        Santiago del Cile &egrave; una citt&agrave; complessa, che alla localizzazione geografica pienamente sudamericana combina un&rsquo;influenza europea che si esprime con evidenza nell&rsquo;aspetto architettonico della citt&agrave;. Due culture, quella latinoamericana ed europea, diverse anche se profondamente legate dalle vicende che storicamente le hanno avvicinate e che, in ambito calcistico, hanno dato origine a modalit&agrave; espressive differenti, in passato ben polarizzate, oggi meno accentuate per via di quel processo di globalizzazione delle competenze che ha caratterizzato il calcio negli ultimi vent&rsquo;anni. Di questo processo di globalizzazione non &egrave; un caso che Manuel Pellegrini sia un esponente di rilievo. Le origini: il corso a Coverciano &nbsp; Nato proprio a Santiago del Cile il 16 settembre 1953, l&rsquo;attuale tecnico del Betis Siviglia porta nelle vene sangue europeo, italiano per la precisione. La bisnonna paterna, infatti, era romana (il figlio approd&ograve; in Cile quando aveva appena cinque anni) mentre da parte materna la famiglia Ripamonti, suo secondo cognome, aveva evidenti ascendenze lombarde. Dell&rsquo;Italia Pellegrini ha il passaporto e conosce bene la lingua, bagaglio personale che gli ha permesso, nel lontano 1985, di frequentare il corso di Coverciano a ridosso della fine della sua carriera di calciatore, spesa per intero nelle file dell&rsquo;Universidad de Chile. Un difensore da 451 partite ufficiali che, oltre agli allenamenti, pensava a studiare, riuscendo addirittura a laurearsi in ingegneria civile dopo aver messo da parte l&rsquo;interesse per la medicina. Un amante del calcio attratto dalla conoscenza di ci&ograve; che sta oltre il campo, sulla falsariga della famosa frase di Jos&egrave; Mourinho &ldquo;chi sa solo di calcio, non sa niente di calcio&rdquo;. Un allenatore che, grazie alla sua esperienza da giocatore e ai suoi studi universitari, ha fatto dell&rsquo;osservazione attenta e del pragmatismo due strumenti essenziali di elaborazione della realt&agrave; e delle modalit&agrave; con cui venire a capo delle sfide che essa propone. Attitudine codificata, ad esempio, nei rapporti con la stampa, che Pellegrini ha sempre impostato in termini sobri, senza cercare i titoli ad effetto, pago di dare spiegazioni razionali che soddisfino le richieste dei giornalisti: la semplice declinazione di una parte del lavoro da svolgere con professionalit&agrave; e garbo, come si conviene a un ingegnere che, pi&ugrave; che focalizzarsi sulle presentazioni, cerca di impostare al meglio la progettazione dei lavori.  Le esperienze in Sudamerica &nbsp; Messe da parte le aspirazioni che il titolo di studio avrebbe consentito, Pellegrini cominci&ograve; il suo percorso da allenatore nella squadra in cui aveva sempre militato, l&rsquo;Universidad de Chile. I primi dieci anni passano attraverso le esperienze con Palestino, O&rsquo;Higgins e Universidad Catolica. Nel 1998 si trasferisce all&rsquo;estero, in Equador, dove, con la Liga de Quito, vince il suo primo campionato da tecnico. Nel 2000 va in Argentina, sedendo due anni sulla panchina del San Lorenzo e altri due su quella del River Plate: con entrambi i club vince il campionato (col San Lorenzo nel 2001 e con i Millonarios nel 2003). L&rsquo;approdo in Europa  Nel 2004 giunge il momento di attraversare l&rsquo;Atlantico: l&rsquo;Europa &egrave; la patria del calcio che conta, dove il talento dei giocatori va incanalato nelle strategie di gioco e allenato con le metodologie pi&ugrave; all&rsquo;avanguardia. La sfida per Pellegrini &egrave; intrigante: chi meglio di lui pu&ograve; combinare le caratteristiche sudamericane e l&rsquo;approccio europeo? Il Villarreal &egrave; una sorta di progetto ingegneristico da sviluppare nel Paese che, per primo, consent&igrave; all&rsquo;Europa di stabilire un contatto duraturo con l&rsquo;America Latina. Gli anni col Submarino Amarillo (2004-2009) regalano alla squadra visibilit&agrave; sul palcoscenico della Champions League, nel quale nel 2006 l&rsquo;avanzata verso l&rsquo;ultimo atto inciampa su un rigore sbagliato da Riquelme a pochi minuti dalla fine nella semifinale di ritorno contro l&rsquo;Arsenal, croce e delizia del tecnico cileno, che coi valenciani raccoglie un apprezzamento diffuso che, nel 2009, lo porta alla corte della Casa Blanca. Il rapporto col Real, per&ograve;, non &egrave; idilliaco sin dall&rsquo;inizio: Pellegrini non ha il fascino glamour che piace a Florentino Perez, persuaso da Valdano ad assumere quell&rsquo;allenatore solo perch&eacute; la prima scelta del presidente, Arsene Wenger, non era disponibile. A Madrid il tecnico porta a termine una sola stagione, avversato pesantemente dalla stampa che, oltre a non considerare apprezzabile un secondo posto nella Liga alle spalle del Barcellona di Guardiola, non gli perdona le precoci eliminazioni in Champions (ottavi col Lione) e in Copa del Rey contro l&rsquo;Alcorc&oacute;n, squadra delle divisioni inferiori. Pellegrini prosegue il suo percorso spagnolo col Malaga, passaggio che attira le critiche di Jos&egrave; Mourinho, suo successore al Real, che gli rimprovera il fatto di essere sceso di livello. Anche in quella scelta c&rsquo;&egrave; tutto il pragmatismo dell&rsquo;allenatore cileno: da buon ingegnere ama costruire e alzare la competitivit&agrave; di una squadra con poca tradizione &egrave; un progetto al quale si dedica senza rimpianti, portando il club, nel 2013, a giocare i quarti di Champions League.   Dal Manchester City al Betis Siviglia  La consacrazione di Pellegrini arriva con la chiamata del Manchester City nell&rsquo;estate di quello stesso anno: in Inghilterra, nel campionato pi&ugrave; bello del mondo, arrivano un&rsquo;affermazione in Premier (2014) e due in Coppa di Lega (2014 e 2016). Dopo una parentesi in Cina all&rsquo;Hebei, il ritorno in Inghilterra col West Ham culmina con un esonero che rende Pellegrini disponibile a tracciare un nuovo sentiero col Betis Siviglia che, ad oggi, lo ha portato a vincere la Coppa di Spagna 2021-22. Tatticamente, mentre in passato aveva preferito moduli differenti (come il 4-2-2-2 o il 4-3-1-2), il tecnico di Santiago con gli Andalusi si dispone con il 4-2-3-1, dando ulteriore prova della sua flessibilit&agrave;. Ovviamente, nelle applicazioni contemporanee, i moduli non sono pi&ugrave; rigidi, per cui il Betis in fase di non possesso scivola verso il 4-4-2 mentre quando attacca tende a configurarsi con una sorta di 2-2-5-1. Orientato per indole al sincretismo tra calcio sudamericano ed europeo, Pellegrini adatta i moduli soprattutto in relazione agli uomini da allenare e alle squadre che affronta, basandosi su alcuni principi di base che ha mantenuto inalterati nel corso del tempo: la difesa a quattro con i terzini che spingono e due centrali di centrocampo che schermano i compagni alle loro spalle. Sulla tre quarti d&rsquo;attacco, invece, tende a dare libert&agrave; di iniziativa ai giocatori, svincolandoli dall&rsquo;attuazione di schemi predeterminati. Un ingegnere che, da sempre, progetta un calcio sostenibile, lontano dalle mode, innervato di solidit&agrave; europea e inventiva sudamericana. &nbsp;&nbsp;&nbsp; &nbsp;       

