; ghermito di festa, con oltre 32 mila spettatori assiepati sulle tribune. L&rsquo;Inter, che &egrave; priva di Schillaci e Shalimov, schiera la seguente formazione, scandita ancora alla &ldquo;vecchia maniera&rdquo; da Bruno Pizzul in diretta su Raidue: Zenga; Antonio e Massimo Paganin; Jonk, Ferri e Bergomi; Orlando, Manicone, Fontolan, Bergkamp, Rub&eacute;n Sosa. Il Cagliari, che &egrave; privo di pezzi da novanta come Bisoli, Moriero, Napoli, Cappioli ed Herrera, replica con questo schieramento: Fiori; Villa e Pusceddu; Napoli, Bellucci e Firicano; Sanna, Allegri, Dely Vald&eacute;s, Matteoli ed Oliveira. L&rsquo;arbitro dell&rsquo;incontro &egrave; lo spagnolo Lopez Nieto. Dal punto di vista tattico le due compagini adottano entrambe il 3-5-2 (che allora veniva prosaicamente definito 5-3-2), un sistema di gioco che a met&agrave; degli Anni Novanta &egrave; imperante in Italia. Nelle file cagliaritane Firicano &egrave; il libero, Villa e Napoli agiscono in marcatura rispettivamente su Rub&eacute;n Sosa e Bergkamp, mentre un terzo difensore, Bellucci, viene schierato a centrocampo a uomo su Fontolan, il centrocampista nerazzurro pi&ugrave; offensivo, che agisce quasi da trequartista. L&rsquo;Inter, infatti, impiega a uomo solamente Antonio Paganin (su Lul&ugrave; Oliveira) e Ferri (su Vald&eacute;s), con Beppe Bergomi battitore libero (preferito da Marini al pi&ugrave; tecnico Battistini), mentre i quattro centrocampisti (da destra a sinistra: Orlando, Manicone, Jonk e Massimo Paganin) sono schierati a zona con Fontolan che parte in posizione leggermente avanzata da trequartista/incursore.   &nbsp; La cronaca di Cagliari-Inter &nbsp; Parte subito forte il Cagliari: cross dalla destra di Sanna ed incornata di Dely Vald&eacute;s che manda la palla fuori. Insiste la squadra di casa, al 5&rsquo; Allegri raccoglie una respinta dalla difesa e calcia un tiro rimbalzante che per&ograve; viene bloccato in sicurezza da Zenga. Al 6&rsquo; per&ograve;, alla prima occasione della gara, passa in vantaggio l&rsquo;Inter: Bergkamp controlla bene la palla in area, allarga il gioco su Orlando, il cui cross trova l&rsquo;inserimento di Fontolan che di testa manda il pallone a scavalcare Fiori con una palombella. Il Cagliari, che si &egrave; presentato con una formazione imbottita di difensori, sembra patire lo svantaggio e ci mette qualche minuto per ingranare, ma all&rsquo;11&rsquo; trova il pareggio: bel passaggio in profondit&agrave; di Allegri, Oliveira controlla bene il pallone, si prende gioco del suo marcatore Antonio Paganin e con un diagonale mortifero scaglia il pallone alle spalle di Zenga, 1 a 1. Al 14&rsquo; Sosa di opportunismo, sugli sviluppi di una punizione, impegna Fiori, ma l&rsquo;uruguagio era in fuorigioco. Con il passare dei minuti l&rsquo;Inter inizia a prendere le redini del match, anche se per trovare la prima occasione per la squadra di Marini bisogna aspettare il 21&rsquo; quando, su un cross di Manicone, Bergkamp di testa manda il pallone fuori. Passano tre minuti ed il Cagliari si fa nuovamente pericoloso: su una punizione dalla destra di Matteoli, Dely Vald&eacute;s colpisce bene la palla di testa, ma la indirizza troppo centralmente e Zenga para. Al 26&rsquo; un cross insidioso dello scatenato Allegri non trova nessuno in area di rigore. Al 29&rsquo;, per&ograve;, l&rsquo;Inter va vicinissima al vantaggio: su una punizione dai trenta metri di Sosa, la palla va prima a schizzare sul palo e poi sulla schiena di Fiori per poi finire sul fondo. Al 34&rsquo; Allegri commette un fallaccio su Fontolan e viene ammonito dall&rsquo;arbitro Lopez Nieto, essendo diffidato il centrocampista livornese salter&agrave; la gara di ritorno. Due minuti dopo &egrave; Manicone a beccarsi il giallo per un fallaccio su Oliveira. Al 43&rsquo; altro cross da destra di Manicone, questa volta il colpo di testa &egrave; di Sosa, ma finisce ancora a lato; sessanta minuti dopo Jonk ci prova dalla lunghissima distanza e Fiori blocca in due tempi. Al 45&rsquo; il Cagliari costruisce l&rsquo;occasione pi&ugrave; grossa del primo tempo: Dely Vald&eacute;s riceve un allungo di Allegri, si gira di scatto e punta la porta, il suo tiro, a Zenga battuto, viene salvato quasi sulla linea da Fontolan. &Egrave; l&rsquo;ultima occasione di un primo tempo scoppiettante che termina sull&rsquo;1 a 1, la ripresa non sar&agrave; da meno!  &nbsp;  La ripresa si apre con una punizione alle stelle di Rub&eacute;n Sosa. Al 48&rsquo; bel lancio in profondit&agrave; di Allegri, ma Oliveira viene anticipato in area da un intervento di Antonio Paganin. Al 50&rsquo; capitan Matteoli trova con un lancio millimetrico Dely Vald&eacute;s che scappa in progressione per poi scagliare un bolide che termina di poco a lato alla sinistra di Zenga. Due minuti pi&ugrave; tardi Pusceddu dai trentacinque metri cerca il gol impossibile, ma il suo tiro mancino termina di molto fuori. Al 53&rsquo; si fa vedere l&rsquo;Inter: Bergkamp si libera in slalom di due avversari e poi serve un pallone al fluidificante Massimo Paganin, trovatosi in attacco, che con lo specchio spalancato non riesce ad inquadrare la porta. Al 58&rsquo; Fontolan calcia un fendente da posizione laterale, ma Fiori respinge il pallone con il pugno. L&rsquo;Inter ha preso coraggio e al 61&rsquo;, su una prolungata azione di contropiede, la Benamata torna in vantaggio: su un filtrante di Manicone, Rub&eacute;n Sosa calcia un tiro di punta, bruttissimo da vedere, ma tremendamente efficace, che ruba il tempo d&rsquo;intervento a Fiori, battendolo senza piet&agrave;, 2 a 1. Aveva proprio ragione Bagnoli: l&rsquo;uruguaiano &ldquo;de tattica el cap&igrave;ss nient&rdquo; per&ograve; trova la porta come pochi! Al 62&rsquo; Giorgi cerca il tutto per tutto inserendo Criniti, una mezzapunta, per Allegri, decidendo poi di spostare il neoentrato sulla fascia destra, con Sanna che viene portato al centro. Due minuti dopo Angelo Orlando entra in maniera scomposta su Oliveira, il cursore nerazzurro si becca il giallo ed, essendo diffidato, salter&agrave; anch&rsquo;egli la gara di ritorno. Al 67&rsquo;, sugli sviluppi di una punizione, un morbido cross di Matteoli trova lo stacco di Dely Vald&eacute;s che manda il pallone alto. Dopo soli centoventi secondi il Cagliari rischia una clamorosa autorete, con un colpo di testa in alleggerimento di Firicano che quasi scavalca Fiori, il quale, con un colpo di reni, recupera in presa alta. Al 70&rsquo; Criniti sguscia via a Massimo Paganin e mette al centro un pallone teso, respinto da Zenga. Al 73&rsquo; la squadra sarda costruisce un&rsquo;azione da Playstation: dopo una lunga fase di possesso palla, Matteoli trova con un&rsquo;imbucata geniale Oliveira che scarta Zenga, calcia una prima volta a rete trovando l&rsquo;opposizione di Antonio Paganin e poi tira nuovamente in porta, trovando l&rsquo;opposizione di Zenga, prontamente ritornato a guardia dei suoi pali. La spinta del Cagliari si concretizza all&rsquo;82&rsquo; quando su un cross dalla destra, Criniti (non proprio un granatiere) anticipa di testa Massimo Paganin, lasciando di sale Zenga: 2 a 2 e il Sant&rsquo;Elia esplode di gioia! Passa un solo minuto e Giorgi compie la seconda mossa decisiva per il suo capolavoro: Pancaro, un terzino d&rsquo;attacco, entra per Bellucci, uno stopper puro. All&rsquo;87&rsquo; quindi si corona la rimonta sarda: sugli sviluppi di un corner da sinistra, Pancaro, dimenticato in area da una difesa interista a dir poco statica, calcia un fendente di sinistro (leggermente deviato) che si insacca alla sinistra di Zenga. Il terzino del Cagliari, forse ancora incredulo, inizia correre a perdifiato sotto la tribuna con il suo allenatore Giorgi, vestito rigorosamente in tuta, che inizia a rincorrerlo con uno scatto da centometrista, poi i due si abbracciano per un istante mentre il Sant&rsquo;Elia &egrave; un&rsquo;autentica bolgia festante. L&rsquo;Inter, tramortita dal micidiale uno-due del Cagliari, non riesce ad abbozzare alcuna reazione fino alla fine, con i rossobl&ugrave; che concludono il match con un&rsquo;estenuante melina. &nbsp; Le reazioni alla partita &nbsp; Nelle consuete interviste a caldo, capitan Bergomi &egrave; laconico: &ldquo;Colpa nostra!&rdquo;; mentre Fontolan, autore di una grande prestazione, la vedo meno nera: &ldquo;il 3-2 si pu&ograve; ancora rimontare, siamo abbastanza fiduciosi&rdquo;. Bruno Giorgi invece afferma che a vincere la sfida sono stati &ldquo;i cambi della disperazione&rdquo;, mentre un arrabbiatissimo Marini si rifiuta di parlare. In sala stampa il tecnico cagliaritano aggiunge: &ldquo;Avevamo preparato con cura questo incontro. Purtroppo la stanchezza ha pesato, ad un certo punto, sulle gambe dei miei giocatori: ritengo di aver preso almeno una rete di troppo. Ora abbiamo il cinquanta per cento di probabilit&agrave; di passare il turno e di arrivare alla finale di coppa&rdquo;. Giampiero Marini invece non ha sbollito la rabbia: &ldquo;Il Cagliari in questo momento &egrave; meglio di noi, i rossobl&ugrave; ci hanno battuto meritatamente. La svolta della partita si &egrave; avuta nel finale dell'incontro, quando dovevamo stare pi&ugrave; attenti e tenere pi&ugrave; a lungo la palla. Cosa che in questo momento purtroppo qualche giocatore non sa fare&rdquo;. Al ritorno per&ograve; non ci sar&agrave; storia e un&rsquo;Inter ritrovata si qualificher&agrave; per la finalissima (che vincer&agrave; contro l&rsquo;Austria Salisburgo) con un netto 3-0, spegnendo cos&igrave; il sogno di un Cagliari mai arrivato cos&igrave; vicino ad un grande traguardo europeo. Per Bruno Giorgi, l&rsquo;artefice di quella serata indimenticabile e del Cagliari pi&ugrave; europeo della storia ci sar&agrave; invece l&rsquo;oblio. Il tecnico gentiluomo, infatti, in odore di rinnovo alla vigilia della semifinale, verr&agrave; sostituito dall&rsquo;uruguaiano &Oacute;scar Washington Tab&aacute;rez, un altro galantuomo della panchina. Nella stagione 1995-96, per&ograve;, Giorgi non sapr&agrave; dire di no quando il presidente Cellino, noto &ldquo;mangia allenatori&rdquo;, gli chiede di rimpiazzare la leggenda Trapattoni sulla panchina di un Cagliari pericolante. Nelle ultime dodici giornate di campionato i sardi vengono letteralmente rivitalizzati da Giorgi che nell&rsquo;estate successiva decide di abbandonare a soli 56 anni la carriera di allenatore. Poi quattordici lunghi anni di silenzio attorno al &ldquo;Paul Newman del calcio italiano&rdquo; finch&eacute; il 22 settembre 2010, a funerali gi&agrave; consumati, viene data la notizia della morte di Bruno Giorgi, un personaggio che &egrave; stato sicuramente dimenticato dal mondo del calcio, ma non in Sardegna dove ancora oggi ha un posto speciale nel cuore di tanti tifosi, che in quel 30 marzo 1994 sognarono per una seconda volta in grande nella loro storia. &nbsp;        

