Valerio Bertotto, gli anni di gloria all’Udinese e quel Mondiale sfiorato

Valerio Bertotto, gli anni di gloria all’Udinese e quel Mondiale sfiorato

In occasione dei suoi 50 anni abbiamo intervistato l’ex difensore e capitano dei friulani, che ci ha raccontato la sua carriera tra traguardi prestigiosi e grandi sogni sfumati 

Alessio Abbruzzese/Edipress

15.01.2023 ( Aggiornata il 15.01.2023 12:53 )

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Torinese di nascita, Valerio Bertotto ha passato una vita calcistica all’Udinese, dove ha scritto tra l’altro le pagine più belle della storia del club. Lo abbiamo raggiunto per ripercorrere insieme il lungo viaggio dei suoi primi 50 anni.

Come è iniziata la tua avventura nel mondo del calcio?

“A dirla tutta si è trattato di un caso abbastanza fortuito, ricordo che da bambino una volta mio padre mi portò al campo del Barcanova, quella che sarebbe stata la mia prima squadra, per vedere la Coppa Primavera, un torneo importantissimo dove confluivano formazioni giovanili di grandi società sia italiane che estere. Io, forse ancora troppo piccolo, gli dissi di andar via perché mi stavo annoiando. Per fortuna di lì a poco ho rivisto le mie idee sul calcio, che ha iniziato a piacermi (ride ndi), da lì in poi ho coltivato questa passione senza neanche un secondo di tregua, cosa che, fortunatamente, faccio ancora oggi. Ho iniziato al Barcanova, come dicevo prima, fino ai giovanissimi regionali, poi credo anche grazie alle mie capacità sono passato all’Alessandria, la mia prima esperienza in un club di professionisti, dove ho giocato per due anni nella Berretti prima di entrare stabilmente in prima squadra. Con l’Alessandria ho esordito in C1, e anche se ero giovanissimo, ho giocato da titolare per quasi tutta la stagione. Poi da qui ho fatto l’enorme salto fino alla Serie A, un accadimento abbastanza unico: anche all’epoca era piuttosto raro, e spesso ci si ritrovava a dover fare tutti gli step delle serie inferiori prima di approdare nel massimo campionato”.

Nonostante tu sia torinese, non sei uscito né dal vivaio della Juve né da quello del Torino.

“Sì, evidentemente in giovanissima età non ero uno di quei talenti puri che sono subito pronti, ciononostante mi sono costruito nel tempo, grazie soprattutto alla forza di volontà e alla voglia di fare qualcosa di importante nel mondo del calcio. Evidentemente da ragazzo ancora non ero pronto per la chiamata di Toro o Juve, anche se nel corso della mia vita calcistica poi le occasioni di approdare in un grande club non sono di certo mancate. Mi vengono in mente il Milan, ma anche la stessa Juve: in un paio di momenti della mia carriera non ti nascondo di essere stato vicino a fare questo salto. Erano gli inizi del nuovo millennio, avevo acquisito un’esperienza solida, ero un giocatore maturo, affidabile ed ero entrato anche nel giro della Nazionale. Poi per un’inezia o un’altra non se ne fece mai nulla, ma ricordo bene che l’interessamento c’era eccome, anche se non ho rimpianti, la mia carriera ad Udine è stata qualcosa di speciale”.

A proposito di Udine, ti definiresti una bandiera dell’Udinese?

“Tredici anni con la stessa maglia non sono una cosa da niente. Personalmente vestire i colori dell’Udinese, oltre che la fascia da capitano per tutto questo tempo è un grande motivo d’orgoglio. Tra l’altro credo di aver fatto parte di una delle parti più gloriose della storia del club: in quegli anni portammo davvero in alto i colori bianconeri, siamo partiti dall’essere un club che faticava ogni anno ad ottenere la salvezza e siamo arrivati a consacrare l’Udinese nell’Olimpo del calcio internazionale”.

Cosa ricordi di quella storica Champions League del 2005?

“Sai, non ti saprei parlare di un momento in particolare, ricordo però che fu il felice coronamento di un percorso partito da molto lontano. È partito tutto dal 1995 con Zaccheroni, lì ci rendemmo protagonisti di un triennio meraviglioso, e proseguimmo egregiamente il percorso anche con Guidolin. Poi grazie a tutto questo impegno, grazie a tutto questo lavoro pregresso, ci siamo attestati ad un livello di classifica piuttosto alto che ci ha permesso di qualificarci per la Champions. La soddisfazione è stata ancora maggiore se si pensa che quella di Udine è una realtà fondamentalmente piccola: sapere di aver raggiunto questo obiettivo a discapito di piazze molto più grandi è davvero un grande motivo di orgoglio”.