Laureato in ingegneria civile, l&rsquo;ex tecnico del Real Madrid propone con le sue squadre un gioco che unisce la praticit&agrave; europea e l&rsquo;inventiva latinoamericana

Manuel Pellegrini, la costruzione del calcio dal Villarreal al Betis Siviglia

        Inghilterra, Premier League, 21 aprile 2001: si gioca il derby di Manchester, United contro City, un match che al giorno d&rsquo;oggi &egrave; uno scontro tra due potenze, economiche e tecniche, del calcio europeo, anche se negli ultimi tempi i Red Devils si sono pesantemente ridimensionati, a differenza dei Citizens che, guidati in panchina da Pep Guardiola (e dai soldi degli sceicchi emiratini in tribuna) sono diventati la squadra dominante della Premier League. Haaland senior e la questione con Roy Keane Nel 2001 per&ograve; le cose erano totalmente differenti: se lo United di Ferguson era gi&agrave; da tempo considerata la squadra pi&ugrave; forte della nazione, il City era invece in uno dei periodi peggiori della sua storia: pochi anni prima si trovava addirittura in Second Division (la terza serie del calcio inglese) mentre in quella stagione stava lottando per non retrocedere. La partita regal&ograve; poche emozioni, venne giocata dai Red Devils a marce basse &ndash; essendo gi&agrave; matematicamente campioni nazionali &ndash; e termin&ograve; col punteggio di 1 a 1.  Tuttavia entr&ograve; nell&rsquo;immaginario collettivo-calcistico per un episodio avvenuto negli ultimi minuti di gioco, ovvero un violento fallo di Roy Keane (capitano dello United) ai danni di Alf-Inge Haaland, centrocampista norvegese del City, che cost&ograve; all&rsquo;irlandese il rosso diretto. Un anno pi&ugrave; tardi &ndash; tramite l&rsquo;autobiografia dello stesso Keane &ndash; si venne a sapere che quell&rsquo;intervento (un brutto calcio al ginocchio destro del collega) era premeditato, essendo una &ldquo;vendetta personale&rdquo; nei confronti del norvegese per un episodio accaduto 4 anni prima, quando giocava per il Leeds. In quella partita il capitano dello United si ruppe il crociato, ma Haaland, pensando che stesse fingendo l&rsquo;infortunio per procurarsi un rigore, lo insult&ograve; pi&ugrave; volte, intimandogli di rialzarsi. Dopo aver rivelato la sua &ldquo;vendetta&rdquo;, Keane venne squalificato dalla Federazione per 5 giornate, oltre a dover pagare una pesante multa, finendo nell&rsquo;occhio del ciclone mediatico con l&rsquo;accusa di avere distrutto la carriera di Haaland. Dopo quel brutto intervento si ritir&ograve; dal calcio a soli 30 anni, giocando appena quattro partite nei successivi due anni. In realt&agrave; lo stesso Haaland sment&igrave; pubblicamente questa ricostruzione, ammettendo che non fu il fallaccio di Roy a costringerlo a smettere, ma un altro brutto infortunio al ginocchio sinistro (non quello colpito dall&rsquo;irlandese quindi) che si trascinava gi&agrave; da diverso tempo. Ad ogni modo il norvegese non ha mai perdonato il collega per ci&ograve; che fece al tempo, accusando Keane di soffrire di problemi mentali, e di essere un codardo.  Alf-Inge Haaland, un &ldquo;padre d&rsquo;arte&rdquo; Questa vicenda di &ldquo;cronaca calcistica&rdquo; era, sino a poco tempo fa, l&rsquo;unico motivo per cui il nome di Alf-Inge Haaland, un giocatore dalla carriera appena discreta e senza acuti particolari, fosse conosciuto dall&rsquo;intero mondo calcistico globalizzato... sino all&rsquo;arrivo sulla scena internazionale del figlio, Erling, destinato a diventare, con ogni probabilit&agrave;, il pi&ugrave; grande calciatore del suo Paese, ed uno dei pi&ugrave; grandi centravanti di questo sport. Questo ha gi&agrave; reso Alf un cosiddetto &ldquo;padre d&rsquo;arte&rdquo;.  Come giocava il pap&agrave; di Erling Haaland Ma che tipo di giocatore era Haaland senior? Fondamentalmente, un mediano, che all&rsquo;occorrenza poteva giocare anche terzino destro, pi&ugrave; bravo in fase di copertura che in quella di spinta, non molto dotato tecnicamente, ma in grado di sopperire alla pochezza qualitativa con un grande spirito di sacrificio per la causa. Metteva in campo grinta da vendere e forte personalit&agrave; (anche perch&eacute; per avere il coraggio di insultare uno come Roy Keane bisogna essere parecchio sicuri di s&eacute;). Una sorta di Gary Neville scandinavo, ma pi&ugrave; &ldquo;sfortunato&rdquo; del collega inglese, causa diversi problemi fisici che gli hanno impedito di affermarsi ulteriormente. La sua carriera inizia in patria, con la maglia del Bryne (la stessa con cui inizier&agrave; anche il figlio), per poi, dopo quattro anni, approdare in First Division (la seconda serie inglese), per vestire la maglia del Nottingham Forest, nel dicembre 1993. Nei primi due anni e mezzo Alf gioca con poca continuit&agrave;, causa ovvi problemi di adattamento ad una nuova e importante realt&agrave; calcistica, ma nella terza stagione diventa finalmente titolare, e con 6 gol realizzati addirittura il miglior marcatore stagionale della squadra, che per&ograve;, dopo essere risalita in Premier due anni prima, retrocede nuovamente.  Haaland decide di trasferirsi al Leeds United, campione d&rsquo;Inghilterra 6 anni prima (nel 1991-92), ma in netto declino in quel momento: guidati da un nuovo allenatore, lo scozzese George Graham, e da una nuova coppia d&rsquo;attacco, formata dall&rsquo;olandese Jimmy Floyd Hasselbaink e dall&rsquo;australiano Martin Kewell, si classificheranno in due stagioni rispettivamente al quinto (1997-98) e al quarto posto (1998-99) della Premier, qualificandosi in Coppa Uefa. Dopo l&rsquo;addio di Graham, il suo sostituto, l&rsquo;irlandese David O&rsquo;Leary, far&agrave; ancora meglio, portando il club al terzo posto in Premier e alle semifinali di Coppa Uefa, anche se Alf, a causa di un brutto infortunio, giocher&agrave; poche partite in quell&rsquo;annata, consolandosi per&ograve;, a livello personale, con la nascita di Erling, avvenuta nel luglio del 2000 proprio a Leeds. Solo un mese pi&ugrave; tardi Alf decider&agrave; di trasferirsi nell&rsquo;attuale squadra del figlio, il Manchester City, con cui per&ograve; disputer&agrave; solo una singola stagione per intero, la 2000-01, quella segnata dall&rsquo;infausto calcio di Roy Keane al suo ginocchio, per poi ritirarsi due anni dopo, nel 2003, senza essere quasi mai sceso in campo.  A livello internazionale, Haaland senior fece parte della cosiddetta &ldquo;generazione d&rsquo;oro&rdquo; del calcio norvegese, che si qualific&ograve; per due Mondiali consecutivi, nel 1994 e nel 1998 (Alf disputer&agrave; solo il primo), formata da giocatori di livello come Rune Bratseth, Ole Gunnar Solskjaer, Tore Andr&egrave; Flo, Stig Inge Bjornebye, Henning Berg e Ronny Johnsen. Dopo anni di oblio, una nuova gold generation, guidata proprio dal figlio Erling, sembra essere finalmente tornata, e potrebbe presto regalare tante gioie al calcio del Paese scandinavo. A cura di:&nbsp;        

Il pap&agrave; del fenomeno norvegese del Manchester City vest&igrave; la maglia dei Citizens prima del figlio. &Egrave; ricordato soprattutto per l&rsquo;episodio avvenuto durante un derby del 2001

