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Redazione

25.05.2012 ( Aggiornata il 25.05.2012 14:31 )

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Virgilio Motta è l'ennesima vittima del calcio, anche se tecnicamente si è suicidato. Lo ha fatto lunedì scorso, a casa sua, dopo tre anni di depressione a causa della perdita dell'occhio sinistro e di risarcimenti che se fossero arrivati gli avrebbero almeno consentito di pagarsi un intervento chirurgico che almeno gli avrebbe ridato un po' di speranza. I fatti: in un derby milanese del 15 febbraio 2009 un gruppo di ultras milanisti era sceso dal secondo al primo anello di San Siro per una spedizione punitiva contro un gruppo di interisti (non ultras, gli ultras dell'Inter sono nella curva opposta) reo di avere strappato uno striscione. Motta si era trovato in mezzo alla situazione, senza avere nemmeno una colpa specifica, e un pugno gli aveva causato il danno permanente all'occhio. Il 17 luglio dello stesso anno il giudice Alberto Nosenzo aveva condannato a pene comprese tra sei mesi di reclusione e quattro anni e mezzo di carcere sei ultras milanisti accusati, a vario titolo, di rissa aggravata e lesioni. Alla pena più alta era stato condannato Luca Lucci, uno dei capi della curva Sud che, secondo l'accusa del pm Giovanni Polizzi, aveva sferrato il pugno. A Motta - che, come ha spiegato il suo avvocato Consuelo Bosisio, era allo stadio con altri amici della 'Banda Bagaj' (bambini, in dialetto milanese), era stata riconosciuta una provvisionale di 140 mila euro a carico dei condannati da versare in solido. Peccato che i condannati non abbiano mai versato i 140 mila euro perché risultano nullatenenti, al punto che l'anno scorso Motta ha dovuto accettare di avere piccoli versamenti a rate nell'arco di 5 anni. Lasciando l'aula del processo di primo grado, dopo le condanne, Motta aveva affermato che quel pugno gli aveva cambiato la vita, pochi minuti dopo essere stato stato simpaticamente chiamato in causa dalla moglie di Lucci: ''I 140 mila euro te li devi spendere tutti in medicinali, maledetto infame''. Onestamente non avremmo scritto questo articolo se il morto fosse arrivato da scontri fra ultras milanisti e interisti, o di qualsiasi altra squadra. L'avremmo cinicamente archiviato come rischio del mestiere: vai allo stadio per picchiarti, a volte può andarti anche molto male quando trovi uno più grosso di te. Quando però tocca a un tifoso 'normale' la cosa diventa interessante oltre che tragica: è come se si fosse rotto una sorta di patto non scritto, un codice d'onore che unisce quasi tutti gli ultras del mondo. Si attacca il nemico della curva rivale o al limite il poliziotto (non stiamo dicendo che sia giusto, essendo oltretutto noi stati Carabinieri in servizio anche allo stadio, ma solo che gli ultras pensano questo), ma il cosidetto 'borghese' va al massimo insultato o schernito. Per questo la morte dei Paparelli e dei Motta è potenzialmente più pericolosa di quella di uno che, per parlare in termini piccolo borghesi (perché questo noi siamo), se l'è cercata. Stefano Olivari, 25 maggio 2012

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