Semifinale della seconda competizione continentale della stagione 1993-94 tra i rossobl&ugrave; di Bruno Giorgi e l'Inter di Gianpiero Marini: nella sfida del Sant'Elia vittoria 3-2 dei padroni di casa. Era il 30 marzo 1994

La notte quando Cagliari sognò la finale di Coppa Uefa

        Una vittoria prestigiosa che apre alla Lazio le porte della sua prima finale europea. Il 31 marzo del 1998, la Lazio di Sven-G&ouml;ran Eriksson, batte 1-0 in trasferta l&rsquo;Atletico Madrid. A segnare il gol decisivo fu Vladimir Jugovic; a conservare il risultato, arrivarono le parate di Luca Marchegiani, portiere di quella Lazio: &laquo;&Egrave; stata una grande partita contro un avversario forte, molto temuto. Una delle gare che ci ha fatto capire che eravamo diventati grandi. L&rsquo;Atletico Madrid era una squadra prestigiosa, composta da giocatori fortissimi, che due anni prima avevano vinto lo scudetto. E l&rsquo;ossatura di quella squadra era formata da tutti i calciatori che avevano trionfato poco prima. Rosa alla quale si era aggiunto anche Bobo Vieri&raquo;. Che poi vi siete ritrovati in squadra a distanza di qualche mese...&laquo;Era il capocannoniere del campionato spagnolo, che aveva fatto dei gol mostruosi. A livello nazionale era al top: si stava affermando a livello internazionale ed era molto temuto da tutti&raquo;. Che ambiente avete trovato?&laquo;Caldissimo. I tifosi dell&rsquo;Atletico Madrid sono molto attaccati alla squadra e creano sempre un&rsquo;atmosfera molto calda. La stessa che trover&agrave; oggi la Lazio, anche se ci sono poche cose in comune con oggi: lo stadio era diverso, le squadre erano diverse. Ma il calore sar&agrave; lo stesso&raquo;. Che partita fu quella giocata a marzo del 1998?&laquo;Una partita dura, contro un avversario ostico e ben messo in campo. Siamo stati favoriti dall&rsquo;aver trovato il gol nel primo tempo. Segnare in trasferta, in una gara che si gioca in 180&rsquo; &egrave; stato un bel vantaggio, che ci ha permesso di gestire bene la sfida e la gara di ritorno&raquo;.    A segnare fu Vladimir Jugovic, che poi in estate pass&ograve; all&rsquo;Atletico Madrid. Quanto fu importante il suo inserimento all&rsquo;interno di quel gruppo?&laquo;Lui aveva vinto la Champions League con la Juventus. Port&ograve; una grande mentalit&agrave;: un giocatore di poche parole, ma di grande sostanza. &Egrave; stato uno di quelli che ha contribuito tantissimo alla crescita della squadra. Conosceva bene Eriksson, Mancini e questo lo aiut&ograve; tantissimo ad inserirsi e a portare nel gruppo quella spinta che fu poi decisiva per i successi che abbiamo ottenuto in seguito&raquo;. Quella stagione inizi&ograve; con l&rsquo;arrivo di Mancini, prosegu&igrave; con l&rsquo;addio di Signori e si chiuse con le finali di Coppa Italia e di Coppa Uefa...&laquo;Fu l&rsquo;anno in cui ci rendemmo davvero conto che potevamo lottare per i massimi obiettivi. Essere arrivati in finale di Coppa Uefa ed aver vinto la Coppa Italia ci ha fatto fare quel salto di mentalit&agrave; che negli anni successivi ci ha portato a lottare per ogni competizione. E la Lazio non era storicamente abituata a questo. Capimmo che ce la potevamo giocare con tutti&raquo;. La Lazio batte l&rsquo;Atletico Madrid e vola in finale, dove perde con l&rsquo;Inter. Tempo fa Nesta dichiar&ograve; di non avere rimpianti su quella sfida, perch&egrave; Ronaldo era davvero imprendibile. &Egrave; d&rsquo;accordo?&laquo;S&igrave;. Nesta ha ragione. Ronaldo quella sera fece la differenza&raquo;. &nbsp;    Ma la Lazio in campionato con i nerazzurri collezion&ograve; un pareggio a Milano (1-1) e una vittoria 3-0 in casa. Nell&rsquo;arco della stagione non fu inferiore ai nerazzurri.&laquo;Ma quella sera Ronaldo era immarcabile. Fece una gara che ancora oggi la raccontano. Noi arrivammo a quella finale stanchi, con qualche problema di formazione: arrivammo in fondo a tutte le competizioni e subentr&ograve; un po&rsquo; di stanchezza e qualche infortunio di troppo. E forse quella vittoria in campionato non ci aiut&ograve;: forse inconsciamente pensammo che non avremmo trovato tutte quelle difficolt&agrave; che invece ci furono. Passammo in svantaggio dopo pochi minuti e regalare le ripartenze all&rsquo;Inter fu deleterio&raquo;. La stagione successiva arriv&ograve; la vittoria in Coppa delle Coppe, poi lo scudetto. Nel segno di un giocatore che ha fatto la storia di Lazio e Atletico Madrid: Diego Simeone.&laquo;Ho una stima enorme di Simeone. Nella Lazio &egrave; stato decisivo: quando abbiamo recuperato punti alla Juve, lui &egrave; stato fondamentale. Quella stagione non fu sempre titolare. A volte gioc&ograve; Sensini, a volte Almeyda, ma lui ha avuto il merito di essere decisivo nel momento in cui serviva. La sua pi&ugrave; grande qualit&agrave;, da giocatore e da tecnico, &egrave; che &egrave; sempre focalizzato su ci&ograve; che serve per ottenere il risultato&raquo;. Luca Marchegiani &egrave; il portiere dello scudetto, delle vittorie nelle coppe, dei successi nei derby. A distanza di anni, c&rsquo;&egrave; una cosa che le d&agrave; pi&ugrave; soddisfazione pensando alla sua esperienza alla Lazio?&laquo;Non c&rsquo;&egrave; una cosa specifica. Io sono orgoglioso di ci&ograve; che ho fatto a Roma: di aver legato il mio nome a questo club e di aver vinto tanto. Per me &egrave; sempre stato fondamentale sentire il senso di appartenenza. Mi piace legarmi alle persone, all&rsquo;ambiente e credo di essere stato apprezzato per ci&ograve; che ho fatto. Ho avuto anche la fortuna di giocare in questo club in un momento straordinario. Nella storia della Lazio ci sono stati sicuramente gruppi pi&ugrave; epici: penso alla squadra del 1974 ad esempio. Ma noi siamo quelli che abbiamo regalato continuit&agrave; di vittorie&raquo;. La partita che le &egrave; rimasta pi&ugrave; nel cuore?&laquo;Per quello che ha rappresentato, sicuramente la Supercoppa Europea con il Manchester United: un avversario fortissimo. &Egrave; stato il momento in cui abbiamo dimostrato di poter battere i pi&ugrave; forti&raquo;. La parata pi&ugrave; bella?&laquo;Io non ero uno che faceva parate da copertina: ero un portiere tecnico, con buon senso della posizione, che amava essere pi&ugrave; efficace che spettacolare. Se devo scegliere, ti dico una parata su un colpo di testa di Scholes durante la finale di Supercoppa Europea&raquo;.       

Intervista al portiere dell'era pi&ugrave; vincente dei biancocelesti. Tra i ricordi la doppia sfida con l'Atletico nelle semifinali di Coppa Uefa del 1998: &laquo;Fu l&igrave; che capimmo subito di aver fatto il salto di qualit&agrave;&raquo;&nbsp;

Luca Marchegiani: «La mia Lazio diventò grande a Madrid»