Alf-Inge Haaland: la lite con Roy Keane e la carriera di un padre d’arte

        La lunga gittata con le mani di Roberto Carlos spiove nell&rsquo;area di rigore, la difesa del Valencia allontana; McManaman raccoglie la respinta e con uno splendido tiro al volo fulmina Canizares, avvicinando il Real al trionfo. &Egrave; da qui che vogliamo iniziare il racconto della seconda vita di Steve McManaman, divisa tra Real Madrid e Manchester City. Era la prima finale di Champions League del nuovo millennio, che incoron&ograve; campioni i Blancos per l&rsquo;ottava volta, grazie al 3-0 sul Valencia firmato anche Morientes e Raul.  Da Liverpool a Madrid Figlio di Liverpool, l&rsquo;esterno inglese approd&ograve; a Madrid dopo quasi un decennio trascorso in maglia Reds. E pensare che per la sponda rossa del Mersey non sarebbe mai voluto passare: era tifosissimo dell&rsquo;Everton fin da bambino. &Egrave; anche stato relativamente sfortunato, visto che in 9 anni di militanza all&rsquo;ombra della Kop &egrave; riuscito a mettere in bacheca a malapena una Coppa di Lega e una FA Cup. Nulla pensando alla tradizione del club. A Madrid l&rsquo;estroso esterno britannico si riprese tutto, ricevendo indietro dal calcio quella gloria mai troppo vicina negli anni passati in Premier. McManaman era svincolato e Lorenzo Sanz lo port&ograve; al Bernabeu nell&rsquo;estate &rsquo;99, offrendogli un quadriennale. Fu il primo inglese in assoluto a trasferirsi dalla &ldquo;nuova&rdquo; Premier League alla Casa Blanca. La Champions League e Florentino Perez Nella prima stagione la squadra, oltre a vivere l&rsquo;avvicendamento in panchina tra John Toshack e Vicente Del Bosque, part&igrave; in un clima burrascoso, con tante cessioni illustri sul mercato dovute alla pesante condizione di crisi delle casse del club. Nella Liga fin&igrave; male (5&deg; posto), ma in Europa arriv&ograve; una vittoria inattesa che non pot&eacute; far altro che smaterializzare i fantasmi d&rsquo;inizio stagione. Steve McManaman nella finale di Parigi segn&ograve; un gol fantastico e fu etichettato come migliore in campo dalla maggioranza della stampa europea. Nell&rsquo;annata seguente, per&ograve;, cambi&ograve; tutto: Florentino Perez s&rsquo;insedi&ograve; ai vertici della societ&agrave; e fece follie per acquistare Figo dal Bar&ccedil;a (140 miliardi, menomale che le casse del club erano in crisi). Il club aveva bisogno di un ritorno e cos&igrave; l'inglese fu messo sul mercato. Arrivarono decine di offerte, ma McManaman le rifiut&ograve; tutte: voleva giocarsi le proprie chance al Real. Anche all&rsquo;interno dello spogliatoio alcuni senatori (come Salgado) si schierarono dalla parte di Steve, affermando che non meritava un trattamento simile. Addirittura i tifosi in un sondaggio su El Mundo Deportivo espressero un plebiscito in suo favore, con il 90% dei voti a incitarne la permanenza.  La seconda Champions McManaman rimase cos&igrave; a Madrid, dirottando principalmente il suo gioco sulla fascia sinistra, creando una grande intesa con Roberto Carlos. Si distinse in zona assist nel 2000-01, con 8 passaggi vincenti in 28 presenze che contribuirono alla conquista della Liga. Con la politica dei Galacticos, sulla quale ormai puntava il Real Madrid, il suo minutaggio diminu&igrave;, ma l&rsquo;ex Liverpool seppe sempre farsi trovare pronto, risultando efficace anche a gara in corso. Come nella semifinale d&rsquo;andata di Champions, quando un suo delizioso pallonetto in pieno recupero al Camp Nou tagli&ograve; le gambe ai catalani. Il Real non vinceva un Clasico in trasferta dal &rsquo;93 e con lo 0-2 si ritrov&ograve; spianata la strada verso la finale, decisa poi dal celebre sinistro volante di Zidane contro il Leverkusen. Su di lui Butragueno disse: &ldquo;McManaman &egrave; un gentiluomo e un giocatore eccellente&rdquo;. Mentre Johan Cruijff lo defin&igrave; &ldquo;El socio de todos&rdquo; (&ldquo;il miglior partner di tutti&rdquo;).  Il deludente ritorno in Premier League Segu&igrave; solo un&rsquo;ultima stagione per Steve alla Casa Blanca, in cui conquist&ograve; un&rsquo;altra Liga, ma giocando sempre meno. Quelli dell&rsquo;estate 2003 furono gli ultimi mesi passati a Madrid, in concomitanza con l&rsquo;arrivo di David Beckham, che McManaman aiut&ograve; ad ambientarsi. Il 30 agosto, a margine della finestra di calciomercato estiva, nonostante le pressioni dello Spice Boy, fece ritorno in Premier League firmando per il Manchester City. Determinante per la sua scelta fu la figura di Kevin Keegan, tecnico dei Citizens e suo grande ammiratore fin dai tempi del Liverpool. L&rsquo;esperienza al City dur&ograve; solo due stagioni e fu assolutamente deludente: ancora relativamente giovane (31 anni) McManaman aveva ormai perso i ritmi della Premier League e riscontrava sempre pi&ugrave; spesso problemi fisici. Nel biennio passato a Manchester ritrov&ograve; anche il suo amico di vecchia data Robbie Fowler, ma la coppia attir&ograve; l&rsquo;attenzione mediatica pi&ugrave; per i vissuti extra campo che per le giocate sul rettangolo verde.        

Dopo tanti anni passati con il Liverpool, l&rsquo;inglese si trasfer&igrave; nella Liga per vincere tutto con i Blancos. Il suo ritorno in Premier ai Citizens fu deludente

