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Lance Armstrong e l’inutilità dell’antidoping

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La cancellazione quasi totale della carriera di Lance Armstrong, operata dall'Unione Ciclistica Internazionale, è una tragedia per chiunque anche solo come spettatore abbia dedicato ore, giorni, mesi, anni al ciclismo. Ma è anche una attestazione della sua superiorità etica rispetto a molti altri sport, che mai si sognerebbero di cancellare i loro uomini o le loro squadre simbolo. Bisogna ricordare che tutto è partito da un'indagine dell'Usada, l'agenzia antidoping statunitense, che ha avuto i coraggio e l'onestà di colpire un personaggio che negli Stati Uniti è un simbolo di speranza che va cento volte al di là dei suoi successi sportivi. Armstrong è infatti nel corso degli anni diventato il più famoso testmonial della lotta contro il cancro, raccogliendo quasi mezzo miliardo (!!!) di dollari per la ricerca. La sua storia, di campione quasi morto per un tumore ai testicoli e poi risorto fino a superare il record dei cinque Tour de France vinti (Anquetil, Merckx, Hinault, Indurain: tutti puliti?), è stata e rimane qualcosa di importante per chiunque pensi che non valga più la pena di lottare. Ma il ciclismo è anche uno sport, oltre che una meravigliosa storia popolare. E come sport non è più credibile da decenni. Paradossalmente il problema non è il doping, che c'è sempre stato fin dai tempi di Girardengo, ma l'antidoping. Che ha creato una casta di impuniti, della quale fino a ieri ha fatto parte Armstrong, seguiti da medici e strutture di primo livello (i test antidoping negativi a cui Armstrong è stato sottopsoto si contano a centinaia), incastrabili solo in base a testimonianze. Con l'effetto di rendere provvisorio e passibile di ristrutturazione qualsiasi ordine d'arrivo: perché dovremmo appassionarci ad una corsa che quasi certamente sarà decisa fra sei mesi dallo stato di conservazione di una provetta? Più impressione dei 7 Tour (quelli dal 1999 al 2005) levati ad Armstrong fa la decisione degli organizzatori della Grande Boucle di non assegnarli ai secondi classificati: Zulle, Beloki, Kloden, Basso e soprattutto Ullrich. Come dire: sappiamo che è tutto marcio (quasi tutti i corridori citati hanno nel loro curriculum squalifiche, fra 'altro), evitiamo altre figure. E quindi? La lezione che si trae da tutta questa storia è che l'antidoping nel ciclismo (che esiste dalla metà degli anni Sessanta, prima si poteva fare di tutto e nonostante questo molti professionisti sono morti a novant'anni) non ha sconfitto il doping: né fra i professionisti, dove anzi la furbizia è aumentata, né tantomento fra gli amatori o fra i giovani dove oltretutto i medici di riferimento sono spesso di serie C. Si ritorna a una frase che gli addetti ai lavori dicono da anni a bassa voce, mentre i media linciano il mostro di turno e santificano gente la cui dote maggiore è stata quella di non farsi beccare: o si abolisce l'antidoping o si abolisce il ciclismo. Twitter @StefanoOlivari