Giornale di critica e di politica sportiva fondato nel 1912

Redazione

21.03.2012 ( Aggiornata il 21.03.2012 10:49 )

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Sì, il dibattito sì. Specie se ad aprirlo è stato Michele Serra, maestro di giornalismo e di stile anche umano, che in uno dei suoi corsivi L’amaca su Repubblica, ha spiegato l’orrore che gli fa Twitter cioè il suo uso superficiale, narcisistico, isterico, emotivo. Poi, di fronte alla massa di critiche inferocite (passatista, snob, luddista, superficiale) ha replicato con un lungo articolo in cui ha notato due cose interessanti. Primo, si può (si deve) parlare male di tanta parte del giornalismo, che pensa solo a urlare e al sensazionalismo. E i giornalisti non reagiscono malgrado siano una corporazione. Ma se se si parla male di Twitter si scatena la bufera, come se in discussione fosse stato messo un gruppo di persone e non lo strumento che usa. Secondo, Twitter e i social network «contengono anche una tentazione esiziale, che è quella del giudizio sommario, della fesseria eletta a sentenza apodittica, del pulpito facile da occupare con zero fatica e spesso zero autorevolezza.  La parola  non deve rispondere solo all'ossessione di comunicare (la comunicazione sta diventando il feticcio della nostra epoca). La parola dovrebbe servire ad aggiungere qualcosa, a migliorare il già detto. Alla comunicazione bastano gli slogan. Alla cultura serve il ragionamento». Concludendo : «Per comunicare basta scrivere "io esisto". Per scrivere, spesso è necessario dimenticarlo». Tutto molto bello, direte voi, ma che c’entra con il Guerin Sportivo? C’entra perché ci offre il destro (e viste le idee politiche di Serra il sinistro) per parlare di come Twitter ha cambiato lo sport. E l’ha cambiato assai. La prima cosa è che ha reso pressoché insensati i silenzi stampa. Già di senso ne hanno poco, o perlomeno ce l’hanno di rado, ma adesso ogni società deve tenere d’occhio almeno 30 profili Twitter e magari altrettanti Facebook di ragazzoni di sana e robusta costituzione, che il loro ruolo sociale e l’aspetto fisico rendono oggetto di interesse di migliaia di fanciulli e fanciulle (per quanto possa sembrare incredibile, esiste  gente interessata a una frasetta di Boateng o di Forlan). Ragazzoni che hanno la stessa voglia di esternare dei loro coetanei, spesso - proprio come i loro coetanei - sparando solenni minchiate in libertà (figuriamoci se alle loro età stanno a riflettere sulle conseguenze delle loro frasi, non lo fa nessun adulto, dovrebbe farlo un ragazzo?). Pensiamo all’ultimo silenzio stampa, quello della Juventus dopo Genoa: non era neppure cena che già Elia esternava. Vabbeh Elia, e dicendo banalità (roba tipo “peccato per il risultato, ma sono contento di aver giocato”), ma pur sempre un giocatore sceso in campo, che violava l’embargo. Insomma, Twitter è un canale nuovo, che rende i tentativi di bloccare la comunicazione imprese vieppiù disperate. Ci ha provato il tecnico del Nottingham Forrest, decidendo 100 sterline di multa a ogni suo giocatore che twitti di calcio. Ma è grottesco che un calciatore non parli di calcio. Tanto che la Roma, di cui si diceva stesse per partire un divieto del genere, nega di averci mai pensato. Per la gioia dei mass media, che ogni giorno devono per loro natura cibarsi di virgolette, frasi, parole. Poi naturalmente c’è il discorso del contenuto di questi tweet, e qui torniamo un po’ al discorso di Serra. Perché in gran parte sono agghiaccianti banalità e solenni minchiate, esattamente come quelle che spesso i calciatori dicono ai microfoni a metà o a fine partita, e con quelle non a caso hanno in comune l’immediatezza, l’impulsività. Ovvero, sono sì dette subito, soddisfacendo così il nostro horror vacui, tacitando la nostra emotività continua, alimentando il flusso di notizie e di parole che deve sempre essere riempito, ma proprio per questo, e per il limite di 140 caratteri massimi, che è al contempo obbligo di chiarezza, rischio di sommarietà e banalità e impedimento di completezza, non dicono niente di strutturato, di vagamente meditato. Tempo fa se un giornalista avesse portato al suo caporedattore frasi così, sarebbe stato rincorso con un randello nodoso. Ora invece vengono elevate a perle del pensiero. Tra i tanti segni di decadenza di un noto quotidiano rosa, c’è la nascita di un colonnino di tweet di sportivi. Non li si può neanche definire banalità, sono il vuoto pneumatico del pensiero. Tra gli ultimi che abbiamo letto, un ciclista che ringrazia per gli auguri di compleanno, un motociclista che dice che sta lavorando duramente, un calciatore che commenta il sorteggio di Champions dicendo che è difficile. Roba che forse - ma ne dubitiamo - ha senso nel contesto di Twitter, nel senso che qualche  fan può essere interessato a un commento in tempo reale, ma che trasposta su un quotidiano il giorno dopo toglie senso a chi legge, a chi scrive e al quotidiano stesso. Questo fa parte di un altro fenomeno, la sudditanza psicologica che la carta stampata nutre da sempre nei confronti degli altri mass media, su tutti tv e Internet, e più in generale del “nuovo”, le tecnologie, l’informatica. Sembra quasi lo stesso senso di inferiorità e di colpa che impedisce ai giornalisti di reagire quando vengono attaccati al quale fa riferimento Serra. Roba da Freud. Anche perché Twitter non offre ai giornalisti solo opportunità e nuove fonti di notizie, dichiarazioni e polemiche. Ma gli leva anche qualcosa: il ruolo di chi fa le domande e sollecita le risposte. L’esempio è fresco fresco: Galliani ha risposto a domande di tifosi e sportivi dalla pagina Twitter del Milan. Solo che, come tutte le pagine Twitter, ci compariva solo quel che vuole il suo gestore. Ovvero, le domande casualmente erano tutte perfette perché con le risposte Galliani facesse una bella figura e dicesse solo quel che vuole. Ok, erano anzitutto domande di tifosi, ma di scomode, quelle che forse un giornalista professionista avrebbe fatto, ce n’erano veramente poche, e quando c’erano erano abilmente eluse. «Certo – dirà qualcuno -  però questa è democrazia, si saltano passaggi intermedi tra la persona qualsiasi e il potente di turno, sportivo in questo caso, c’è un dibattito simultaneo e mondiale». Ma sono una falsa democrazia e un falso dibattito quelli in cui le domande si possono porre, ma poi è l’intervistato a decidere a quali rispondere, e come. E questo è un altro dei rischi di Internet e in questo caso di Twitter, quello di dare solo in apparenza poteri come onniscienza e onnipotenza. Non dimentichiamo che le rivolte arabe dell’anno scorso sono state favorite da Twitter, dopodiché caduti i dittatori si è andati a votare e hanno vinto gli integralisti islamici, che forse hanno pure peggiorato la situazione rispetto a prima. Insomma, e questo è il succo di tutto, lo sport con Twitter rischia quello che gli è successo con la televisione e che a suo modo l’ha ucciso: di considerarlo un fine e non un mezzo (anzi, un medium). Conta, conterà sempre, quello che mostri e quello che dici, non dove lo mostri e dove lo dici. Livio Balestri telecommando@hotmail.it

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