Real Madrid-Manchester City: la seconda vita di Steve McManaman

Gi&agrave; da tempo il celebre dibattito risultatisti vs giochisti ha trasceso il rettangolo verde per entrare nei salotti, pi&ugrave; o meno buoni, del calcio nostrano: in prima pagina sui giornali, in cima alla scaletta dei talk sportivi in televisione, trend topic sui social network. Un bipolarismo che rispecchia una societ&agrave; lacerata, abituata ormai alla prassi delle opposte fazioni, e che vede scontrarsi due partiti di massa sempre pi&ugrave; radicalizzati: il primo, quello dei &ldquo;risultatisti&rdquo;, pi&ugrave; conservatore, legato alle radici e alla tradizione italiana; il secondo, quello dei &ldquo;giochisti&rdquo;, pi&ugrave; progressista, esterofilo e globalizzato.  Una vera e propria guerra senza quartiere che ultimamente si &egrave; manifestata nello scontro di mondi Simeone vs Guardiola: da un lato le milizie brutte, sporche e cattive del Cholo, scamiciate e catenacciare; dall&rsquo;altro gli interpreti belli, buoni ed eleganti agli ordini di Pep, danzatori classici immacolati nella loro maglia light blue. Come accade spesso nelle guerre per&ograve;, seppure simulate o dialettiche, la prima vittima &egrave; la verit&agrave;. E cos&igrave; negli ultimi tempi se ne sono dette tante, forse troppe, e alcune anche un po&rsquo; a sproposito.    Risultatisti vs giochisti, opposti che non si attraggono  Prima, durante e dopo il doppio confronto europeo erano stati gli stessi Simeone e soprattutto Guardiola a gettare acqua sul fuoco della polemica. &laquo;Questo &egrave; un dibattito stupido. Lui vuole vincere, io voglio vincere. Chi vince ha ragione&raquo;, aveva in un primo momento tagliato corto Pep, rimproverando poi i giornalisti di aver montato ad arte la polemica con tutte quelle storie sul 5-5-0 (presunto) &ldquo;preistorico&rdquo;: &laquo;mi avete attribuito cose che non ho detto. Basta parlare di stili. Non ha vinto nessuno stile&raquo;. Eppure le rispettive truppe erano sul piede di guerra, in una contrapposizione rappresentata plasticamente dal botta e risposta (indiretto) tra Sacchi e Capello: il primo intervistato sulla Gazzetta, l&rsquo;altro sul Corriere dello Sport.     Se Sacchi ha parlato di &ldquo;spartito&rdquo;, di gioco propositivo (da incentivare) e di calcio vecchio (da superare, quello di Simeone), Capello ha risposto con un elogio della tradizione italiana: non tanto il difensivismo fine a se stesso, quanto piuttosto lo spirito di adattamento ai differenti contesti e alle varie partite. Una dicotomia mostrata anche ai tempi del Milan, sulla cui panchina i due tecnici si successero raccogliendo risultati simili &ndash; entrambi vinsero e molto, Sacchi due Coppe dei Campioni e un Campionato, Capello una Coppa dei Campioni e quattro Campionati &ndash; ma proponendo due &ldquo;filosofie&rdquo; radicalmente differenti.&nbsp;  Qui tuttavia entriamo nella critica del giudizio, nella sfera delle preferenze personali; o almeno, cos&igrave; dovrebbe essere. Il problema &egrave; che ultimamente si &egrave; preteso di sciogliere la questione trasformando un dibattito soggettivo in una questione oggettiva: pensiamo a chi ha accusato i vari Allegri, Mourinho, Simeone, anche Ancelotti di praticare un calcio &ldquo;superato&rdquo; dalla storia, incapace di stare al passo con i tempi, frutto di un approccio passatista, novecentesco e reazionario. Cos&igrave; la controversia da estetica &egrave; divenuta anche etica: il calcio di Guardiola oltre ad essere bello &egrave; buono, quello di Simeone oltre ad essere brutto &egrave; cattivo; roba da far invidia alla &kappa;&alpha;&lambda;&omicron;&kappa;&alpha;&gamma;&alpha;&theta;?&alpha; greca. Un presupposto dogmatico, quasi messianico, che tuttavia si alimenta anche di falsi miti, come quello secondo cui gli allenatori &ldquo;risultatisti&rdquo; non svilupperebbero le risorse interne di un club, cercando invece dispendiose scorciatoie per provare a vincere.&nbsp;  Per dirla con Sacchi: &laquo;l&rsquo;Atletico ha elementi di qualit&agrave; ma anzich&eacute; comprare i giocatori, e spendere tanti soldi, avrebbe dovuto acquistare il gioco&raquo;. Tralasciando il fatto che lo stesso tecnico romagnolo non avrebbe mai potuto segnare un&rsquo;importante rottura nel calcio europeo, secondo molti un&rsquo;autentica rivoluzione, senza gli straordinari interpreti avuti al Milan, il punto &egrave; un altro: messa cos&igrave;, con l&rsquo;esaltazione di Guardiola e la condanna senz&rsquo;appello di Simeone, sembra che il primo sia un manager capace di valorizzare e far progredire un club, in un &ldquo;percorso&rdquo; oltre che vincente anche sostenibile; il secondo invece un rappresentante di uno stile che &laquo;non d&agrave; gioia neanche quando vinci&raquo;, per cui &laquo;non si raggiunge mai il successo con merito, ma sempre con furbizia&raquo; (parola di Sacchi), costretto in ultima istanza a demandare al mercato i sogni di gloria e la costruzione di una squadra vincente.   Insomma, da un lato un costruttore che ha un progetto di crescita per il club, dall&rsquo;altro un dispersore che mette pressione alla propriet&agrave; per assicurarsi i pezzi pregiati sul mercato, puntando solo al traguardo e non al cammino &ndash; come se l&rsquo;Atletico, nell&rsquo;ultimo decennio, non fosse diventato un &ldquo;top club&rdquo; grazie a Simeone.    Il bel gioco del Manchester City (a caro prezzo)  Ma andando oltre la narrazione e le inclinazioni personali, sono le cifre che fanno fede: da quando &egrave; arrivato Guardiola (2016) il City ha investito sul mercato oltre 1 miliardo di euro, con entrate pari a circa 400 milioni (dati Transfermarkt), per un passivo che recita -652 milioni; quello dell&rsquo;Atletico, negli stessi sei anni e sempre nella bilancia tra acquisti e cessioni, segna -35 milioni. Ci&ograve; significa non solo che sul mercato trasferimenti Simeone costa alla propriet&agrave; dell&rsquo;Atletico Madrid circa un ventesimo di quanto Guardiola pesi su quella del City, ma anche che il Manchester City, dopo lo United (-670 milioni dal 2016 al 2022), ha il peggior passivo sul mercato trasferimenti del pianeta &ndash; ben pi&ugrave; pesante addirittura di quello del PSG, che nello stesso periodo si &ldquo;ferma&rdquo; a circa -455 milioni.&nbsp;  Questo per dire cosa? Forse per avanzare una critica a Guardiola? Assolutamente no, tutt&rsquo;altro, solo per dimostrare che le idee, in particolar modo ad alti livelli, da sole non bastano; e che il &ldquo;bel gioco&rdquo;, se si vuole puntare ai trofei pi&ugrave; prestigiosi, non paga senza gli investimenti sul mercato. Basterebbe tornare all&rsquo;economia &ndash; quasi marxianamente, per una volta &ndash; per andare oltre l&rsquo;ideologia e capire su cosa si fondino veramente i rapporti di forza: non sulla teoria degli stili di gioco, pi&ugrave; o meno belli e buoni, ma innanzitutto sulla pratica dei buoni giocatori.     Poi sia chiaro, gli allenatori hanno un ruolo cruciale nella costruzione di una squadra, ma anche qui ci sono modi alternativi per colmare il gap tecnico con gli avversari: c&rsquo;&egrave; chi ricorre a un calcio offensivo e propositivo, come il Napoli di Sarri, autore del record di punti in Serie A, o l&rsquo;Ajax di ten Hag, che ha creato e valorizzato un&rsquo;identit&agrave; tecnica e tattica. Ma c&rsquo;&egrave; anche chi ribalta le gerarchie con uno stile di gioco pi&ugrave; &ldquo;speculativo&rdquo;: dal Lille di Galtier, che ha conquistato la Ligue 1 in Francia con la migliore difesa d&rsquo;Europa, allo stesso Atletico Madrid, che con il suo stile ha vinto due Liga, due Europa League e ha raggiunto due finali di Champions; dal Villarreal, che ha trionfato in Europa League e avanza in Champions con un atteggiamento &ldquo;reattivo&rdquo;, allo stesso Leicester di Claudio Ranieri, che ha scritto la pi&ugrave; grande favola del calcio contemporaneo affidandosi, soprattutto negli ultimi mesi, a un italianissimo catenaccio e contropiede.&nbsp;  E anche volendo prendere i risultati in Champions, nell&rsquo;ultimo decennio hanno vinto sostanzialmente sempre le squadre pi&ugrave; forti, non quelle che giocavano meglio: 4 volte il Real Madrid (una con Ancelotti e tre con Zidane, non certo due talebani del gioco propositivo), 2 volte il Bayern (di Heynckes e di Flick, entrambi tedeschi tradizionali), una volta il Barcellona del tridente Messi, Neymar, Suarez, un&rsquo;altra il Liverpool di Klopp e cos&igrave; via, fino all&rsquo;anno scorso in cui Guardiola si scontr&ograve; con il muro blu del Chelsea, ottimamente messo in campo da Tuchel; il tutto con intrusi &ldquo;difensivisti&rdquo; a contendersi in pi&ugrave; occasioni la vittoria finale, come la Juventus di Allegri e l&rsquo;Atletico del Cholo (due volte a testa).&nbsp;  &nbsp;  Il calcio non &egrave; una scienza esatta  Insomma al di l&agrave; delle etichette &ndash; che lasciano il tempo che trovano, e che stroncano la discussione sul nascere &ndash; il problema &egrave; che si &egrave; voluta trasformare una discussione di stili in un&rsquo;equazione matematica dall&rsquo;unico procedimento possibile. Ma per quanto in molti se lo augurino, il calcio non &egrave; una scienza esatta; con buona pace di Nagelsmann ad esempio, allenatore del Bayern Monaco, che pochi mesi fa si augurava di poter telecomandare i giocatori con degli auricolari come nel football americano, e che poi &egrave; stato eliminato da quel vecchio volpone di Emery con la preistorica strategia della difesa e del contropiede.     Poi sicuramente le vittorie si possono preparare, facilitare, costruire: certo con gli stili di gioco, che tuttavia devono restare mezzi e non fini, ma anche in tanti altri modi, primo su tutti l&rsquo;acquisto sul mercato dei giocatori migliori e l&rsquo;ingaggio degli allenatori pi&ugrave; bravi. Ci&ograve; nonostante, una stagione calcistica non &egrave; mai il business plan di un&rsquo;azienda: in agguato c&rsquo;&egrave; sempre il mazzo degli imprevisti per citare Allegri (ambientali, psicologici, fisici, pratici), che si possono ridurre ma mai eliminare del tutto. Per questo il pallone non potr&agrave; mai identificarsi con un calcolo, un algoritmo o una proiezione, per quanto accurati possano essere: per questo e perch&eacute; banalmente, nel calcio, alla fine vince uno solo.&nbsp;  L&rsquo;unica legge, quella del risultato. Lo ha ripetuto anche Guardiola, che gi&agrave; da tempo ha rinnegato il tiki-taka e ormai non ne pu&ograve; pi&ugrave; di essere Guardiola: il profeta, il teorico, il rivoluzionario, il personaggio; l&rsquo;intellettuale che pensa talmente tanto a tattiche e schemi da andare in &ldquo;over-thinking&rdquo;, come dicono in Inghilterra. Eccolo invece che torna all&rsquo;essenziale, sfilandosi da un dibattito che ha perso la misura: &laquo;Chi vince ha ragione, stop&raquo;. Altro che il maestro Bielsa, lui s&igrave; davvero icona &ldquo;giochista&rdquo;, secondo il quale &laquo;dovrebbe esserci una punizione per chi ignora la bellezza del gioco per ottenere la vittoria. Noi non dobbiamo offrire solo i risultati, ma anche il calcio come elemento estetico&raquo;. Bei propositi, certo, ma ci sar&agrave; un motivo per cui Bielsa ha vinto solo tre campionati argentini e un oro olimpico in oltre 30 anni di carriera da allenatore.  Insomma, che il City in Europa sia pronto per vincere sul campo (e non fuori) lo si &egrave; visto anche dal secondo tempo di Madrid, nel quale gli uomini di Guardiola si sono difesi nella propria met&agrave; campo come fossero dei Colchoneros qualsiasi. Perch&eacute; il procedimento cambia e ogni squadra ha il suo &ndash; le migliori ne hanno anche diversi, che alternano durante la stagione e la fasi della partita &ndash;, ma &egrave; il risultato a rimanere sempre quello, per tutti. Il solo&nbsp;dogma, primo e unico comandamento del pallone,&nbsp;malgrado le crociate monoteiste di chi vorebbe imporre un solo modo per raggiungerlo: quello della vittoria.&nbsp;  A cura di:&nbsp;    &nbsp; 