        Fabio Petruzzi &egrave; stato uno dei protagonisti della Roma degli anni Novanta. Cresciuto nelle giovanili giallorosse, lasci&ograve; la Capitale proprio nella stagione in cui la squadra conquist&ograve; il suo terzo scudetto. Difensore centrale dotato di ottimi fondamentali, era capace di impostare il gioco sia nelle difese con stopper e libero che in quelle schierate in linea, come testimonia l&rsquo;uguale apprezzamento che gli riconobbero allenatori diversi come Mazzone e Zeman. In questa intervista racconta le esperienze vissute in quegli anni proprio partendo dall&rsquo;ultima partita che gioc&ograve; in Coppa Uefa l&rsquo;8 dicembre 1998 a Zurigo. &nbsp; &nbsp; Fabio, quel match contro lo Zurigo in trasferta fin&igrave; 2-2 e qualific&ograve; la Roma ai quarti di finale. Ricordi che clima c&rsquo;era allo stadio?  &laquo;Faceva freddissimo! Mi viene in mente che noi avevamo la maglia nera a maniche lunghe. Ricordo che loro avevano un attaccante molto bravo, Bartlett, che fece una doppietta&raquo;. Lo Zurigo ebbe un rigore a favore causato da un tuo intervento su Di Jorio. Come and&ograve; quell&rsquo;azione? &laquo;Sinceramente mi chiedi troppo, non me lo ricordo! Ho in mente il risultato e il loro attaccante bravo ma del mio rigore niente! Ci sono molte partite delle quali non ricordo nulla. Del resto sono passati tanti anni&hellip;&raquo;. In quella partita Aldair, per l&rsquo;assenza di Cafu, fu costretto a giocare a destra. Come approcciava quel ruolo il brasiliano? &laquo;In quel periodo Aldair gioc&ograve; diverse partite a destra. Si diceva che avendo degli esterni difensivi un po&rsquo; pi&ugrave; puri avremmo potuto prendere meno gol. Non lo so, sicuramente Cafu e Candela erano due fenomeni che spingevano molto e questo a volte poteva portare a rimanere due contro due o uno contro uno. Quanto a Pluto, anche quello non me lo ricordo bene ma non mi sembra che fosse tanto contento di giocare terzino&hellip;&raquo;. Nello spogliatoio chi era il leader di quella squadra?  &laquo;Guarda, innanzitutto c&rsquo;&egrave; da dire che eravamo un grande gruppo fatto di grandi calciatori ma non c&rsquo;era un leader assoluto. Totti eccelleva per le qualit&agrave; tecniche e in campo faceva gi&agrave; la differenza, Di Biagio aveva molta personalit&agrave;, Aldair era un campione del mondo&raquo;.  Per assonanza, dopo Bartlett mi viene da pensare a Bartelt, che era arrivato quell&rsquo;anno a Trigoria: fece qualche giocata incredibile ma alla fine non lasci&ograve; il segno. Mi sai dire che calciatore era? &laquo;Era un giocatore particolare: magari dal punto di vista tecnico non era straordinario ma riusciva a fare delle giocate in mezzo a due-tre avversari clamorose. Era capace di uscire a duecento all&rsquo;ora da situazioni difficili che non ti saresti mai aspettato. Tipo l&rsquo;azione che fece contro la Fiorentina quell&rsquo;anno, che ci permise di ribaltare il risultato&raquo;. Quella sera a Zurigo ricorrevano sedici anni esatti da una partita di Coppa Uefa memorabile: Roma-Colonia 2-0. Hai qualche ricordo particolare di quel match? &laquo;In quella partita io facevo il raccattapalle, ero un ragazzino. Era un&rsquo;emozione unica vedere da vicino i miei campioni, soprattutto Di Bartolomei: per me Agostino &egrave; stato il pi&ugrave; grande di tutti. Ricordo quanto ho esultato al gran gol di Falcao, col tiro dopo lo stop di petto. Peraltro io stavo proprio sotto la Curva Sud quando Paulo corse l&igrave; dopo aver segnato. Venne con tutti i compagni: belle emozioni&raquo;.  Nel 1998-99 la Roma non riusc&igrave; ad andare oltre i quarti di finale, fermata dall&rsquo;Atletico Madrid in una partita in cui l&rsquo;arbitro venne fortemente contestato. Secondo te quella squadra aveva il potenziale per arrivare in finale? &laquo;S&igrave;, quella squadra era forte. Faceva un bel calcio e aveva preso consapevolezza di quello che si doveva fare in campo: andava a giocarsela ovunque. Poi &egrave; vero che rischiavamo anche di perdere con chiunque perch&eacute; potevamo incappare in brutte giornate. Per&ograve; anche quando mancavano giocatori importanti, i compagni che li sostituivano facevano sempre una grande prestazione&raquo;.  Il modo di giocare che aveva quella Roma, che non faceva calcoli e giocava sempre all&rsquo;attacco, era adatto per affrontare le competizioni europee? &laquo;Direi di s&igrave;. Prendi, ad esempio, la partita in trasferta col Leeds (Leeds-Roma 0-0, 3 novembre 1998, ndr): rimanemmo in dieci per l&rsquo;espulsione di Wome ma non subimmo un tiro in porta. Era una squadra che quando doveva stare pi&ugrave; accorta lo sapeva fare&raquo;.  A Zurigo fu la tua ultima partita in Coppa Uefa. Qualche rimpianto? &laquo;No, non ho rimpianti. Io ho indossato la maglia della Roma e ho giocato con grandi calciatori. Da piccolo andavo allo stadio e sentivo l&rsquo;inno di Lando Fiorini, non vedevo l&rsquo;ora di entrare all&rsquo;Olimpico e godere di quelle immagini meravigliose: il prato verde, la Curva Sud. Io ho toccato con un dito tutto questo: cosa posso volere di pi&ugrave;? Solo aver calcato quel manto erboso che vedevo da bambino per me &egrave; stato un sogno. Ho vissuto emozioni che rimarranno sempre dentro di me, come quando passavo sotto quella curva prima di un derby e sentivo il cuore battere a duecento all&rsquo;ora che mi faceva temere di avere un infarto. Certo, mi sarebbe piaciuto vincere qualcosa. Non ho vinto il campionato da calciatore perch&eacute; nel 2001 ero andato via, per&ograve; l&rsquo;ho vinto da tifoso&raquo;.  Come si troverebbe Fabio Petruzzi nella Roma di oggi?  &laquo;Non lo so, oggi il calcio &egrave; cambiato. Gradivo molto giocare a uno, due tocchi, dare palla avanti, forse perch&eacute; fino a diciotto anni ero stato un centrocampista centrale: mi piaceva impostare dal basso. Con Mazzone gi&agrave; facevamo la difesa a tre: io stavo centrale con Aldair e Lanna ai lati. Quindi s&igrave;, penso che mi potrei trovare abbastanza bene con la costruzione del basso che si pratica oggi. Anche se, ti dico la verit&agrave;, per me si eccede con questa impostazione: il rischio che si possa perdere palla &egrave; superiore alla possibilit&agrave; di eludere la pressione. E poi, anche quando ci riesci, non &egrave; detto che arrivi a creare una situazione di gioco pericolosa, perch&eacute; comunque stai a settanta metri dalla porta avversaria. Mentre se perdo palla vicino alla mia porta sicuramente devo subirne una&raquo;.  Come vedi la stagione europea della Roma di Mourinho? Pu&ograve; arrivare a Dublino per riscattare Budapest? &laquo;Ce lo auguriamo anche se quest&rsquo;anno &egrave; un po&rsquo; pi&ugrave; difficile. Intanto c&rsquo;&egrave; il Liverpool. E poi dalla Champions potrebbero scendere un po&rsquo; di &ldquo;carri armati&rdquo;. Gi&agrave; se prendi il girone del Milan, una tra loro, PSG, Borussia o Newcastle scender&agrave; in Europa League. &Egrave; dura ma va detto che Mourinho &egrave; un tecnico da competizione. La Roma &egrave; una squadra che quando va in trasferta non fa giocare l&rsquo;avversario mentre in casa, davanti a 65.000 persone che ti spingono, si trasforma e d&agrave; qualcosa in pi&ugrave;&raquo;. &nbsp; &nbsp;       

Il difensore giallorosso era tra i titolari nella trasferta svizzera del 1998: &laquo;Ricordo il freddo e quel pari che ci qualific&ograve; ai quarti Uefa&raquo;

Petruzzi: "Zurigo, la Roma, la difesa a 3, Mazzone"

        Una vittoria che vale per dieci, almeno. Anche se la bacheca si riempie appena di un trofeo, molto dipende anche dalla maniera con cui lo si conquista. E il modo di vincere la Coppa Uefa del 1988 da parte del Bayer Leverkusen &egrave; intriso nella leggenda: intanto perch&eacute; &egrave; l&rsquo;unico trofeo continentale mai sollevato dalle &ldquo;Aspirine&rdquo; e poi perch&eacute; arriv&ograve; al termine di un doppio confronto in finale contro l&rsquo;Espanyol degno di un film thriller: 3-0 a Barcellona per i padroni di casa, 3-0 per i tedeschi a Leverkusen e rigori decisivi a favore del Bayer dopo i supplementari. Coppa Uefa 1987-88, il Bayer Leverkusen outsider di lusso Il Bayer di quell&rsquo;anno comunque era una squadra solidissima: a parte il 3-0 preso dall&rsquo;Espanyol nell&rsquo;andata della finale, i tedeschi non persero nessun&rsquo;altra partita durante il percorso. Anzi, tra le vittime ci furono squadre di tutto rispetto come il Feyenoord e soprattutto il Barcellona, eliminato ai quarti di finale da una rete di Tita, brasiliano che poi sarebbe venuto a giocare al Pescara. Zero a zero a Leverkusen, 1-0 al Camp Nou. In semifinale poi derby fratricida tutto tedesco contro il Werder Brema, anche qui di &ldquo;corto muso&rdquo;, grazie all&rsquo;1-0 dell&rsquo;andata confermato dallo 0-0 del ritorno. Werder che comunque vincer&agrave; la Bundesliga, a conferma del capolavoro del Leverkusen, non molto considerato all&rsquo;inizio di quel torneo e capace invece di spingersi fino all&rsquo;atto conclusivo. Un torneo in cui erano presenti quattro squadre italiane, tutte piuttosto deludenti: Inter, Milan, Juventus e Verona, con l&rsquo;Hellas unica in grado di andare un po&rsquo; pi&ugrave; avanti nella manifestazione, fuori ai quarti di finale proprio contro il Werder Brema. Bayer Leverkusen, i protagonisti della Coppa Uefa 1987-88 Una squadra, quella, di spessore internazionale come dimostrano i nomi degli stranieri a disposizione dell&rsquo;allenatore Erich Ribbeck: Tita, ne abbiamo gi&agrave; parlato, ex pilastro del Flamengo di Zico campione della Libertadores, il polacco Buncol, motore della squadra terza al Mondiale 1982, e il sudcoreano Cha Bum-kun, uno dei primissimi asiatici a spopolare nei campionati europei. Tutt&rsquo;altro che solamente esotico, Cha, capace di sdoppiarsi in un doppio lavoro da attaccante e da esterno (destro) che farebbe la fortuna degli allenatori di oggi: per lui peraltro seconda Coppa Uefa in carniere dopo quella del 1980, quando aveva vinto con l&rsquo;Eintracht Francoforte. Insomma, un giocatore di spessore internazionale. L&rsquo;anima tedesca era incarnata da capitan Rolff soprattutto, dal difensore Reinhardt e dal bomber Falko G&ouml;tz: dalla panchina si alzava un altro futuro &ldquo;italiano&rdquo;, l&rsquo;attaccante Herbert Waas, che andr&agrave; a giocare al Bologna senza troppa fortuna. Espanyol-Bayer Leverkusen 3-0: andata disastrosa Tutti gli appassionati comunque ricordano quella finale, quel doppio confronto, contro una vera outsider come l&rsquo;Espanyol del basco Clemente e con in campo, tra gli altri, Ernesto Valverde, futuro tecnico del Barcellona e attuale allenatore dell&rsquo;Athletic Bilbao. Catalani reduci da una clamorosa rimonta in semifinale ai danni del Bruges, da 2-0 a 3-2, sempre tra andata e ritorno, e che cominciano la finale allo stadio Sarri&agrave; di slancio. Tutto si concretizza a cavallo tra il primo e il secondo tempo, quando in 14 minuti, pi&ugrave; naturalmente l&rsquo;intervallo, l&rsquo;Espanyol colpisce in tre occasioni: doppietta di Losada e gol di Soler dopo una rete precedentemente annullata ai padroni di casa. Una lezione di calcio che non sembra solo rimontabile, ma nemmeno avvicinabile. I catalani in porta peraltro hanno un muro, sulla carta, come il camerunese N&rsquo;Kono, quindi il 3-0 dell&rsquo;andata pare proprio una sentenza. Eppure mai dire mai. Bayer Leverkusen-Espanyol, rimonta da favola e trionfo ai rigori Ribbeck per il ritorno fa solo un cambio davanti: fuori Waas e dentro Gotz, dietro di lui Cha e Tita. Purtroppo per il Bayer il primo tempo finisce 0-0. A quel punto l&rsquo;allenatore tedesco si gioca il tutto per tutto e mette Waas, passando a una specie di 4-3-3 molto offensivo, che &egrave; la svolta della gara. Spunto di Waas a destra, cross in area dove si accende un mischione risolto da Tita con una zampata sottomisura: parrebbe un gol casuale, ma l&rsquo;inerzia gira quasi subito con il 2-0 di Gotz al minuto 63, servito da T&auml;uber appena entrato al posto proprio di Tita, non proprio d&rsquo;accordo con la decisione del suo allenatore. Il 3-0 nel finale &egrave; di Cha, inesauribile, di testa su calcio di punizione. Supplementari di studio e poi rigori, dove il Bayer inizia male, sbagliando con Falkenmayer: l&rsquo;Espanyol invece &egrave; perfetto nei primi due tiri, ma la svolta arriva quando Urquiaga spiazza Vollborn ma centra la traversa. Da l&igrave; i catalani non ne azzeccano pi&ugrave; una, mentre il Leverkusen mette la testa avanti con Waas e T&auml;uber. L&rsquo;ultimo rigore &egrave; di Losada, l&rsquo;eroe dell&rsquo;andata, che spara alto. Tripudio per i tedeschi, che sollevano la Coppa Uefa davanti al loro pubblico, per quello che ancora oggi &egrave; l&rsquo;unico titolo internazionale in bacheca.       

