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Dal trionfo della scuola del "calcio all'italiana" fino all'avvento di un gioco vicino alle idee tattiche del nord Europa
Se negli Anni Cinquanta il calcio italiano è contraddistinto dalla confusione più assoluta, nella decade successiva assistiamo alla genesi definitiva del cosiddetto “calcio all’italiana” ovvero al trionfo della scuola difensivista: già nei primissimi Anni Sessanta il Sistema puro è ormai quasi completamente scomparso nel calcio italiano ma i successi internazionali del Milan (nel 1962-63) e dell’Inter (1963-64 e 1964-65) rafforzeranno ancora di più questa tendenza.
Le squadre italiane iniziano ad assestarsi sul seguente schema di gioco: davanti al portiere staziona un difensore senza compiti di marcatura (il libero appunto) che copre una linea di tre marcatori composta da due terzini (quello destro e quello sinistro) e dallo stopper centrale. A centrocampo troviamo un trio di centrocampisti schierato in maniera sfasata: un mediano basso, una mezzala di raccordo ed infine un regista avanzato. In attacco restano le tre classiche punte: le due ali ed il centravanti. Siccome con il nuovo modulo le marcature diventano ancora più rigide ed asfissianti di quelle sistemiste, con il libero che garantisce sempre superiorità numerica in difesa, gli epigoni del Catenaccio decidono di effettuare due accorgimenti per rendere più fluido ed imprevedibile il modulo: il terzino sinistro viene liberato di compiti anche nella fase d’attacco e diventa un fluidificante mentre l’ala sinistra viene “tagliata” e trasformata in un secondo attaccante: infine l’ala destra che invece viene arretrata a centrocampo divenendo così un tornante. In definitiva negli Anni Sessanta il calcio italiano inizia a sviluppare un calcio d’impostazione pragmatica che riassume le seguenti caratteristiche:
Il calcio all’italiana ha il pregio di vincere e di imporsi subito, anche perché le due sue squadre di punta (ovvero l’Inter di Herrera ed il Milan di Rocco), pur adottando una filosofia di gioco reattiva, si sono comunque dimostrate squadre capaci di trovate tattiche molto radicali. L’Inter del “Mago”, per esempio, ha saputo utilizzare contemporaneamente un terzino fluidificante (Facchetti), una finta ala (Corso) ed un finto centravanti (Peirò), mentre Nereo Rocco, nel suo secondo ciclo rossonero, ha di fatto inventato la figura del trequartista (Rivera) protetto dai due mediani. Però il Catenaccio resta un sistema di gioco estremamente vincolante dal quale è difficilissimo uscire. Alcuni tecnici ci proveranno, influenzati dalla novità del Calcio Totale olandese, dando origine ad esperimenti di schemi e di gioco assai accattivanti per tutti gli Anni Settanta.
Negli Anni Sessanta c’è un solo tecnico, per giunta straniero, che cerca di “rompere” il monopolio del Catenaccio italiano: stiamo parlando di Heriberto Herrera, paraguaiano soprannominato HH2 (ma nessuna parentela con Helenio, solo una vaga somiglianza nell’aspetto), fautore del cosiddetto “movimiento”, una filosofia di gioco che prevedeva una partecipazione attiva e costante di tutti dieci giocatori sia alla fase difensiva che a quella offensiva. Una sorta di precursore del Calcio Totale anche se “Accacchino” (questo il geniale soprannominato coniato da Gianni Brera) era più figlio del filone del “resultadismo” sudamericano e non è un caso che nella sua esperienza juventina il paraguaiano si sia subito scontrato con la stella Omar Sivori (“Sivori vale Coramini” la sentenza lapidaria di Herrera). Nonostante ciò, i germi del “movimiento” attecchiscono solo in parte a Torino, perché in difesa Heriberto gioca a uomo con Castano libero e Bercellino stopper, ma comunque frutteranno un insperato scudetto nel 1966/67 grazie al suicidio dell’Inter contro il Mantova all’ultima giornata di campionato. Quello di Heriberto Herrera resta comunque un esperimento isolato che non ha avuto precursori né successori.