Per andare oltre l&#39;ideologia delle opposte fazioni: risultatisti vs giochisti

Guardiola, il Manchester City e l&#39;equivoco del bel gioco

        Questa sera andr&agrave; in scena allo Stadio do Dragao di Porto la finale della competizione per club pi&ugrave; importante del mondo: la Champions League. L&rsquo;ultimo atto della stagione, che rappresenta uno scontro inedito per quanto riguarda l&rsquo;assegnazione della coppa delle grandi orecchie, vedr&agrave; contrapporsi Manchester City e Chelsea. La sfida, sebbene sia un grande classico del calcio d&rsquo;Oltremanica, non ha mai assegnato un titolo cos&igrave; importante, almeno se parliamo del piano meramente calcistico. Perch&eacute; per quanto possa sembrare assurdo, City-Chelsea negli anni &rsquo;90 voleva dire Oasis vs Blur.&nbsp; Il Britpop e gli anni &lsquo;90  Siamo nell&rsquo;ultima decade del XX secolo. Da sempre, o almeno dai favolosi &rsquo;60 con i Beatles, la terra d&rsquo;Albione ha giganteggiato a livello mondiale per quanto riguarda successi musicali, band e classifiche. Ora per&ograve; la scena Grunge americana, capitanata dai Nirvana, minaccia di eclissare la musica britannica, almeno fino al 1994, quando i Blur catturano l&rsquo;attenzione del pubblico con l&rsquo;album Parklife e gli Oasis esordiscono con Definitely Maybe. Spinti anche probabilmente dai media, i fratelli Gallagher, soprattutto nella persona di Liam, accendono una forte rivalit&agrave; con il frontman dei Blur, Damon Albarn. In palio c&rsquo;&egrave; la supremazia musicale in Inghilterra ma non solo. Oasis contro Blur vuol dire nord contro sud, proletari contro borghesi, provincialotti contro figli di pap&agrave; londinesi, ma soprattutto vuol dire Manchester City contro Chelsea. I fratelli Gallagher sono infatti grandi fan degli Sky Blues, mentre Albarn tifa Chelsea fin da bambino. Citizens contro Blues  In quegli anni le due squadre non sono neanche lontanamente paragonabili a quelle di oggi. Qualsiasi tifoso dei Citizens e dei Blues non immaginerebbe neanche nei suoi sogni pi&ugrave; fantasiosi di poter giocare una finale di Champions League. Il Manchester City vive molto probabilmente la fase pi&ugrave; buia di una storia che, a parte pochissimi successi, non ha mai brillato. Il Chelsea dal canto suo vede la luce in fondo al tunnel: non vince un trofeo dal 1971, ma grazie a Ken Bates e Ruud Gullit sta iniziando un processo di rinnovamento importante. Lo scontro musicale e non solo  Siamo nel 1995. Ogni suddito di Sua Maest&agrave; attende con trepidazione i nuovi album di entrambe le band, previsti per l&rsquo;autunno.&nbsp;Quell&rsquo;estate erano gi&agrave; programmati due singoli, Damon Albarn decide cos&igrave; di spostare l&rsquo;uscita del suo Country House lo stesso giorno di Roll With It degli Oasis. &Egrave; il 14 agosto del 1995. In primavera, ad un evento organizzato dall&rsquo;etichetta dei fratelli Gallagher, Liam prende a parolacce il frontman dei Blur umiliandolo pubblicamente. Da l&igrave; in avanti &egrave; guerra, le due band vanno avanti a sfidarsi a vicenda, sia per il titolo di miglior band del pop britannico, sia con le vendite dei dischi e i concerti. Alla lunga non c&rsquo;&egrave; mai stato un vero e proprio vincitore, gli Oasis sono diventati dei giganti a livello internazionale, i Blur si sono allontanati dal Britpop, esplorando nuovi stili mentre Albarn si &egrave; gettato nel progetto Gorillaz. Quello che &egrave; sicuro &egrave; che, a differenza della rivalit&agrave; musicale, tra Manchester City e Chelsea questa sera ci sar&agrave; solamente un vincitore.&nbsp;       

La finale di Champions League rispolvera la vecchia rivalit&agrave; tra i fratelli Gallagher e Damon Albarn