I tedeschi hanno conquistato la Coppa Uefa del 1987-88 contro l&rsquo;Espanyol pareggiando lo 0-3 subito all&rsquo;andata e vincendo ai rigori al termine di una rimonta rimasta nella storia

Il Bayer Leverkusen e quella goduria dagli 11 metri

        Appassionato, sincero, coinvolgente. Ruggiero Rizzitelli, quando parla della Roma, te la fa rivivere con gli accenti sentimentali di un vero tifoso. Nell&rsquo;intervista che segue, descrive quella della stagione 1990-91, che vide i giallorossi vincere la Coppa Italia e arrivare in finale di Coppa Uefa, partendo dal vittorioso confronto nei quarti di finale della competizione europea contro l&rsquo;Anderlecht.&nbsp;&nbsp; Il 6 marzo 1991, dopo aver eliminato Benfica, Valencia e Bordeaux, affrontavate l&rsquo;Anderlecht all&rsquo;Olimpico. Era un avversario da temere? &ldquo;S&igrave;, anche se non veniva dal suo periodo migliore. Ma era comunque una squadra che faceva sempre le coppe ed era abituata a giocarle a certi livelli, quindi era temibile e noi, per affrontarla, non ci preparammo bene&hellip; di pi&ugrave;! A guardare il risultato oggi (3-0, ndr) potrebbe sembrare che sia stata una passeggiata: in realt&agrave; noi non gli demmo la possibilit&agrave; di fare quello che avrebbero voluto&rdquo;. A beneficio di chi non l&rsquo;ha vista, puoi raccontarci come giocava quella Roma? &ldquo;Non era una squadra di fenomeni per&ograve; aveva fatto gruppo e aveva voglia di arrivare in fondo e vincere qualcosa di importante. Quell&rsquo;anno era arrivato Bianchi, che a inizio stagione era stato chiaro e ci aveva detto: 'A me non interessa tacco e punta, a me servono i risultati. Noi dobbiamo portare qualcosa di importante a questa societ&agrave;'. Noi l&rsquo;avevamo capito soprattutto quando, cominciando a vincere le partite, vedevamo che aumentava l&rsquo;autostima e avevamo un&rsquo;adrenalina incredibile che non ci faceva aver paura di nessuno. Avevamo grinta, cattiveria e voglia di arrivare&rdquo;. Vuoi raccontarci il tuo gol? &ldquo;Giannini mi dette una palla incredibile: mi aveva visto alle spalle dell&rsquo;avversario e mi serv&igrave; d&rsquo;esterno con un tocco da numero dieci. Io arrivavo in diagonale e calciai di destro, sempre in diagonale, riuscendo a battere il portiere. In quel frangente Giannini fece il Totti della situazione, quello che vede il compagno alle spalle&rdquo;. Cosa pensaste quando superaste anche quel turno contro l&rsquo;Anderlecht? &ldquo;Noi partimmo in quell&rsquo;avventura superando un ostacolo durissimo come il Benfica, che pochi mesi prima aveva fatto la finale di Coppa dei Campioni contro il Milan di Sacchi, anche se tutti ci davano per spacciati. Fu da l&igrave; che Bianchi ci disse: &ldquo;Noi siamo undici contro undici, abbiamo voglia di batterli e possiamo batterli: basta crederci&rdquo;. Sconfiggendo il Benfica sia all&rsquo;andata che al ritorno si innesc&ograve; quel meccanismo di autostima di cui ti dicevo prima che ci port&ograve; a superare anche l&rsquo;Anderlecht. A quel punto abbiamo detto: 'Cavolo, possiamo crederci di arrivare in fondo e vincere questa Coppa!'&rdquo;. Chi era il leader in campo di quella squadra? &ldquo;Voeller era il leader carismatico. Ma ogni reparto aveva il suo leader. In difesa c&rsquo;erano Nela, Cervone e Tempestilli, gente che si faceva rispettare. A centrocampo Giannini e Desideri, senza dimenticare il valore che aveva Bruno Conti nello spogliatoio. Era una squadra nata per fare gruppo&rdquo;. Quell&rsquo;anno Dino Viola venne a mancare. Cosa vi tolse la sua morte e cosa vi regal&ograve;? &ldquo;Inizialmente ci tolse tanto. Nella partita in casa contro il Pisa, quella successiva alla sua morte, eravamo talmente afflitti dal dolore che, nonostante volessimo a tutti i costi vincere per dedicargli la vittoria, non ce la facemmo. Poi successe il contrario: la voglia di dargli quella Coppa ci dette forza. La moglie Flora davvero gliela voleva regalare. Anche se lui non c&rsquo;era pi&ugrave;, sapevamo che ci aspettava a quel traguardo".  Per te ci sono delle similitudini tra quella Roma e questa di Mourinho? &ldquo;Secondo me s&igrave;. Sia Bianchi che Mourinho sono allenatori che non guardano alla bellezza. E poi, a mio modo di vedere, anche la fase difensiva &egrave; una cosa bella. Io quando recuperavo un pallone perso da un compagno e vedevo la soddisfazione nei suoi occhi ero compiaciutissimo. Quella &egrave; la forza di una squadra. Del resto un allenatore fa delle scelte anche in funzione degli uomini disponibili: se non ha una squadra votata per l&rsquo;attacco non deve essere stupido e andare allo sbaraglio. Un tecnico deve essere responsabile e capace a leggere il tipo di calciatori che ha a disposizione&rdquo;.&nbsp; Quell&rsquo;anno andaste in finale in Coppa Italia e Coppa Uefa, mentre in campionato conseguiste un anonimo nono posto. Come impatt&ograve; la doppia corsa campionato-coppa? &ldquo;Considera che all&rsquo;epoca avevamo una rosa che non era ampia come quelle di oggi, per cui a un certo punto della stagione facemmo una scelta: visto che in campionato non potevamo arrivare pi&ugrave; dove volevamo arrivare, decidemmo di puntare sulle coppe. E facemmo bene, visto che arrivammo a due finali. Con una quindicina di giocatori non era realistico puntare a tre obiettivi&rdquo; Secondo te ha pi&ugrave; spessore tecnico l&rsquo;attuale Europa League o la vecchia Coppa Uefa? &ldquo;Non c&rsquo;&egrave; paragone. Quando si parte dal primo turno col doppio confronto da dentro o fuori significa che dall&rsquo;inizio non puoi sbagliare. Ci vogliono attenzione, attributi, forza, coraggio: non puoi permetterti di sbagliare partita. Coi gironi di oggi puoi anche perdere due incontri e qualificarti lo stesso. Il fascino di arrivare in finale, in passato, era proprio quello, legato al fatto di rischiare di uscire ad ogni turno. La tensione, sin dall&rsquo;inizio, era molto diversa&rdquo;. Oggi &egrave; il compleanno di Rudi Voeller: com&rsquo;era averlo come compagno?&nbsp; &ldquo;Ti racconto questo episodio. Finale di andata di Coppa Italia con la Sampdoria: ero stremato, avevo i crampi anche al cervello. A un certo punto mi si avvicina e mi dice: 'Dai Ruggiero, adesso corro io per te. Tu vai avanti e riposa'. Quel gesto mi dette la forza di reagire, tanto che dopo cinque minuti mi ero ripreso e gli dissi di tornare al suo posto. Gesti che solo un campione pu&ograve; fare&rdquo;.&nbsp; Hai un aneddoto da raccontare legato a un suo compleanno? &ldquo;Ristorante Fontanone, compleanno di Rudi. Invitato speciale: Renato Zero, che si mise a cantare una canzone per lui. Noi ci guardavamo e dicevamo: ma che canzone &egrave; questa? Renato nello spogliatoio lo cantavamo ma nessuno la conosceva. Una canzone bellissima, da commuoversi, ritagliata su Rudi che in quel periodo aveva anche i genitori che non stavano molto bene. Insomma, Renato gli aveva inventato una canzone al momento. Devastante, da brividi&rdquo;.       

Nel 1990-91 i giallorossi superarono l&rsquo;Anderlecht nei quarti di Coppa Uefa grazie anche a un suo gol: &ldquo;A Ottavio Bianchi non interessavano tacco e punta, gli servivano i risultati&rdquo;

Rizzitelli: “La mia Roma come quella di Mourinho”

        Era il 26 ottobre 1988, esattamente 34 anni fa, quando Giovanni Francini segnava un gol di vitale importanza per il cammino del Napoli in Coppa Uefa: &ldquo;Giocammo a Lipsia nella vecchia Germania dell&rsquo;Est, c&rsquo;era ancora il Muro. Una partita difficile, ho fatto gol di testa prima di segnare anche nella sfida di ritorno: mi sa che ce l&rsquo;avevo proprio con loro (ride, ndi.). Scherzi a parte, &egrave; stata una bella serata, un risultato importante ottenuto fuori casa. Quel gol ci ha dato la possibilit&agrave; di continuare l&rsquo;avventura e di vincere la Coppa Uefa. Un trofeo molto importante, che all&rsquo;epoca veniva giocato dalle migliori squadre dei vari campionati (solo chi vinceva il titolo nazionale andava in Coppa dei Campioni, ndi). Vincere la Coppa Uefa in quegli anni era veramente un&rsquo;impresa&rdquo;. Dopo il 2-0 azzurro alla Lokomotive Lipsia nel ritorno al San Paolo (9 novembre 1988), mentre il Milan veniva salvato dalla nebbia del Marak&agrave;na di Belgrado in Coppa dei Campioni, tutte le altre italiane passavano il turno in Europa: la Samp in Coppa Coppe; l&rsquo;Inter, la Roma, la Juve e, appunto, il Napoli in Coppa Uefa. Erano gli anni d&rsquo;oro: &ldquo;Quelli in cui il calcio italiano andava per la maggiore: tutti i giocatori pi&ugrave; importanti volevano giocare da noi&rdquo;. Sulla strada verso il trionfo il Napoli trov&ograve; la Juventus ai quarti di finale: &ldquo;La rimonta sulla Juve fu incredibile: perdemmo 2-0 a Torino e ribaltammo a Napoli con un gol di Renica al 119esimo. Una serata magica, al gol di Alessandro &egrave; venuto gi&ugrave; lo stadio. Poi incontrammo il Bayern e infine lo Stoccarda. Abbiamo battuto tutti club importanti: solo una grande squadra poteva ottenere un risultato cos&igrave;&rdquo;.&nbsp;  In campionato invece gli antagonisti principali erano il Milan di Sacchi e l&rsquo;Inter del Trap: &ldquo;Era una lotta serrata tra noi e il grande Milan degli olandesi, in quegli anni ci alternavamo tra primo e secondo posto. Nel &rsquo;90 vincemmo a Bologna mentre i rossoneri persero a Verona. All&rsquo;ultima battemmo in casa la Lazio con gol di Baroni. Fu un tripudio incredibile, vincere uno scudetto a Napoli non ha paragoni: quello che succede per una vittoria &egrave; indescrivibile. In posti come Napoli c&rsquo;&egrave; pi&ugrave; passione&rdquo;. Alla maglia azzurra Francini ha dato tantissimo, ricordato ancora oggi dai tifosi e non solo per i trionfi raggiunti: &ldquo;Sono stati sette anni fantastici, penso che Napoli sia una delle citt&agrave; pi&ugrave; belle al mondo. Ancora oggi scendo tutte le settimane per partecipare a una trasmissione sportiva. Mi fa piacere essere ricordato per quello che ho fatto, nonostante siano trascorsi tanti anni. Per un calciatore giocare a Napoli &egrave; il massimo. Un pubblico fantastico attaccatissimo alla squadra. Anche quando andavamo in trasferta sembrava giocassimo in casa. &Egrave; vero che Diego trascinava le folle, portava allo stadio tanti appassionati che non erano tifosi, ma il popolo napoletano in quegli anni ci seguiva ovunque&rdquo;.&nbsp;  Arrivato dal Torino nell&rsquo;estate del 1987, nella prima stagione Francini &egrave; un intoccabile di Bianchi. Oltre a difendere &ndash; &ldquo;Ho giocato quasi sempre sulla fascia sinistra, quando c&rsquo;era bisogno giocavo in marcatura, cosa che ho fatto diverse volte anche al Toro&rdquo; &ndash; Giovanni segnava anche. Tutti gol importanti, come quello al Real Madrid, suo primo con la maglia azzurra e primo in assoluto del Napoli in Coppa dei Campioni: &ldquo;In uno stadio strapieno, ci fu un boato impressionante. Abbiamo avuto la sfortuna di incontrare il Real proprio al primo turno. Nella partita d&rsquo;andata a Madrid io ero squalificato dall&rsquo;an- no prima e Careca era infortunato. Avevamo qualche defezione e non eravamo ancora ben rodati... se li avessimo incontrati al secondo turno sono convinto che non ci sarebbe stata storia. Ricordo il primo tempo del San Paolo nella sfida di ritorno, facemmo una gara spettacolare ma purtroppo subimmo l&rsquo;1- 1 a un minuto dall&rsquo;intervallo: quel gol ci tagli&ograve; le gambe&rdquo;. Un&rsquo;altra rete che ricorda con affetto &egrave; quella segnata circa un mese dopo in campionato alla Roma: &ldquo;Eravamo in 9 contro 11 e perdevamo 1-0, espulsi Renica e Careca, quando su un calcio d&rsquo;angolo di Diego andai a saltare. In area eravamo io, un mio compagno e solo avversari: colpii la palla e segnai sull&rsquo;altro palo. Tra l&rsquo;altro quel giorno fin&igrave; il gemellaggio tra Roma e Napoli, quando Salvatore Bagni uscendo fece il gestaccio... ma da quello che so c&rsquo;era gi&agrave; qual- che problema tra le tifoserie: quella fu solo la goccia che fece traboccare il vaso. Peccato perch&eacute; era un bello spettacolo&rdquo;. In quegli anni, a cavallo tra il 1987 e il 1988, Giovanni Francini entr&ograve; anche a far parte del giro della Nazionale, ma la concorrenza era molto agguerrita: &ldquo;Oggi di terzini mancini puri non ce ne sono pi&ugrave; tantissimi, ai miei tempi era pieno, ogni squadra aveva il proprio. La mia posizione in Nazionale era ricoperta da Cabrini e poi &egrave; arrivato Maldini. Un po&rsquo; di Nazionale l&rsquo;ho fatta, sono stato agli Europei in Germania nel 1988 ma non ho mai giocato&rdquo;.&nbsp;        