Nel quinquennio 1969-74 si afferma in Europa il fenomeno del totaalvoetball olandese con i successi internazionali del Feyenoord e (soprattutto) dell’Ajax di Rinus Michels che impongono in Europa un nuovo paradigma calcistico che cozza completamente contro i dettami del calcio all’italiana. L’Ajax è impostato con marcature individuali e libero in difesa, ma applica un pressing feroce ed intenso nel recupero palla e fa dell’intercambiabilità dei ruoli il proprio punto di forza. Il Feyenoord invece, più compassato e classico nel suo gioco, in difesa viene schierato con la zona pura e con un 4-3-3 simmetrico ed estremamente funzionale. Sono tutti concetti, comunque, totalmente estranei al calcio all’italiana che qualche tecnico di provincia inizia a sperimentare. Nella stagione 1971/72 la Ternana di Corrado Viciani ottiene una storica promozione in Serie A grazie ad un gioco assolutamente innovativo per il panorama calcistico italiano. Viciani, toscano nato in Libia, propone per la prima volta il modello del “gioco corto” ovvero possesso palla, triangolazioni palla a terra, sovrapposizioni lungo le fasce. Viciani inventa questo tipo di gioco perché a suo modo di dire, possiede una rosa di giocatori tecnicamente mediocri (“degli asini” li definisce) che non sapevano verticalizzare e giocare negli spazi. In difesa però, la squadra umbra marca ancora ad uomo con Mastropasqua che gioca nella posizione canonica di libero. Così, la Ternana imbastisce questo particolare tipo di gioco che riesce a sbaragliare la concorrenza in Serie B, perché le fere sanno attaccare efficacemente senza dare punti di riferimento, ma in Serie A la qualità individuale delle avversarie è troppo più alta e così la Ternana finisce ultima in classifica ed il “gioco corto” abortisce definitivamente.
Nella stagione 1973/74 lo scudetto viene vinto, a sorpresa, dalla Lazio di Tommaso Maestrelli, altro tecnico toscano emergente e dalle idee innovative, che riesce a trascinare la squadra capitolina dalla Serie B al tricolore nel giro di tre stagioni. Le ragioni del successo biancoceleste stanno proprio nella carica innovativa del suo gioco, di impronta “olandese”, Maestrelli infatti fa ruotare la sua squadra attorno a tre punti fissi: il classico libero Wilson, il regista Frustalupi e il centravanti di sfondamento Chinaglia. Per il resto i terzini Petrelli e Martini arano le loro corsia di competenza mentre i centrocampisti Nanni e Re Cecconi sono dei cursori a tuttocampo. È una squadra molto verticale (ed estremamente efficace) la Lazio di Maestrelli che disegna per la prima volta sul campo un 4-3-3 simmetrico, anche se in difesa si continua a marcare a uomo e a giocare con il libero staccato.
Chi pensa per primo di togliere il libero è Luís Vinício de Menezes, ex bomber brasiliano del Napoli negli Anni Cinquanta, divenuto tecnico della squadra campana nell’estate del 1973. Il Napoli di Vinicio attua una fase difensiva assolutamente ardita con quattro difensori in linea, guidati magistralmente dal “vecchio” Burgnich, che cercano con frequenza la trappola del fuorigioco. La squadra si schiera con un 4-3-3 a zona pura, anche se qualche osservatore nota che la zona partenopea è “sporca” in quanto La Palma agisce sempre in prima battuta sul centravanti avversario. Grazie a questo particolare dispositivo difensivo, che Vinício associa più al calcio brasiliano che a quello olandese, il Napoli arriva secondo in campionato anche se nello scontro diretto contro la Juventus busca un pesante 2-6 che fa sghignazzare i seguaci del Catenaccio.
Nella stagione 1975/76 i riflettori sono tutti per il Torino di Gigi Radice che vince il suo settimo (ed ultimo) scudetto grazie ad un’arma ancora ignota nel calcio italiano ma conosciutissima nel Nord Europa e cioè il pressing. Pur non rinunciando alle marcature a uomo e al classico libero in difesa (interpretato in chiave innovativa da Caporale), il Toro schiera un centrocampo a tre a zona molto di pura sostanza ed un tridente sfasato con Claudio Sala che parte dalla destra per poi girare attorno alle due punte Pulici e Graziani. Grazie al suo nuovo modulo a zona mista, poi egemone nel calcio italiano del decennio successivo, il Torino aggredisce bene le squadre avversarie grazie al suo pressing ma poi sviluppa il suo gioco prevalentemente per le due punte Graziani e Pulici che servire in verticale fanno sfracelli. Nel caso del Torino possiamo notare una felice sintesi tra calcio olandese (per ritmi e pressing) e calcio all’italiana (marcature a uomo, ricerca del contropiede e della verticalità).
Nello stesso campionato il Cesena di Pippo Marchioro raggiunge il sesto posto e la qualificazione per la Coppa Uefa con un gioco sulla falsariga di quello granata: anche i romagnoli, infatti, marcano a uomo ma praticano un calcio estremamente dinamico e collettivo, anche se ci appare azzardato accostarlo a quello dell’Ajax o della tradizione olandese. La stagione successiva (1976/77) Marchioro proverà a trapiantare queste alchimie a Milano: in difesa sperimenta addirittura la zona e schiera Rivera con la maglia numero sette in un ruolo “alla Claudio Sala”. L’esperimento è un mezzo disastro e dura appena quindici partite con il Milan che richiama un conservatore come Nereo Rocco per tornare fuori dalle sabbie mobili della bassa classifica.