Manchester City-Chelsea, negli anni ’90 era Oasis vs Blur

Cosa sono quattro milioni e mezzo di euro per il Manchester City e i suoi proprietari? Niente. E meno di niente se rapportati alla possibilit&agrave; di essere esclusi dalla prossima Champions League per violazioni (fra le tante) del fair play finanziario. Per&ograve; sono i soldi della Coppa del Mondo che la FIFA ha distribuito ai club ed il Manchester City &egrave; quello che pi&ugrave; di tutti ne ha beneficiato.  Infatti la federazione mondiale presieduta da Gianni Infantino ha da poco reso nota la distribuzione dei proventi del Mondiale, per la parte relativa all&rsquo;utilizzo dei giocatori da parte della varie nazionali: in totale l&rsquo;equivalente di 185 milioni di euro, praticamente il triplo di quanto fu dato per Brasile 2014, in piena era Blatter (sembra un millennio fa). In sostanza il Club Benefits Programme ha distribuito soldi a 416 club di 63 federazioni diverse, con i paesi della UEFA ovviamente a dominare: dei 185 milioni circa 138 sono andati a squadre della vecchia Europa, con Premier League e Liga a dominare: 42 milioni per i club inglesi, 25 per quelli spagnoli.  Risparmiamo la pioggia di cifre, ma segnaliamo per&ograve; un dato interessante: tutta la Conmebol (cio&egrave; il Sudamerica) messa insieme ha ricevuto 10 milioni di euro, poco pi&ugrave; del doppio del solo Manchester City e circa la met&agrave; della AFC, cio&egrave; dell&rsquo;Asia, e qualcosa meno della CONCACAF. Traduzione: ci sono paesi asiatici (Cina, Giappone e quelli arabi) che hanno club pi&ugrave; ricchi di quelli, magari pi&ugrave; prestigiosi, del Sudamerica. Al netto di tutte le polemiche e delle questioni di ordine pubblico, il livello dei singoli in campo nel recente Boca-River era imbarazzante.  Ma quali sono i criteri di distribuzione? Nella sostanza solo uno: si sono moltiplicati i giorni di impiego (anche delle riserve) per il numero dei giorni di competizione e poi si &egrave; ripartito tutto per club di appartenenza. Dietro al Manchester City sono quindi finiti Real Madrid, Tottenham, Barcellona, PSG, Chelsea, Manchester United, Atletico Madrid, Juventus e Monaco. Nomi che che avremmo potuto fare anche senza fare calcoli, va detto, mentre meno intuitivi sono alcuni di quelli di chi ha incassato almeno un milione: dal Copenhagen all&rsquo;Ajax, dal Pachuca all&rsquo;Anderlecht. La facile previsione &egrave; che la FIFA aumenter&agrave; dal 2022 questa quota per i club, per prevenire idee (al momento inesistenti) di secessione e soprattutto per invogliarli a seguirli nelle nuove competizioni nella testa di Infantino.&nbsp; 

La distribuzione dei proventi di Russia 2018 ha premiato il club campione d&#39;Inghilterra, attualmente nel mirino della UEFA per violazione del fair play finanziario. Certo quattro milioni e mezzo di euro per il metro della Champions sono niente...

Il mondo del Manchester City

Il Manchester City &egrave; diventato il secondo club inglese per fatturato, avendo annunciato di avere superato il confine dei 500 milioni di sterline annui, cio&egrave; circa 560 milioni di euro. Un risultato che arriva a dieci anni dalla grande svolta nella storia del City, cio&egrave; l&rsquo;arrivo della propriet&agrave; e dei soldi da Abu Dhabi, quelli che negli anni Settanta venivano definiti petrodollari. All&rsquo;epoca quella che tuttora viene percepita come la seconda squadra di Manchester, nonostante sia campione d&rsquo;Inghilterra e senz&rsquo;altro pi&ugrave; favorita per la Champions League di quanto lo sia lo United, era il settimo club della Premier League per incassi, dietro a United, Chelsea, Arsenal, Liverpool, Tottenham e Newcastle, con l&rsquo;equivalente di 90 milioni di euro a stagione: in altre parole la sua cilindrata era un sesto di quella attuale, senza entrare in discorsi sportivi che ovviamente premiano il City di Mancini, Pellegrini e Guardiola.  Interessante &egrave; anche che questo gigantismo produca profitti, la scorsa stagione l&rsquo;ha fatto per la quarta volta di fila (sia pure per relative briciole) e che in definitiva, qui volevamo arrivare, tutto sia stato attivato non da una congiunzione astrale n&eacute; tantomeno dal fair play finanziario UEFA (che esiste dal 2011) ma dal fatto che per quattro o cinque anni i nuovi proprietari abbiano pompato nel City soldi praticamente illimitati cambiandone sia il valore tecnico che lo status politico e commerciale. Da Robinho, primo acquisto dell&rsquo;attuale gestione, in avanti &egrave; stato tutto un susseguirsi di arrivi che letti tutti insieme danno l&rsquo;idea delle risorse ma non del progetto tecnico: Kompany, Wright-Phillips, Zabaleta, Given, Bridge, Bellamy, De Jong, Barry, Santa Cruz, Tevez, Adebayor, Kolo Tour&eacute;, Lescott, Jerome Boateng, Yaya Tour&eacute;, Balotelli, David Silva, Kolarov, Dzeko, Milner, Clichy, Aguero, Savic, Nasri, Fernandinho, Jovetic, Sterling, Otamendi, De Bruyne, Gundogan, San&eacute;, Gabriel Jesus, Stones, Bernardo Silva, Ederson, Walker, Danilo, Mendy, Laporte fino ad arrivare ai 70 milioni spesi per Mahrez e citando soltanto giocatori almeno decenti, non i tanti scarsi strapagati che sono passati da Maine Road negli ultimi anni.  Tanti errori, tante cose giuste, ma alla fine chi mette i soldi riesce a cambiare la sua storia. E adesso nel mondo incassano pi&ugrave; soldi soltanto United, Bayern e le due grandi di Spagna, messi tutti gi&agrave; nel mirino essendo il City pi&ugrave; deciso dei concorrenti nel suo piano di colonizzazione: della galassia calcistica dello sciuecco Mansour fanno parte anche il New York City, gli Yokohama Marinos, il Girona e il Melbourne City. Certo il Manchester City ha una sua buona storia anche prima dell&#39;arrivo dei soldi arabi, ma nel 1998 era in Second Division (Serie C) e per trovare un massimo campionato vinto bisogna tornare indietro fino al 1968. Come se nel 2008 Abu Dhabi avesse scelto la Fiorentina. 

In dieci anni di spese quasi senza limiti da parte della propriet&agrave; di Abu Dhabi il club ha sestuplicato il suo fatturato ed &egrave; diventato il secondo inglese come cilindrata, dietro soltanto allo United...

La svolta del Manchester City

La squadra di Pep Guardiola in trionfo per la conquista del titolo in Premier League

 La festa del Manchester City

Alla panchina numero 100 in Champions League&nbsp;il tecnico catalano subisce il primo ko stagionale. Contro lo Shakhtar termina 2-1: Bernard e Ismaily nella prima frazione, accorcia Aguero su rigore