L'ex difensore ricorda il suo passato da calciatore, la sua rete alla Lokomotive Lipsia del 26 ottobre 1988 e i suoi anni trascorsi in azzurro: "Solo una grande squadra poteva raggiungere quel risultato"&nbsp;

Giovanni Francini: "Che impresa quella Coppa Uefa con il Napoli"

        "La trasferta sul campo dell&rsquo;Olympiakos fu indimenticabile. Giocammo in un ambiente caldissimo e in un campo che sembrava un inferno. E in parte fu anche colpa mia". Andrea Agostinelli ricorda perfettamente il match tra i greci e gli azzurri, disputato il 4 ottobre del 1979. La sfida valevole per il ritorno dei trentaduesimi di Coppa Uefa. "All&rsquo;andata giocammo al San Paolo &ndash; continua l&rsquo;ex centrocampista del Napoli &ndash; davanti a 60.000 spettatori. Fu una gara molto complicata, che vincemmo 2-0, grazie ad un gol su rigore di Oscar Damiani e alla rete che segnai proprio nei secondi finali. Quel gol fece scattare la scintilla in vista della sfida di ritorno". Cosa accadde in quella sfida? "I greci protestarono tantissimo, convinti che il pallone non fosse entrato del tutto. Io feci un gran gol, calciando al volo su un assist di Capone. La palla pass&ograve; tra le gambe del portiere, colp&igrave; il palo e varc&ograve; la linea bianca. Un difensore greco prov&ograve; a respingere, ma lo fece dopo che il pallone era entrato in porta. I giocatori dell&rsquo;Olympiakos protestarono tantissimo con l&rsquo;arbitro, ma era gol". Se ci fosse stata la goal-line technology, tante polemiche non ci sarebbero state. "Certo, ma onestamente le polemiche furono forzate. Io a casa ho la foto di quel gol, che conservo gelosamente. E si vede benissimo il pallone entrare in porta. Diciamo che con le apparecchiature di oggi ci sarebbero stati meno problemi. Anche nella gara di ritorno". Perch&egrave;? Ci furono altri espisodi discussi? "No. In quel caso sarei stato io ad avere dei benefici. Con le immagini, forse, si sarebbe evitata la caccia all&rsquo;uomo che ci fu per novanta minuti". Sempre colpa del gol segnato al novantesimo nel match d&rsquo;andata? "In parte. In realt&agrave;, e lo dico senza falsa modestia. In Grecia giocai una gara quasi perfetta, tanto che il giorno successivo venni premiato nelle pagelle del Corriere dello Sport come il migliore in campo. Quando stavo bene fisicamente, riuscivo a essere quasi imprendibile. E i difensori dell&rsquo;Olympiakos per fermarmi ricorsero alle maniere forti. Diciamo che ci fu il loro terzino che mi picchi&ograve; dal primo all&rsquo;ultimo minuto". Ma non serv&igrave;, visto che riusciste a qualificarvi. "Fortunatamente no. Ma non fu facile. I tifosi dell&rsquo;Olympiakos ci accolsero in modo molto caldo. Giocare in Grecia e in Turchia non era affatto facile. Perdemmo 1-0 al ritorno, ma riuscimmo ugualmente a passare il turno. E fu una grande soddisfazione". Cosa rappresentava la Coppa Uefa in quegli anni? "Giocare in Europa era il massimo. Rappresentavi il tuo club e la tua nazione. La doppia sfida con l&rsquo;Olympiakos poi arriv&ograve; in un momento molto caldo della stagione. Dopo aver festeggiato la qualificazione, affrontammo al San Paolo la Roma, per il classico Derby del Sud. E davanti a 80.000 spettatori, vincemmo 3-0. Quella squadra era forte. Ma per me rappresenta un grande rimpianto". Perch&eacute;? "Perch&eacute; potevamo fare molto di pi&ugrave;. Chiudemmo il campionato al decimo posto, ma eravamo strutturati per fare meglio. In estate arrivammo io, Badiani, Improta, Speggiorin. Ricordo ancora la prima pagina del Guerin Sportivo che scrisse: 'Questo Napoli fa paura'. Purtroppo ci furono un sacco di problemi". Quali? "Lo spogliatoio non era unito. Me ne accorsi subito. Era la classica situazione transitoria tra la fine di un ciclo e l'inizio di un altro. Purtroppo non legammo quasi mai, nonostante il lavoro di un allenatore preparato e forte come Vinicio. Un tecnico al quale devo molto e che ha fatto benissimo". Lei lo ha avuto anche alla Lazio, giusto? "Non posso dire che sia stato l&rsquo;allenatore che mi ha lanciato in Serie A, perch&eacute; l&rsquo;esordio assoluto lo feci con Corsini, ma &egrave; stato quello che mi ha dato fiducia e mi ha fatto sentire importante. Non aveva paura a lanciare i giovani. Io avevo 19 anni, ma mi diede la possibilit&agrave; di crescere, facendomi sentire indispensabile. Non &egrave; da tutti dare a un giovane la responsabilit&agrave; di battere i rigori. Ma lui lo fece. Senza la sua esperienza, forse, quell&rsquo;anno, potevamo fare addirittura peggio. Ripeto, quella stagione rappresenta un grande rammarico, perch&eacute; c&rsquo;erano le basi per fare benissimo".         

Nell'intervista l'ex centrocampista rivive la doppia sfida di Coppa Uefa con l'Olympiakos culminata, il 4 ottobre di 43 anni fa, con la qualificazione grazie alla sua discussa rete: "In Grecia fu caccia all&rsquo;uomo per 90 minuti"