Dei tanti allenatori che hai avuto chi è quello che ricordi con maggiore piacere?

“In assoluto, sia per quanto riguarda il percorso calcistico che il rapporto umano, ti dico Zaccheroni e Spalletti. Con loro ho creato davvero un feeling particolare, anche se ricordo con piacere lo stesso Guidolin, ma anche Hodgson. Lui aveva davvero un aplomb british, era il classico allenatore inglese, viveva il calcio con una passione travolgente ma allo stesso tempo alla fine riusciva ad essere distaccato. Sai, noi italiani spesso non riusciamo a frenarci e trascendiamo un po’ troppo. Ecco, lui invece riusciva sempre ad essere molto pacato, sia in caso di vittoria che di sconfitta”.

Hai giocato un grandissimo numero di partite al Friuli, oggi Dacia Arena. Ti piace il nuovo stadio, o preferivi il vecchio Friuli?

“Il nuovo stadio è davvero un gioiello, non ti nascondo che mi sarebbe piaciuto averlo così anche quando giocavo io (ride ndi). Il vecchio Friuli rimarrà ovviamente sempre nel mio cuore, era una struttura che aveva la sua riconoscibilità, legato indissolubilmente alla storia e alla cultura di questo territorio e il pubblico già allora ti faceva sentire tutto il suo sostegno. Però, ecco, la Dacia Arena oggi è il biglietto d’ingresso di Udine nella modernità. Una struttura all’avanguardia che non ha rivali nel nostro Paese, è uno stadio perfetto per giocare a calcio ed è davvero un peccato che in Italia siamo ancora così indietro da questo punto di vista”.

Qual è il compagno di squadra più forte che tu abbia mai avuto, quello che ti lasciava davvero stupefatto? 

“Ho avuto la fortuna di giocare con molti grandi calciatori, ma i due talenti che in assoluto avevano qualcosa in più erano senza dubbio Amoroso e Di Natale”.

L’avversario più difficile da marcare, invece?

“Il livello di quella Serie A era davvero altissimo, quindi anche tu alla fine eri costretto a migliorarti se volevi confrontarti con quella realtà. Ogni domenica c’era qualche sfida difficilissima: incontravi Del Piero, Zidane, Totti, Baggio, Shevchenko, Weah, insomma, potrei stare ad elencare per settimane (ride ndi). Comunque il numero uno in assoluto era Ronaldo il Fenomeno”.

La Nazionale, dal 2000 al 2001 collezioni 4 presenze. Credi che senza l’infortunio del dicembre 2001 saresti potuto andare al Mondiale?

“Lo so per certo a dire il vero, ero praticamente già dentro. Il rammarico più grande della mia vita è senza dubbio per quell’infortunio. Era una partita di Coppa Italia qui a Udine: freddo, pioggia, campo ghiacciato, c’era veramente un tempo da lupi. Mi ruppi il crociato, il mister (Trapattoni, ndi.) mi aveva già comunicato che ero nel gruppo che sarebbe partito per il Mondiale. Io capii immediatamente l’entità dell’infortunio: fu un brutto colpo ma mi concentrai fin da subito per tornare in piedi il più velocemente possibile, dando tutto me stesso per continuare a inseguire quel grande sogno che avevo ampiamente meritato di raggiungere dopo tanti anni di sacrifici. Dopo solo 4 mesi ho giocato nuovamente una partita in Serie A, poi purtroppo vennero fatte altre scelte per il Mondiale, ma perlomeno posso dire di non avere il rimpianto di non averci provato fino alla fine”.

Nel 2006 vai a Siena, come mai non finisti la carriera a Udine?

“Ovviamente non fu una mia scelta. Se devo essere sincero fu una decisione che mi fece molto male. Io, come certifica la mia carriera, ho sempre anteposto gli interessi dell’Udinese ai miei, e mi sarebbe piaciuto continuare a farlo anche con un ruolo in società una volta terminata la carriera di calciatore, che comunque nel 2006 non ritenevo ancora terminata. Non dipese assolutamente da me e non ti nascondo che rimasi molto deluso. Siena mi diede l’opportunità di dimostrare che ero ancora un calciatore, mi volle fortemente e passai due anni stupendi, durante i quali ottenemmo due splendide salvezze”.

Una volta appesi gli scarpini al chiodo sei diventato subito allenatore.

“Non ti nascondo che mi sarebbe piaciuto continuare a giocare ancora un po’, magari facendo un’esperienza all’estero. Quando ho deciso di smettere mi sono subito buttato in questa nuova fase della mia carriera e della mia vita, prendendo il patentino da allenatore. Volevo, e voglio ancora oggi, continuare a coltivare questa grandissima passione che ho avuto la fortuna di far diventare il mio lavoro”.

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