Guardiola, 100 senza lode

La buona prova del Napoli in Champions League sul campo del Manchester City, reagendo ad un inizio tragico che avrebbe condotto quasi chiunque altro verso una imbarcata, &egrave; stata segnata anche da statistiche interessanti. Ad un certo punto del primo tempo, infatti, i tiri totali effettuati dalla squadra di Guardiola verso la porta di Reina erano la bellezza di 10, quelli del Napoli zero. E il dato finale: 16 a 8 per il Manchester City (7 a 4, considerando solo quelli nello specchio della porta, statistiche UEFA), dice tutto della reazione di Insigne e compagni. Il calcio non si pu&ograve; ridurre ai numeri, perch&eacute; l&#39;importanza del singolo episodio non &egrave; paragonabile a quella di un canestro e di un punto nella pallavolo o nel tennis, ma i numeri possono spesso dare una patina di oggettivit&agrave; ai giudizi, per non dire ai pregiudizi. Cos&igrave; utilizziamo anche l&#39;analisi del CIES che si riferisce ai campionati nazionali di quasi tutta Europa, comprese alcune seconde divisioni, con almeno 8 turni gi&agrave; disputati, escludendo quelli di livello troppo basso. Ebbene, nessuna squadra in Europa &egrave; pericolosa quanto il Napoli, che nella nostra serie A tira nello specchio della porta avversaria 8,9 volte a partita. Pi&ugrave; dell&#39;Ajax (8,5) secondo in Eredivisie, pi&ugrave; dello stesso Manchester City (8,0) capolista in Premier League e di tutte le grandi del continente, oltre che di chi &egrave; meno grande ma si trova di fronte difese pi&ugrave; scarse di quelle italiane. La Juventus, sedicesima in Europa, in Italia tira 6,8 volte a partita nello specchio della porta, la Lazio ventunesima 6,6, il Milan ventitreesimo 6,4, l&#39;Inter trentaseiesima 6,1, la Roma non &egrave; nemmeno nei primi cento. Come si nota, non sono statistiche che corrispondono esattamente ai punti in classifica, ma soltanto indicatori di qualit&agrave; dell&#39;attacco da integrare con quelli riguardanti la fase difensiva. A pensare male, vedendo tante italiane messe cos&igrave; bene in graduatoria (nelle prime 40 ce ne sono 7, da non dimenticare il Bari venticinquesimo, da paragonare a 4 inglesi e 3 olandesi), tanti luoghi comuni sulle difese allegre dovrebbero essere aggiornati. 

Quando il Napoli tira pi&ugrave; del City

La squadra di Sarri battuta 4-2 dal Manchester City in Champions: non bastano i gol di Insigne e Jorginho su rigore, Guardiola fa festa con Otamendi, Stones, Aguero e Sterling

Il Napoli va ko ma esce fra gli applausi

Le emozioni di Manchester City-Monaco saranno ricordate per molti anni, cos&igrave; come gli errori difensivi (pi&ugrave; individuali che di squadra) che insieme ad un'intensit&agrave; rara hanno portato al 5-3 per gli uomini di Guardiola, in un Etihad Stadium giustamente impazzito perch&eacute; in notti cos&igrave; l'importante &egrave; esserci. Un po' calcio antico, con un 4-1-4-1 pieno di citazioni, un po' il calcio playstation che la UEFA e i grandi club vogliono proporre in un continente in cui i ragazzi crescono in un contesto diverso rispetto anche soltanto a vent'anni fa. Di certo &egrave; stata una delle notti europee pi&ugrave; grandi nella storia del City, che pure ha un passato internazionale rispettabile: dalle storiche Coppe delle Coppe di inizio anni Settanta (vittoria nel 1970 e semifinale nel 1971 con la memorabile squadra allenata da Joe Mercer, che nel 1967-68 aveva anche vinto il massimo campionato allora chiamato First Division) a discrete partecipazioni in coppa UEFA-Europa League fino alla dimensione Champions nell'epoca degli sceicchi iniziata con qualche fallimento e culminata con le tiratissime semifinali dell'anno scorso contro il Real Madrid poi campione. Chiaramente Guardiola &egrave; stato ingaggiato non soltanto per vincere, cosa che dipende da tanti fattori e che in ogni caso anche altri allenatori sanno fare, ma per collocare il Manchester City nella storia che conta, che non &egrave; fatta solo di vittorie ma anche di partite che tutti citano a distanza di decenni. Collocare non gratis, ovviamente, visto che nella sola stagione in corso il rosso di mercato &egrave; stato di quasi 200 milioni di euro (per pi&ugrave; della met&agrave; dovuti a un difensore normale come Stones e a un buon talento come San&eacute;, senza contare Gabriel Jesus, Gundogan, eccetera), ma in un modo che dovrebbe essere duraturo e cambiare per sempre lo status di un club che a parit&agrave; di soldi ancora fino a poche stagioni fa veniva rifiutato da giocatori al top.

Il nuovo status del Manchester City

Quasi tutti gli allenatori, anche quelli nel giro dei grandi club, sono giudicati in base alle vittorie. Nelle poche realt&agrave; con una dirigenza illuminata i risultati vengono, nella migliore delle ipotesi, messi in relazione al valore della propria rosa e di quelle avversarie. Ma Pep Guardiola &egrave; l'unico che oltre alle vittorie, che nel suo curriculum peraltro sono abbondanti, vende un'idea e in definitiva se stesso: un pacchetto completo per chi &egrave; schiavo del mito del 'progetto'. E cos&igrave; partono gli ooohhh di meraviglia per il Bayern a cinque punte, quando soltanto Lewandowski fa l'attaccante mentre gli altri (Robben, M&uuml;ller, Douglas Costa e Coman) a turno fanno i centrocampisti: quando poi Lahm e Alaba spingono molto, siamo in zona Metodo (anni Venti e Trenta). Ma al di l&agrave; dello spirito di sacrificio degli ex attaccanti del Bayern, rimane il fascino indiscutibile di Guardiola.&nbsp;Per questo &egrave; l'unico fra i grandi della panchina a poter essere annunciato con sei mesi di anticipo sul suo insediamento: accadde cos&igrave; per il Bayern Monaco nel 2013, a met&agrave; del suo anno sabbatico a New York, &egrave; accaduto cos&igrave; per il Manchester City che ha deciso di salutare Pellegrini nonostante sia in piena corsa per tutti gli obbiettivi, dal campionato (con tutti rispetto per Ranieri, avanti di due punti) a quella Champions League dove il City non ha mai esattamente brillato. Le cifre, al netto della tassazione inglese 15 milioni di euro a stagione fino al 2019 quando magari esister&agrave; la nazionale della Catalogna, fanno impressione a noi ma non certo al Mansour della situazione. Il cuore del discorso &egrave; un altro: perch&eacute; allenatori con lo stesso grado di competenza ed esperienza vengono giudicati da progetto ed altri invece da tenere sul filo del risultato? Esempi italiani: da risultato sono considerati mediaticamente, ma anche dai loro dirigenti e non solo nel club attuale, Allegri, Mihajlovic, Pioli e Donadoni, mentre da progetto a medio-lungo termine sono considerati Sarri, Mancini, Spalletti e Paulo&nbsp;Sousa. Ci sono pro e contro in entrambe le etichettature: se sei da risultato ti cacciano per un tiro che va sul palo invece che in gol (tre mesi fa si parlava tranquillamente di Allegri al capolinea, reo di non valorizzare Dybala...), se sei da progetto raggiungere gli obbiettivi stagionali (Mancini avrebbe in estate firmato per essere in corsa per la Champions a febbraio) non serve se manca l'estetica. Pellegrini &egrave; poi un caso curioso: &egrave; stato considerato uno da progetto fino all'anno al Real, poi &egrave; diventato un vecchio (adesso ha quasi 63 anni) mestierante. Certo essere da progetto conviene un po' di pi&ugrave; che non esserlo: la giacca e la sciarpa giuste, qualche parola motivazionale e nella peggiore delle ipotesi potrai sempre rivendere il progetto alla prossima squadra.  Twitter @StefanoOlivari

