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Troppa Africa non uccide l’atletica

Redazione

06.11.2011 ( Aggiornata il 06.11.2011 19:39 )

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Anche questa edizione della maratona di New York ha confermato il dominio africano nelle gare di corsa, non solo in quella che rappresenta il sogno di tutti noi che ogni giorno arranchiamo al passo di 5 minuti al chilometro. Dalle grandi maratone primaverili, Londra e Boston su tutte, a New York passando per classiche come Berlino e Chicago e il Mondiale della situazione che però spesso ha un campo di partecipanti inferiore come livello a quello dei major, il dominio di Kenya ed Etiopia è assoluto ed indiscutibile. Con un salto di qualità nei tempi, soprattutto negli ultimi anni, che ha reso la partecipazione europea e in generale 'bianca' (tanto per chiamare le cose con il loro nome) poco più che contorno. Le 2h5'05'' con cui il trentenne Geoffrey Mutai, vincitore quest'anno anche a Boston con annesso dibattito sull'omogabilità del tempo, ha dominato la gara maschile sono un record della corsa pazzesco, considerando il percorso a saliscendi della maratona newyorkese (i record assoluti si possono fare a Berlino o a Rotterdam), nobilitato da 10 chilometri finali a un passo da 10mila in pista. Più emozionante la gara femminile, dove la strafavorita keniana Mary Keitany ha fatto gara di testa per quasi 40 chilometri, con un vantaggio sulle inseguitrici anche di 2 minuti, per poi crollare e farsi riprendere dalle due etiopi Firehiwot Dado e Buzunesh Deba. Una volta ripresa, invece di andare a fondo come il crudele copione della maratone vuole, la Keitany ha avuto una reazione clamorosa a livello nervoso che per qualche centinaio di metri l'ha riportata in testa e che alla fine le ha fatto guadagnare un ottimo ma amaro terzo posto dietro alle due etiopi (ha vinto la Dado, fra le altre cose trionfatrice a Roma in tre edizioni). Il primo uomo non originario dell'Africa (quindi non contiamo gli americani di passaporto Keflezighi e Sisay) è lo statunitense Ed Moran, decimo, la prima donna la portoghese Ana Dulce Felix, finora conosciuta come discreta crossista, arrivata quarta con una gara intelligente. A fine stagione è tempo di bilanci e di sicuro qualcuno dirà che il dominio dell'Africa (per non dire due paesi dell'Africa) nella corsa dal mezzofondo veloce in su sta distruggendo l'atletica mondiale sia a livello di marketing (le nazioni che tengono a galla la baracca non hanno atleti di casa in cui identificarsi) che di reclutamento (un bambino italiano che guardasse Mutai potrebbe pensare: io non ce la farò mai). Considerazioni fondate, se vogliamo uscire dalla correttezza politica, ma parlando di sport se ragionassimo con lo stesso metro Etiopia e Kenya dovrebbero abolire il calcio. Ai detrattori dell'atletica si può comunque sempre dire che nessuna disciplina è così onesta e quindi credibile. Non perché l'arbitro di fatto non esista, ma perché la corsa dà le stesse condizioni di partenza a chiunque in qualsiasi angolo della terra. Più del calcio, dove per emergere occorre crescere in un contesto ambientale e tecnico di un certo livello. Se Maradona fosse nato in Etiopia non sarebbe stato Maradona, se Mutai fosse nato in Italia avrebbe comunque avuto la possibilità di essere Mutai. Parliamo di possibilità, perché da noi avrebbe giocato un po' a pallone e poi una volta resosi conto dei suoi limiti si sarebbe dedicato alla playstation o peggio ancora al tifo. Onore quindi all'atletica, dove al netto del discorso doping (che esiste anche negli altri sport, peraltro) vincono sempre quelli che meritano di più. Twitter @StefanoOlivari

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