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Redazione

06.12.2013 ( Aggiornata il 06.12.2013 11:18 )

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Nelson Mandela è stato un uomo di sport, molto più di tanti che allo sport devono la propria notorietà e la propria ricchezza. Lo è stato perché ben prima dei 28 anni di prigionia (dal 1962 al 1990) per le sue attività anti-apartheid, aveva capito e teorizzato l'importanza dell'esercizio fisico come base per un approccio migliore verso la vita. Chi capisce i veri valori dello sport è di solito più rispettoso nei confronti del prossimo, oltre che più positivo nei confronti della quotidianità: per capire questo non è necessario essere personaggi storici come Mandela, ma è importante che certe parole arrivino da persone capaci di farsi ascoltare. Praticante di tutto, sia da giovane avvocato (soprattutto tennis, boxe e calcio) che poi da perseguitato (nei vari carceri cercò sempre di praticare la corsa, che riteneva fondamentale nell'educazione di un bambino), le sue immagini sportive consegnate ai posteri saranno però quelle da anziano tifoso. Un tifoso razionale, consapevole del potenziale di aggregazione dello sport in un paese come il Sudafrica dove i problemi di convivenza fra bianchi e neri sono 'leggermente' più gravi del nostro campanilismo. Il vittorioso Mondiale di rugby del 1995, con tutto quello che gli Springboks rappresentano per i bianchi del Sudafrica, la vittoriosa Coppa d'Africa di calcio dell'anno dopo e ovviamente il Mondiale del 2010, sognando i primi Giochi Olimpici in Africa. Non è che qualche festa nazionalistica abbia sconfitto il razzismo (anche quello dei neri verso i bianchi), però indicare una strada è sempre meglio che stare zitti. Senza cambiare i gusti popolari o la pelle degli atleti di vertice (difficile in Sudafrica trovare un grande nuotatore nero o un grande calciatore bianco), ma lanciando un messaggio senza equivoci. Si può amare e al limite anche strumentalizzare lo sport, come di sicuro ha fatto Mandela (un politico intelligente, non un santo), senza derive leaderistiche o dittatoriali. E senza dividere.

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