I ricordi europei di Andrea Agostinelli con la maglia del Napoli

Pu&ograve; una piccola squadra di semi professionisti, proveniente da una citt&agrave; senza grandi trascorsi in materia di successi calcistici, in una nazione che fino ad allora mai aveva visto un suo club trionfare nelle coppe europee, mettere in riga l&rsquo;Europa calcistica che conta ed aggiudicarsi la Coppa Uefa?  L&rsquo;edizione della competizione del 1981-82 risulta essere agli atti una delle pi&ugrave; sorprendenti, sia per il suo esito finale, ma anche per il modo in cui &egrave; maturato tale verdetto, nonch&eacute; una delle pi&ugrave; giuste e insindacabili che la storia del trofeo annoveri. Quando il 19 maggio 1982 l&rsquo;arbitro inglese George Courtney fischia la fine del match di ritorno al Volksparkstadion di Amburgo, i 57.312 spettatori, per la stragrande maggioranza tifosi del club anseatico, non possono far altro che applaudire, decisamente delusi ma soprattutto un po&rsquo; straniti questi biondi ragazzi con la divisa biancoblu, che hanno appena travolto con una facilit&agrave; quasi irrisoria la corazzata condotta da Ernst Happel. Ma facciamo un passo indietro.  Premesse  Quando le 64 squadre prendono il via ai nastri di partenza della competizione nel settembre del 1981, l&rsquo;Amburgo rientra nel lotto delle squadre favorite per la vittoria finale. La squadra anseatica &egrave; stata presa nelle sue redini di comando dal gi&agrave; leggendario allenatore austriaco Ernst Happel, che va a succedere a Branko Zebec, allontanato a met&agrave; della stagione precedente e non senza rimpianto per via di una condotta professionale al di sopra delle righe. L&rsquo;arrivo del tecnico viennese ed il suo alacre lavoro a fianco del corpo dirigenziale della squadra condotto da Gunter Netzer, ricompatta un ambiente che nella stagione precedente era rimasto fortemente destabilizzato dalle bizzarrie caratteriali del tecnico slavo, pagando tale stato ondivago con risultati altalenanti sia nel campionato nazionale che nelle coppe continentali. Dispersa nei meandri delle fasce minori del Ranking Uefa invece &egrave; l&rsquo;IFK Goteborg, che approccia la competizione senza alcuna aspettativa di vittoria finale. La squadra condotta da un giovanissimo Sven-Goran Eriksson, all&rsquo;epoca appena trentatreenne, non presenta nomi altisonanti (lo diventeranno dopo la conquista del trofeo, dando vita ad una diaspora calcistica di cui saranno beneficiari i club di mezza Europa, Italia compresa) e approccia la partecipazione al trofeo, pi&ugrave; come un modo per acquisire esperienza e incrementare le non sempre floride casse della societ&agrave;, costretta a barcamenarsi in una realt&agrave; calcistica, quella svedese, non proprio economicamente florida.    (Un giovane Sven-Goran Eriksson, qui gi&agrave; ai tempi della Roma (1986), dove approder&agrave; dopo le trionfali esperienze al Goteborg e al Benfica)  La Coppa Uefa di Goteborg e Amburgo  Le due squadre superano in maniera perentoria le insidie dei primi tre turni. L&rsquo;Amburgo esordisce contro gli olandesi dell&rsquo;Utrech perdendo in casa in maniera abbastanza sorprendente per 0&ndash;1, salvo poi dilagare nella terra dei mulini a vento per 6&ndash;3, in una partita che viene ricordata a posteriori per il fatto di aver visto un giovanissimo Marco Van Basten allontanarsi di nascosto dalla sede dell&rsquo;Ajax, suo club di appartenenza di allora, per andare a vedere il match. Sfortuna volle che allo stesso match fosse presente anche il tecnico dell&rsquo;Ajax Aad de Mos, per visionare da vicino gli olandesi futuri rivali in campionato, che pare ebbe modo di accorgersi della presenza del giovane attaccante allo stadio in veste di spettatore; l&rsquo;episodio non ebbe comunque conseguenze. L&rsquo;Amburgo procede la sua corsa estromettendo grazie alla strapotenza tecnica-fisica, ma non senza difficolt&agrave; (3&ndash;2 risultato complessivo) i francesi del Bordeaux, che gi&agrave; iniziavano ad impostare un centrocampo che sarebbe stato ricordato come uno dei pi&ugrave; eleganti e tecnici del decennio. Nel terzo turno Happel incrocia un altro grande (futuro) maestro di calcio, ovvero Alex Ferguson ed il suo Aberdeen, eliminandolo dalla competizione con un non semplice 5&ndash;4 complessivo. Ferguson, che dopo il rovescio in Coppa dei Campioni dell&rsquo;anno precedente contro i Reds di Bob Paisley, ha comunque modo di accumulare esperienza contro un altro santone della panchina. Dal canto suo il Goteborg elimina i finlandesi dell&rsquo;Haka (7&ndash;2 complessivo), gli austriaci dello Sturm Graz (5-4 complessivo) e la Dinamo Bucarest, squadra ostica contra la quale per la prima volta i ragazzi di Eriksson danno prova delle loro qualit&agrave; (4&ndash;1 complessivo finale).    (La rosa dell&#39;Amburgo, foto interna del &quot;match program&quot; del Goteborg distribuito allo Stadio Ullevi a ridosso della finale d&#39;andata - materiale gentilmente concesso dall&#39;Ing. Gianfilippo Riontino, che ci ha aperto il suo archivio)  I quarti di finale della Coppa Uefa 1981-82  I quarti di Finale presentano un tabellone &ldquo;spurio&rdquo;, con la presenza di una sola grande squadra, all&rsquo;epoca pi&ugrave; di blasone che di fatto, ovvero il Real Madrid, alla costante ricerca del nobile passato perduto. Real accompagnato dal conterraneo Valencia, vincitore all&rsquo;epoca di due Coppe delle Citt&agrave; di Fiera nei primi anni 60 e di una pi&ugrave; recente Coppa delle Coppe, seguita dalla Supercoppa nel 1980. Dundee United, Radnicki Nis, Neuchatel Xamax e Kaiserslautern completano il lotto delle partecipanti (oltre alle nostre due), tutte squadre dai trascorsi calcistici non certo nobili in ambito internazionale. Il turno di marzo permette agli anseatici di eliminare non senza fatica gli svizzeri del Neuchatel, mentre gli svedesi continuano il loro spensierato cammino imponendo un 4&ndash;2 senza recriminazioni al Valencia. Eliminazione che lascia la Spagna, club di prima fascia del ranking, senza partecipanti, data la disfatta storica patita dalle merengues in terra di Germania contro il Kaiserslautern (0&ndash;5).  Le semifinali della Coppa Uefa 1981-82  Il sorteggio delle semifinali evita lo scontro fratricida tedesco, mettendo di fronte gli anseatici ai sorprendenti slavi del Radnicki Nis, mentre i &ldquo;blavitt&rdquo; nordici sfidano il Kaiserslautern. La stampa di mezza Europa gi&agrave; assapora una finale tutta tedesca, sulla falsariga di quanto accaduto nella stagione 1979&ndash;80, quando le squadre teutoniche in semifinale erano addirittura state quattro. Ma mentre l&rsquo;Amburgo rispetta il pronostico ribaltando in casa il 2&ndash;1 patito in terra slava con un 5&ndash;1 senza recriminazioni, i biancazzurri di Goteborg dapprima impongono allo storico club di Fritz Walter il pari in Germania (1&ndash;1), salvo poi trascinare i tedeschi ai supplementari nella partita di ritorno risolta da Fredriksson al minuto 102. Un vero finale da film alla John Carpenter, esattamente come il nome dell&rsquo;arbitro irlandese della contesa.    (Le prime pagine del mitico &quot;Kicker Sportmagazin&quot; all&#39;indomani delle due finali - dall&#39;archivio di Gianfilippo Riontino)  Goteborg-Amburgo, la doppia finale della Coppa Uefa 1981-82  Quando le squadre il 5 maggio 1982 si presentano all&rsquo;Ullevi Stadium di Goteborg per giocare la partita d&rsquo;andata, su un campo reso fangoso e pesante dalla pioggia, tutti i pronostici sono appannaggio dei tedeschi. Gli anseatici vengono da un turno di campionato dove hanno polverizzato i compagni di semifinale di coppa (il Kaiserslautern) per 4&ndash;0 portando a +2 i punti di vantaggio sui diretti rivali del Colonia. Quando scendono in campo ben 9 sono i giocatori che solo l&rsquo;anno successivo faranno parte della formazione titolare che vincer&agrave; la Coppa dei Campioni ad Atene contro i Bianconeri della Juventus, e con in pi&ugrave; un Beckenbauer presente tra le seconde linee.&nbsp;Il campo pesantissimo impedisce qualsiasi manovra ragionata ai tedeschi, i quali, visto l&rsquo;andazzo, con il passare dei minuti decidono di &ldquo;accontentarsi&rdquo; e non provano a vincere la partita. La scarsa considerazione delle capacit&agrave; finalizzatrici dei non nobili, seppur volonterosi svedesi, viene ampiamente sottovalutata e la sorte presenta il conto a tre minuti dalla fine, quando Holmgren batte Stein rompendo gli equilibri. Nessuno al termine di quella partita pensa minimamente che questo gol possa rappresentare un problema. Non Happel che continua a schierare le forze migliori in campionato per vincere la Bundesliga, imponendo ai suoi di giocare partite fisicamente molto intense; non la stampa, tra cui il nobile e prestigioso Kicker Sportmagazin, che prevede una rimonta &ldquo;forte&rdquo; e senza problemi; non il Kaiser Beckenbauer, ansioso di completare il suo brillante palmares con l&rsquo;unico trofeo europeo ancora assente dal suo personale albo d&rsquo;oro.    (A sx la copertina del &quot;match program&quot; di Amburgo-Aberdeen, in cui si riconosce Beckenbauer; a dx la copertina del &quot;match program&quot; della finale d&#39;andata - dall&#39;archivio di Gianfilippo Riontino)  E torniamo da dove siamo partiti. Quando il 19 maggio del 1982 le squadre si presentano sul terreno di gioco per giocare la finale di ritorno, solamente un manipolo di uomini in tutta Europa &egrave; convinta che a portare a casa il trofeo possa essere la squadra svedese; e questo manipolo di uomini &egrave; quello che sta per scendere in campo con la maglia biancoazzurra. L&rsquo;Amburgo proviene da un impressionante 5&ndash;0 rifilato al neopromosso e neo ritrovato Werder Brema in campionato, risultato che di fatto avvicina sempre di pi&ugrave; gli uomini di Happel al piatto d&rsquo;argento dei vincitori della Bundesliga, e vuole concludere la stagione in bellezza, da dominatore. Tale approccio, piuttosto egoico e autocelebrativo porta gli anseatici a giocare una partita di attacco fin dal primo minuto, su un terreno di gioco perfetto, al quale gli svedesi non sono abituati e che sembra mettere loro le ali ai piedi. Ali che si materializzano al 25&deg; minuto, quando un rapido rovesciamento di fronte porta Cornelliusson a battere Stein, non immune da colpe per una &ldquo;non&rdquo; uscita su una palla crossata a centro area e facilmente neutralizzabile. Questo gol sveglia l&rsquo;Amburgo che capisce, probabilmente troppo tardi, come gli svedesi non siamo in finale a fare atto di presenza. La squadra rientra nell&rsquo;intervallo fortemente determinata a ribaltare il risultato (ora servono tre reti per vincere il trofeo) e si getta sconsideratamente in attacco, circostanza questa che mette gli svedesi nella condizione di giocare la partita preferita, ovvero una gara attendista. La disputa si chiude a met&agrave; ripresa, quando in tre minuti Nilsson e Fredriksson su rigore chiudono i conti con due azioni nate da ribaltamenti di fronte.    (Il tabellino della finale di ritorno fornito da soccerdata.com)  Al fischio finale del match &ndash; mentre i nordici festeggiano la conquista di un trofeo che sembra quasi essere enorme nelle loro mani &ndash; gli occhi bassi del Kaiser, lo sguardo di pietra di Happel e la rabbia impotente del grande Kaltz restano l&rsquo;eredit&agrave; dolorosa di una partecipazione che aveva fatto tutto per meritare la conquista del trofeo (a oggi rimane ancora l&rsquo;unica competizione di lunga durata della Uefa a mancare nel palmares dell&rsquo;Amburgo), ma che a seguito di una serie di errori di valutazione ha lasciato che una coppa dal destino apparentemente segnato, prendesse la strada della Svezia.  La storia dimostrer&agrave; che la vittoria dei &ldquo;blavitt&rdquo; non fu casuale. Negli anni successivi gli svedesi si confermeranno realt&agrave; calcistica di primo piano, sfiorando la finale del massimo trofeo continentale nel 1986, eliminati dal Barcellona in terra di Spagna solamente ai calci di rigore. Mentre nel 1987 replicheranno la vittoria nel terzo trofeo continentale, anche in quella circostanza senza recriminazione alcuna. Dal canto suo l&rsquo;Amburgo far&agrave; tesoro di questa sconfitta gi&agrave; l&rsquo;anno successivo, quando posto di fronte ad una delle squadre pi&ugrave; belle ed attrezzate che il calcio moderno ricordi (la Juventus di Trapattoni), in quel di Atene giocher&agrave; una partita suntuosa e tatticamente intelligentissima, portando a casa il massimo trofeo continentale.  *Fonti utilizzate per la stesura dell&#39;approfondimento dall&#39;archivio dell&#39;Ing. Gianfilippo Riontino: match program del Goteborg; match program dell&#39;Amburgo; Guerin Sportivo; Tuttosport; Stadio; La Gazzetta dello Sport; Kicker; Voetbal International e Soccerdata. L&#39;immagine di copertina &egrave; presente nel match program del Goteborg della finale d&#39;andata. 

Gli svedesi, guidati in panchina da un giovanissimo Sven-Goran Eriksson, sconfissero in finale l&#39;Amburgo strafavorito. Ripercorriamo quell&#39;impresa attraverso i documenti d&#39;archivio storico forniti dall&#39;Ing. Gianfilippo Riontino

Coppa Uefa 1981-82: la favola del piccolo Goteborg che ribalt&ograve; la storia

Dalla creazione della competizione alla vittoria del Tottenham in finale col Wolverhampton, attraverso documenti forniti dall&#39;Ing. Gianfilippo Riontino, che ci ha aperto le porte del suo archivio di sport, uno dei pi&ugrave; grandi al mondo

Coppa Uefa: le storie e le immagini inedite della prima edizione (1971-72)