Chi invece riesce con successo a innestare alcuni principi del calcio totale olandese, a piccole dosi pure se significative, sul tronco del calcio all’italiana è un altro giovane allenatore di scuola Milan (come Radice e Marchioro), parliamo di Giovanni Trapattoni che nell’estate del 1976 diventa allenatore della Juventus. In un ambiente estremamente conservatore e resultadista, il giovane Trap riesce comunque a portare alcune piccole innovazioni: innanzitutto a centrocampo rinuncia alla figura del regista imbastendo una mediana a tre di pura sostanza secondo il principio che tutti i dieci giocatori di movimento sono dei costruttori (principio che sarà la base della rivoluzione sacchiana).
Per ovviare all’assenza di una fonte di gioco a centrocampo, Trapattoni ordina al suo libero (e che libero!) Gaetano Scirea di sganciarsi spesso dalla difesa con i due terzini Cuccureddu e Gentile che spingono sulla loro corsia di pertinenza come veri fluidificanti. Le soluzioni offensive della Juventus trapattoniana sono molto simili a quelle del Torino di Radice: due punte centrali (Boninsegna e Bettega) più un trequartista spostato sulla fascia (Causio). Pur non rubando l’occhio dal punto di vista del gioco la Juventus si rivela subito una macchina da guerra capace di vincere uno scudetto e la prima storica Coppa Uefa (il primo trofeo internazionale della storia bianconera)contro l’Athletic di Bilbao. Possiamo dire che con il primo ciclo della Juventus di Trapattoni incomincia la fase di “allontanamento” del movimento calcistico italiano dalle idee del Calcio Totale.
Infatti le big italiane iniziano a normalizzare il loro gioco relegando le tattiche più innovative ancora una volta alle squadre di provincia. Nella stagione successiva (1977/78) tornano a farsi protagoniste le provinciali: il Lanerossi Vicenza di Giovan Battista Fabbri giunge seconda in classifica grazie ad un sistema di gioco innovativo per il nostro calcio: il “Lane” infatti gioca con un’unica punta brevilinea (Paolo Rossi, un’ex ala riconvertita a centravanti) e tanti centrocampisti alle sue spalle pronti ad inserirsi in una sorta di 4-3-2-1 ad albero di Natale in cui si distinguevano sia giocatori creativi come Cerilli e Salvi che corridori di sostanza come Faloppa e Filippi. In difesa Carrera agiva da classico libero staccato, unico tratto distintivo comune alla tradizione del calcio italiano di una squadra davvero atipica.
Una strategia simile viene adottata l’annata successiva da un’altra provinciale d’oro, il Perugia di Ilario Castagner che si classifica al secondo posto senza nemmeno una sconfitta all’attivo in trenta gare. La squadra umbra vanta una difesa di ferro, che ruota attorno al classico battitore libero Frosio, ma anche soluzioni offensive molto ardite tutte palla a terra che sfruttano i movimenti del centravanti arretrato Casarsa abile ad innescare spesso i tagli verso il centro delle due ali Bagni e Speggiorin.
In quella stagione lo scudetto viene vinto dal Milan di Nils Liedholm, squadra molto particolare e sui generis in quanto presenta una sola punta di ruolo (Chiodi) e un centrocampo molto folto schierato in modo asimmetrico (sbilanciato tutto a destra) per permettere le scorribande sulla fascia sinistra del terzino goleador Maldera. In questo caso il tecnico svedese non impone dei principi di gioco ex novo ma si limita semplicemente a adattare il gioco della squadra al materiale a sua disposizione. È lo stesso teorema che viene seguito dall’ultima squadra innovativa e vincente degli Anni Settanta, l’Inter campione d’Italia di Eugenio Bersellini, maestro della preparazione atletica (fu uno dei primi ad introdurre lo stretching) ma anche grande stratega. Per sfruttare al meglio il talento discontinuo del regista offensivo Evaristo Beccalossi, Bersellini idea il rombo di centrocampo (con Caso e Pasinato intermedi e Marini vertice basso), una soluzione che poi avrà grande fortuna nel nostro calcio.
A differenza di quello che si tende a credere, quello italiano è stato un movimento calcistico estremamente vitale a livello di idee e soluzioni strategiche, se paragonato con altre scuole calcistiche dell’Europa del Sud (Spagna, Portogallo e Francia). Tuttavia tutte queste novità, portate avanti soprattutto da tecnici emergenti e da squadre provinciali, hanno teso a perdere la loro carica innovativa una volta giunte alla ribalta in grandi piazze. La conseguenza, sulla scia dei numerosi successi della Juventus sul finire del decennio e nei primi Anni Ottanta, è stata la nascita del cosiddetto “trapattonismo”, ovvero una riedizione aggiornata del calcio all’italiana degli Anni Sessanta con qualche tenue innovazione. Bisognerà aspettare un’altra rivoluzione, questa volta endogena al calcio italiano, ovvero quella portata da Arrigo Sacchi sul finire degli Anni Ottanta per assistere una seconda grande ondata di cambiamenti nel calcio italiano.
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