        C&rsquo;&egrave; stato un tempo in cui la sponda granata di Torino era abituata alle grandi imprese, al grande calcio e ai grandi campioni. Era il tempo andato del Grande Torino, quello di Bacigalupo, Rigamonti, di Gabetto e Mazzola, finito tragicamente in quel maledetto pomeriggio nebbioso di pi&ugrave; di settant&rsquo;anni fa. Eppure c&rsquo;&egrave; stato un momento nel passato pi&ugrave; recente in cui il colore granata &egrave; tornato prepotentemente a risplendere, a guadagnarsi la gloria imperitura della vittoria, attraverso un trionfo europeo che ha permesso ai ragazzi di Mondonico di entrare per sempre, e a buon diritto, nell&rsquo;Olimpo degli eroi del Torino. Stiamo parlando ovviamente della semifinale di ritorno della Coppa Uefa contro il Real Madrid, disputatasi il 15 aprile del 1992.&nbsp; Mondonico contro i Blancos Esattamente due settimane prima i ragazzi in maglia granata escono sconfitti per 2 a 1 dal Santiago Bernab&eacute;u, dopo una partita in cui avrebbero meritato sicuramente maggior fortuna. Per il ritorno lo Stadio Delle Alpi di Torino si veste a festa, esaurito in ogni ordine di posto dai tifosi granata, che ne fanno una vera e propria bolgia dantesca con sciarpe, bandiere e fumogeni. I Blancos arrivano nel capoluogo piemontese forti del risultato d&rsquo;andata, di campioni del calibro di Hierro, Butragueno e Hagi, il Maradona dei Carpazi. Inutile sottolineare come il blasone della squadra spagnola possa incutere timore in qualsiasi avversario, figuriamoci ad una squadra non pi&ugrave; abituata da anni al lustro dei palcoscenici europei. &nbsp;  Il trionfo del Toro contro il Real Madrid Il Toro per&ograve; scende in campo senza paura e si riversa da subito nella met&agrave; campo avversaria, sospinto in maniera decisiva dai 60.000 del Delle Alpi. Dopo appena 7&rsquo; minuti riesce ad andare in vantaggio, grazie alla sfortunata deviazione di Rocha, che intercetta una palla in area e la fa finire in fondo alla propria rete. Lo stadio esplode, e i ragazzi di Mondonico iniziano a crederci sul serio: per tutta la prima frazione i temibili Blancos non si fanno vedere dalle parti di Cravero e Marchegiani, cercando anzi di contenere le scorribande offensive dei granata. A poco meno di 15 minuti dal termine arriva il colpo del raddoppio: Lentini galoppa sulla sinistra, salta l&rsquo;uomo e mette al centro una palla perfetta dove si precipita Fusi che di destro insacca alle spalle di Paco Buyo. &Egrave; estasi granata, il pubblico del Delle Alpi non crede a quello che sta vedendo. Il Real Madrid fatica a rispondere, l&rsquo;estro dei suoi campioni viene imbrigliato dalla ragnatela di Mondonico, che porta cos&igrave; a casa la vittoria. Il Toro va in finale, la squadra, i tifosi e una citt&agrave; intera si abbandonano ai festeggiamenti. Torino-Real Madrid 2-0 del 15 aprile 1992: il tabellino   TORINO: Marchegiani, Bruno, Mussi (43'&nbsp;st Sordo), Fusi, Annoni, Cravero, Scifo, Lentini, Casagrande (32'&nbsp;st Benedetti), Martin Vazquez, Venturin. A DISP.: Di Fusco, Cois, Vieri. ALL.: Mondonico. REAL MADRID: Buyo, Chendo, Lasa (22'&nbsp;st Luis Enrique), Rocha, Maqueda, Milla, Butragueno, Michel, Hierro, Hagi, Llorente. A DISP.: Tendillo, Jaro, Villaroja, Gordillo. ALL: Beenhakker. ARBITRO: Galler (Svizzera). MARCATORI: 7&rsquo; aut. Rocha, 31&rsquo;st&nbsp;Fusi.&nbsp;         

I granata superarono i Blancos in una partita che rimarr&agrave; per sempre nella memoria collettiva dei tifosi torinisti e non solo

15 aprile 1992, quando il Torino di Mondonico sconfisse il Real Madrid

        Sin dall&rsquo;antichit&agrave; l&rsquo;uomo &egrave; sempre stato affascinato da quelle storie di rivalsa in cui alla fine il piccolo vince contro il grande, il debole contro il potente, lo svantaggiato contro il favorito. Un lungo filone mitologico ha affrontato il tema, culminando nel racconto biblico di Davide contro Golia, episodio entrato nel corso dei secoli nel sentito comune del mondo occidentale. Di Davide contro Golia nella storia dello sport ce ne sono stati a centinaia, forse a migliaia. Noi oggi racconteremo di quando l&rsquo;audace Genoa di Osvaldo Bagnoli scelse con cura dal fiume i suoi 5 sassi ben levigati, si arm&ograve; di fionda e si present&ograve; senza timore di fronte al gigantesco Liverpool, scintillante nella sua armatura di bronzo.  La gara di andata a Genoa &Egrave; il 4 marzo del 1992 quando al Luigi Ferraris in Marassi si disputa la gara di andata dei quarti di finale di Coppa Uefa. Dall&rsquo;Inghilterra arrivano i ragazzi di Souness, proprio come quei giovani che quasi cento anni prima sbarcarono a Genova e cominciarono a far vedere a tutti come si giocava a &ldquo;football&rdquo;. Il Liverpool si presenta tronfio e spavaldo come il campione dei Filistei, forte di Saunders, Marsh oltre che a un giovanissimo Steve McManaman, mentre dall&rsquo;altro lato un Genoa lucido e concentrato si appresta a far partire il colpo mortale. Durante tutto il match i rossobl&ugrave; tengono le redini del gioco, Skuhravy e Aguilera imperversano tra le maglie dei Reds, costringendo gli inglesi nella loro met&agrave; campo. La serata viene illuminata dal grandissimo mancino al volo di Fiorin e dall&rsquo;incredibile calcio di punizione di Branco che fanno 2-0. Il gigante &egrave; a terra.  Gli eroi di Anfield Road Due settimane pi&ugrave; tardi, il 18 marzo, Osvaldo Bagnoli e i suoi devono giocarsi il ritorno ad Anfield Road. L&rsquo;avversario &egrave; stordito a terra dopo l&rsquo;andata, ma il timore reverenziale di un palcoscenico come quello di Liverpool susciterebbe grande "paura" nei confronti di chiunque. Nessuna squadra italiana &egrave; mai riuscita ad espugnare il fortino dei Reds, e a dirla tutto anche gli altri non se la cavano bene: nella loro storia gli inglesi hanno perso in Europa tra le mura amiche solamente 4 volte, l&rsquo;ultima quasi vent&rsquo;anni prima. I ragazzi di Bagnoli rimangono lucidi, ben consci delle loro qualit&agrave; e forti del risultato maturato a Genova e giocano senza timore, cercando di arginare l&rsquo;iniziale assalto dei Reds. Forse nel momento migliore dei padroni di casa, i rossobl&ugrave; passano in vantaggio, mettendo la parola fine sulla questione qualificazione: Ruotolo da destra pesca Aguilera sul secondo palo che non deve far altro che mettere gi&ugrave; e insaccare alle spalle di Hooper con un ottimo destro di controbalzo. Gli inglesi accusano il colpo ma non mollano: Barnes e Rush su tutti insistono nella spinta offensiva e proprio l&rsquo;attaccante gallese agguanta il pareggio all'inizio della ripresa. Anfield Road, nonostante il risultato continui ad essere proibitivo alla luce del doppio confronto, diventa una vera e propria bolgia dantesca. Il secondo tempo si gioca praticamente ad una porta sola, con Braglia che si esalta su ogni conclusione provata dagli inglesi: l&rsquo;estremo difensore rossobl&ugrave; sembra davvero insuperabile. A venti dal termine, in uno dei rari momenti di tregua dell&rsquo;assedio dei padroni di casa, arriva lo storico gol della vittoria genoana: la difesa dei Reds si fa cogliere impreparata su un&rsquo;uscita ed Eranio, lanciato a gran velocit&agrave; verso la porta, serve Aguilera che la mette dentro, firmando la doppietta personale. Il Genoa passa il turno e diventa la prima squadra italiana ad espugnare Anfield Road. Davide ha inflitto il colpo di grazia al gigante morente e ne esibisce trionfante la testa. La storia si &egrave; ripetuta una volta di pi&ugrave;.        

I rossobl&ugrave; allenati da Osvaldo Bagnoli diventarono la prima squadra italiana a vincere in casa del Liverpool. Mattatore della serata Pato Aguilera con una doppietta

18 marzo 1992, quando il Genoa espugnò Anfield Road

        Una Coppa Uefa, quella della stagione 1990-91, che parla italiano. A dire il vero come parecchie delle competizioni europee dell&rsquo;epoca, quando il calcio nostrano domina il palcoscenico internazionale. Quattro sono le italiane ai nastri di partenza della competizione, le stesse che riescono poi ad approdare fino ai quarti di finale: Atalanta, Bologna, Inter e Roma. Alla fine, come nella stagione precedente, l&rsquo;ultimo atto vedr&agrave; ancora due italiane a contendersi il trofeo. La prima volta dell&rsquo;Atalanta contro una tedesca L&rsquo;Atalanta &ndash; alla seconda partecipazione (consecutiva) alla Uefa &ndash; negli ottavi di finale affronta per la prima volta nella sua storia una formazione tedesca: il Colonia, semifinalista della passata stagione. All&rsquo;indomani della gara d&rsquo;andata &ndash; &nbsp;giocata al M&uuml;ngersdorfer Stadion il 28 novembre &ndash; sulla prima pagina del Corriere dello Sport-Stadio si legge: &ldquo;Roma e Inter come panzer, e l&rsquo;Atalanta resiste a Colonia&rdquo;. I ragazzi di Frosio pareggiano in terra tedesca 1-1, con Roberto Bordin a rispondere al vantaggio dei padroni di casa arrivato soli quattro minuti prima grazie all&rsquo;autorete di Progna. Un colpo di testa sul preciso assist di Carlo Perrone, degno del miglior &ldquo;Elicottero&rdquo;, come lo chiamavano ai tempi di Cesena, proprio per via delle sue doti aeree, nonostante il metro e 72 di altezza. Il centrocampista nerazzurro, dopo aver lanciato commosso la maglia nel settore gremito da 2mila, coraggiosi, supporters atalantini giunti nel freddo tedesco, commenta cos&igrave;: &ldquo;&Egrave; il mio primo gol in Europa, lo dedico alla squadra e a questa gente venuta sino a Colonia per non lasciarci soli. Non so dire quanto sia felice, ho il cuore che mi scoppia. Il cross di Perrone &egrave; stato millimetrico: quando ho visto arrivare il pallone ho guardato Illgner mirando nell&rsquo;angolino alla sua sinistra&rdquo;. La Dea torna in Italia con un risultato che fa sperare nella qualificazione, raggiunto anche grazie alla straordinaria prestazione di Str&ouml;mberg, dominatore assoluto del campo, premiato con un bell&rsquo;8 in pagella. Colonia al tappeto e Atalanta ai quarti Due settimane pi&ugrave; tardi al Comunale, i nerazzurri (per l&rsquo;occasione in maglia bianca) portano a casa la qualificazione. Nel giorno in cui il calcio italiano saluta un ex grande portiere come Giorgio Ghezzi, scomparso all&rsquo;et&agrave; di 60 anni, le nostre squadre fanno man bassa in Europa: al successo per 1-0 della Dea si aggiunge il facile passaggio del turno della Roma col Bordeaux (aggregato di 7-0); l&rsquo;avanzamento dell&rsquo;Inter, a cui basta l&rsquo;1-1 a Belgrado dopo il 3-0 dell&rsquo;andata sul Partizan; e il miracolo del Bologna, capace di ribaltare il 3-0 subito nel primo match dall&rsquo;Admira Wacker. La Dea conquista i quarti grazie alla rete segnata da Eligio Nicolini al 16&rsquo;, bravo a insaccare il preciso assist di Caniggia, funambolico attaccante argentino tra i migliori in campo. Nel primo tempo &egrave; una bella Atalanta, mentre nella ripresa c&rsquo;&egrave; da soffrire tanto, con il portiere Ferron chiamato pi&ugrave; volte in causa per blindare il punteggio. Dopo aver raggiunto le semifinali della Coppa Coppe nel 1988, i nerazzurri approdano cos&igrave; per la prima volta anche ai quarti di finale di Coppa Uefa, dove sfideranno e perderanno contro i futuri campioni dell&rsquo;Inter, che batteranno poi la Roma nella doppia finale di maggio. Per Antonio Percassi &ndash; presidente della Dea da poco pi&ugrave; di un mese &ndash; resta comunque un risultato storico: dovr&agrave; aspettare fino ai giorni nostri per rivedere la sua squadra protagonista a quei livelli europei. &nbsp;       

Nella Coppa Uefa 1990-91, la Dea del neo presidente Percassi approdava ai quarti di finale eliminando il Colonia semifinalista dell&rsquo;edizione precedente

Atalanta, il primo precedente contro una tedesca è datato 1990

        Lo scontro tra Paris Saint Germain e Real Madrid fa parte dell&rsquo;epoca moderna della storia del calcio. Questo senza dubbio per via della tradizione europea dei transalpini, fino agli anni &lsquo;80/&rsquo;90 non abituati a partecipare alle competizioni internazionali. Il primo storico precedente &egrave; datato 1993, quando le due societ&agrave; si affrontarono nei quarti di finale dell&rsquo;allora Coppa Uefa. Un torneo &ndash; quello 1992-93 che porter&agrave; a casa la Juve del Trap &ndash; di livello assoluto, basti pensare agli accoppiamenti presenti nei quarti: Roma-Borussia Dortmund, Auxerre-Ajax, Benfica-Juventus e, appunto, Real-Psg. Real-Psg: la gara d&rsquo;andata al Bernabeu Il primo atto della doppia sfida si gioca al Santiago Bernabeu il 2 marzo 1993 davanti a 70mila spettatori. S&rsquo;incontrano due squadre dal grande potenziale offensivo: i padroni di casa possono contare sul tandem formato da Butragueno e Zamorano, gli ospiti sulla coppia d&rsquo;attacco Weah-Ginola. I Blancos partono con i favori del pronostico per il passaggio del turno e nella partita d&rsquo;andata confermano i presagi. Al 31esimo &egrave; proprio capitan Butragueno a stappare la contesa, mettendo in rete di testa il corner di Michel. Passano solo tre minuti e ancora El Buitre lavora bene la sfera in area e offre a Zamorano l&rsquo;assist per il 2-0. Un doppio colpo al quale il Psg replica a inizio ripresa, ancora su azione d&rsquo;angolo, con la rete di Ginola. Il punteggio si arrotonda nel finale in favore dei padroni di casa, che al 90esimo beneficiano di un calcio di rigore. Il penalty di Michel &egrave; respinto da Lama, ma sulla ribattuta il centrocampista riesce goffamente a ribadire in rete per il 3-1 definitivo. La remuntada del Psg nella gara di ritorno Ribaltare un 3-1 al Real Madrid non &egrave; cosa semplice, a Parigi lo sanno tutti, ma il Parco dei Principi che accoglie la sfida la sera del 18 marzo 1993 &egrave; uno stadio che ci crede. Sugli spalti &egrave; tutto esaurito con 46mila parigini a sostenere la squadra e un telone enorme srotolato dalla curva che recita: &ldquo;Vaincre pour nous&rdquo; (Vincere per noi). Il primo boato al 33esimo, quando George Weah mette dentro il corner di Valdo. Poi la partita si blocca, con i francesi ad attaccare e gli spagnoli a difendere il minimo svantaggio che li porterebbe in semifinale. A 10 minuti dal termine Ginola fa letteralmente esplodere il Parco dei Principi. L&rsquo;azione parte dal numero 10 Valdo: l&rsquo;ex Benfica cede a Weah che dal limite dell&rsquo;area, con una giocata di fino, alza la sfera verso Daniel Bravo, il quale appoggia di testa all&rsquo;indietro. A questo punto David Ginola fa partire un missile di controbalzo che buca la rete difesa da Paco Buyo. Un gol semplicemente fantastico. Ma non &egrave; finita. Il Real si fionda all&rsquo;attacco, lasciando ampi spazi alle ripartenze dei parigini. Ginola parte centralmente e serve Valdo sulla sinistra, il brasiliano controlla la sfera, si accentra e segna ancora: il pubblico &egrave; in visibilio. 3-0 a tre minuti dal termine. Adesso solo una rete riporterebbe in partita le Merengues. E questa rete arriva sugli sviluppi di una punizione battuta alla disperata in area al 91esimo. La zampata di Zamorano vale la parit&agrave; assoluta nel doppio confronto: i supplementari sembrano ormai cosa fatta. Ci sono, per&ograve;, ancora un paio di minuti da giocare. La squadra di casa non si disunisce e si riversa dall&rsquo;altra parte, guadagnando una punizione in zona offensiva. Battuta di Valdo e zuccata vincente di Kombouar&eacute;. 4-1: questa volta per il Real &egrave; veramente finita. Per il Psg, invece, una qualificazione storica per la semifinale da giocare contro la Juventus futura vincitrice. A prescindere da come andr&agrave;, quella rimonta del Psg sul Real resta ancora oggi uno dei doppi confronti pi&ugrave; spettacolari andati in scena nel panorama calcistico internazionale.&nbsp;       

Fu un doppio confronto memorabile: dopo la vittoria dei Blancos nella gara d&rsquo;andata al Bernabeu, una straordinaria rimonta dei parigini al Parco dei Principi regal&ograve; la semifinale ai francesi

Psg-Real: il primo storico precedente nella Coppa Uefa 1992-93

        &ldquo;Riesci a sentire i tamburi Fernando?&rdquo;. Nel lontano maggio 1976, gli Abba dominavano le classifiche dei singoli pi&ugrave; venduti nel Regno Unito, quando i tamburi del Liverpool di Bob Paisley fecero risuonare in tutto il continente il loro suono incessante che annunciava: siamo una dinastia creata per durare. &nbsp; Paisley, erede di Shankly  Il campionato vinto sul filo di lana contro il QPR, emulo del calcio totale olandese, e il trionfo in Coppa Uefa nella doppia finale contro il Bruges, furono i primi successi del Liverpool di Bob Paisley, che due anni prima aveva raccolto la pesante eredit&agrave; di Bill Shankly. Il leggendario tecnico scozzese aveva guidato i Reds per 15 anni, mettendo in bacheca tre titoli di First Division, due Coppe di Inghilterra, tre Charity Shield e conquistando la Coppa Uefa nel 1973. Nel 1974, Shankly lasci&ograve; a sorpresa e il peso della responsabilit&agrave; fu posto sulle spalle di Paisley, che con Shankly aveva condiviso i trionfi. &nbsp; La coppia Keegan-Toshack  Il primo anno fu avaro di vittorie e anche l&rsquo;inizio della stagione 1975-76 fu duro. Il Liverpool perse a met&agrave; agosto 2-0 in casa proprio contro il Queens Park Rangers, vincendo solo tre delle prime sette gare di campionato. Anche in Coppa Uefa era iniziata male, con una sconfitta sul campo dell&rsquo;Hibernian, ribaltata per&ograve; nel ritorno ad Anfield.&nbsp;Per il Liverpool fu una stagione in cui la rincorsa alla testa della classifica inglese si alternava con i successi europei. I tamburi suonavano incessanti, i ragazzi diPaisley non mollavano, guidati dalla coppia gol composta dallo scattante e rapido Keegan e il roccioso centravanti gallese Toshack. &nbsp; La grande sfida in Coppa Uefa  Arrivati alle semifinali, il sorteggio mise di fronte al Liverpool il Barcellona, Keegan contro Cruijff, duello tra le stelle che meglio di altri hanno rappresentato gli anni Settanta. Gli inglesi vinsero a sorpresa al Comp Nou: di fronte a 80mila spettatori i tamburi inglesi non smisero di suonare. Bast&ograve; l&rsquo;1-1 casalingo per eliminare Cruijff e compagni. &nbsp; La finale  Nel capitolo finale della competizione, di fronte ci sono i belgi del Bruges, che avevano eliminato la Roma di Liedholm, il Milan e l&rsquo;Amburgo. La finale &egrave; in due partite di andata e ritorno, come da tradizione per la Coppa Uefa. Ad Anfiled, il 28 aprile 1976, Happel sorprese Paisley e attacc&ograve; dal primo minuto, andando subito in vantaggio per 2-0 dopo un quarto d&rsquo;ora, ma pazientemente i Reds costruirono la rimonta. Nel secondo tempo attaccarono sotto la Kop e ribaltarono la partita. I tamburi hanno ricominciato a suonare. Finisce 3-2 e nel ritorno, il 19 maggio, basta un 1-1 per alzare la Coppa Uefa. Intanto in campionato, con la vittoria del 4 maggio sul campo del Wolverhampton, Paisley &amp; Co. superarono sul filo di lana il QPR e si aggiudicarono il titolo inglese.&nbsp;Sar&agrave; l&rsquo;inizio di uno dei cicli pi&ugrave; vincenti della storia del calcio. Il Liverpool conquister&agrave;, tra gli altri, 6 campionati inglesi e tre Coppe dei Campioni, una dinastia che dur&ograve;, con altri interpreti, fino alla fine degli anni Ottanta. &nbsp; &nbsp;       

Fu una stagione magica per i Reds: trionfarono in Coppa Uefa e vinsero sul filo di lana il campionato nel segno dell&rsquo;allenatore e del suo numero 7

Liverpool 1976: tra Paisley e Keegan ecco come è nato un ciclo vincente

Torino, Roma, Fiorentina, Inter e Napoli, in ordine di difficolt&agrave; dopo le partite di andata dei sedicesimi di finale di Europa League. Tutte agli ottavi. Un gioved&igrave; da leoni e il calcio italiano &egrave; subito mediaticamente tornato ai fasti di pochi anni fa, quando a volte agli ottavi della allora Coppa UEFA arrivavano tutte le partecipanti italiane. Solo che al massimo queste partecipanti erano quattro, quindi il record &egrave; stato battuto proprio in uno dei momenti ritenuti pi&ugrave; bassi nella storia della serie A. Dopo il sorteggio di Nyon per gli ottavi (Everton-Dinamo Kiev, Dnipro-Ajax, Zenit-Torino, Wolfsburg-Inter, Villarreal-Siviglia, Napoli-Dinamo Mosca, Bruges-Besiktas e Fiorentina-Roma), si pu&ograve; insomma sognare: delle non italiane rimaste in pista solo lo Zenit e il Wolfsburg potrebbero arrivare nelle prime 3 della serie A, mentre altre squadre (Everton e Dinamo Kiev su tutte) possono senz'altro battere le nostre, dove 'nostre' va messo fra virgolette perch&eacute; in Europa il meccanismo del tifo contro &egrave; ancora pi&ugrave; naturale che in patria, ma certo non fare paura.  Tutto questo non deve far dimenticare un piccolo dettaglio: la Champions League &egrave; la serie A dell'Europa (per non dire del mondo) e l'Europa League la serie B, bisogna davvero impegnarsi per dare alla pur grandissima stagione del Carpi lo stesso valore assoluto di uno scudetto della Juventus. Insomma, stiamo facendo bene in serie B, cosa tutt'altro che scontata e facile, ma fra quelli veri ci sono negli ottavi 4 tedeschi, 3 inglesi, 3 spagnoli, 2 francesi e una sola squadra italiana. &Egrave; in ogni caso interessante analizzare questo cambio di passo, visto che nella medesima Europa League l'anno scorso agli ottavi c'erano tre italiane (Napoli, Juventus e Fiorentina), due anni fa due (Inter e Lazio), tre anni fa una (Udinese), quattro anni fa zero e nella prima edizione della manifestazione, nata sulle ceneri della Coppa UEFA, una (Juventus).  &Egrave; evidente che i fenomeni da grande club non arrivano pi&ugrave; in Italia, per mille motivi che ormai &egrave; noioso elencare, ma che la classe media pur non essendo migliorata in assoluto ha cominciato a considerare importante questa manifestazione. Motivi finanziari, perch&eacute; al di l&agrave; dei diritti televisivi qualche incasso in pi&ugrave; non fa male, ma anche la possibilit&agrave; di tenere acceso un sogno, che nelle scorse stagioni non c'era: da quest'anno infatti la vincitrice di Europa League va direttamente al playoff di Champions, che in pratica significa andare direttamente nei gironi perch&eacute; il posto spettante di diritto alla vincitrice della Champions di solito &egrave; di una squadra che nel suo campionato nazionale ha ottenuto un piazzamento utile per i gironi. La serie A non &egrave; mai morta, come secondo torneo nazionale pi&ugrave; visto del mondo se la gioca con Liga che non &egrave; solo Real-Barcellona e la Bundesliga che non &egrave; solo Bayern, ma di sicuro non &egrave; migliorata rispetto agli anni scorsi. &Egrave; solo che alcune sue squadre hanno iniziato a prendere l'Europa League sul serio.  Twitter @StefanoOlivari 

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