Guardiola-Manchester City e la convenienza del progetto

In pochi, nei sorteggi di fine agosto, avrebbero previsto la qualificazione agli ottavi con un turno d'anticipo, la possibilit&agrave; di giocarsi il primo posto in un girone del genere e la doppia vittoria nel confronto con il Manchester City. Il lavoro da fare &egrave; ancora tanto, soprattutto se il rischio &egrave; quello di crogiolarsi in campionato. &Egrave; la vittoria di Allegri? S&igrave;, e di chi senn&ograve;? Il 3-5-2 sembra essere l'habitat naturale con gli interpreti che ha a disposizione, pazienza se questo vuol dire limitare l'impiego di Cuadrado e alleluia se questo vuol notificare il definitivo addio all'idea di trequartista tanto rincorsa da inizio stagione. Difesa, in fase di non possesso, che oscilla tra i 5 e i 4 uomini, con Lichtsteiner che spesso e volentieri resta pi&ugrave; alto e con Barzagli maggiormente defilato sull'out di destra.  Le prime parole d'elogio non possono non andare a Buffon: decisivo, nel finale di primo tempo, sul tentativo di Aguero - mai in partita - e nella ripresa sul colpo di testa di Fernando, a conferma del clamoroso errore della FIFA che lo ha tagliato dalla corsa al Pallone d'Oro. Cresce - e benissimo - anche Alex Sandro, che offre ancora pi&ugrave; spunti rispetto a quanto fatto vedere dopo l'ingresso in campo nella sfida di campionato contro il Milan. Sempre propositivo - &egrave; gi&agrave; al terzo assist consecutivo - e impeccabile in fase difensiva, con 11 palloni recuperati e 7 duelli su 10 risolti a proprio favore. Se &egrave; vero che il cavallo buono si vede a lunga corsa, la Juventus potr&agrave; dire di aver trovato la migliore delle soluzioni per la fascia sinistra, con Evra pronto a diventare il gregario di lusso dispensatore di saggi consigli.  Pogba indossa finalmente e per tutti i 90 minuti la maglia numero 6. Gioca con la giusta attitudine, essendo cosciente delle qualit&agrave; che in poco tempo lo hanno eletto ai vertici del centrocampo europeo - disgraziatamente o fortunatamente per la Juventus sotto gli occhi di Raiola, ma ci&ograve; dipende dai punti di vista - e non si lascia andare a nessun tipo di leziosismo fine a se stesso. La rete di Mandzukic nasce proprio dalla progressione del francese che apre sulla sinistra verso Alex Sandro: cross, Otamendi (45 milioni!) spazzato via con un soffio e tocco del croato. La soluzione pi&ugrave; semplice per rivelarsi alla porta avversaria, che male c'&egrave;?  C'&egrave; un aspetto, per&ograve;, che necessita di ulteriori approfondimenti da parte di Allegri ed &egrave; la gestione del possesso palla, al di l&agrave; dei tanti errori tecnici dei singoli che, ringraziando la buona sorte, non hanno incontrato l'opportuna dose di veemenza dei giocatori di Pellegrini. Bisognerebbe sempre partire dal presupposto che devono essere gli altri ad aver paura di te, altrimenti si rimane schiacciati.  @damorirne

I progressi della Juventus nella notte europea

La conquista dei tre punti non &egrave; l'unico dovere della Juventus di Massimiliano Allegri. Stasera, nella quinta di Champions contro il City, serve anche altro. Non le si chiede una sfilata in pieno stile catalano - impensabile per chiunque -, ma per lo meno una proiezione di un'idea di gioco tangibile, che latita - a dispetto degli ultimi risultati utili - da un bel po'. O forse sarebbe meglio dire dallo scorso anno, con qualche sporadica eccezione nella stagione in corso come accaduto in occasione della rimonta sul Bologna, che ha visto non a caso il debutto in campionato del fragilissimo Khedira.  Far bene avendo davanti Aguero, Yaya Tour&eacute; o De Bruyne significherebbe spingere sull'acceleratore della fiducia, compiere un ulteriore passo in avanti e maturare quella consapevolezza che pu&ograve; portare undici individualit&agrave; a formare un gruppo (sotto il profilo del gioco), senza dare adito ai leziosismi dei singoli, che magari riescono a risolvere la partita - provocando sorrisi nel breve termine - ma non la stagione. Un discorso che pu&ograve; andare a genio se visto in ottica campionato, dove l'interesse primario - almeno per il momento - &egrave; quello di rosicchiare pi&ugrave; punti possibili prima della sosta di Natale a chi si trova in vetta, ma non in Champions perch&eacute; l'Europa &egrave; quel torneo che alla fine dei conti premia - al di l&agrave; di alcuni episodi fortunosi - il collettivo. Vedi l'ultimo Barcellona, il Real Madrid di Ancelotti (uno dei migliori, se non il migliore nel gestire le tante prime donne a disposizione) o le quasi vittorie di Atletico e Borussia, fantastiche realt&agrave; di quella teoria secondo la quale l'uno &egrave; parte del disegno complessivo, senza mai sovrastarlo.  L'assenza di Hernanes - ci dispiace dirlo - non &egrave; che un incentivo a quello che si sta tentando di far passare. Mai d'aiuto, perennemente spaesato e neanche una volta decisivo sul suo pezzo forte, il calcio piazzato. Altrettanto sbattere ancora la testa sul modulo e sugli uomini da utilizzare a poche ore da un impegno cos&igrave; importante, anche se vogliamo credere che in realt&agrave; Allegri un'idea chiara ce l'abbia. Se la perplessit&agrave; riguarda il fatto di far giocare uno tra Mandzukic e Dybala, sorvolando sul cambio di abito, &egrave; bene che si riconosca il lavoro svolto nelle ultime giornate. Oltre a ritenere l'argentino uno degli uomini pi&ugrave; in forma - gi&agrave; questo non dovrebbe lasciare molto spazio a una sua presunta titolarit&agrave; -, bisogna porre l'accento - e qui ritorniamo all'ossatura della motivazione - sulla capacit&agrave; dell'ex palermitano nel liberare dal nulla una soluzione miracolosa, circostanza che lo distanzia nettamente dal compagno di reparto.  @damorirne

Juventus, le idee valgono pi&ugrave; dei tre punti

La naturale transizione di una squadra che ha cambiato moltissimi interpreti ripulisce l'entusiasmo del tifoso medio, che spesso si trova a fischiarla e senza sapere il perch&eacute;. Hanno ragione Buffon e Bonucci quando affermano che la Juventus ora come non mai sente il bisogno di avere qualcuno dalla sua parte. I social network, forieri di banalit&agrave;, esprimono per voce di alcuni utenti il sacrosanto diritto di criticare - giustamente - i propri beniamini quando la situazione lo richiede. Un po' meno sacrosanta la motivazione, che nel 99% dei casi va a sbattere contro il muro dello stipendio del singolo giocatore, paragonandolo a quello di lavori ben pi&ugrave; modesti. Se dovessimo ragionare cos&igrave;, potremmo chiudere la baracca e smettere di seguire buona parte degli sport, calcio compreso. &Egrave; innegabile l'inizio stagionale al singhiozzo di Allegri - un solo punto in tre partite per un club che viene da quattro titoli consecutivi e da una finale di Champions che mancava da pi&ugrave; di 10 anni -, &egrave; innegabile il fatto che con Hernanes ci si trovi davanti a una soluzione affrettata e di ripiego, &egrave; innegabile fare i conti con il vuoto (chiss&agrave; se verr&agrave; colmato) lasciato da Tevez. Non da Vidal n&eacute; da Pirlo, perch&eacute; chi cambiava il corso delle partite - macch&eacute; cambiava, le faceva tutte sue - era l'argentino. D'altra parte bisogna pure valutare il non fortunatissimo momento che si sta vivendo in infermeria, vedi il nuovo stop a Marchisio al quale deve necessariamente essere affibbiata - giustificato l'addio di quello che adesso a tutti gli effetti ne &egrave; diventato il compagno di reparto, anche se negli States - la nomea di giocatore pi&ugrave; importante per il gioco della Juve nel travagliato anno post triplete sfiorato. Anche se intristisce un po' fare questo tipo di discorsi e trovare a tutti i costi una giustificazione alla panchina corta in un ruolo vitale come quello ricoperto dal Principino, soprattutto quando noti che la dirigenza ha sperperato il tempo necessario per far s&igrave; che Padoin non giostrasse in regia per due partite di fila. In un momento del genere la sfida di Champions contro il City, contrariamente all'opinione comune da calendario, potrebbe rappresentare la migliore delle cure per una squadra che di certo malata non &egrave;, ha solo qualche linea di febbre dovuta al rapido cambiamento che la sta scuotendo dal triplice fischio di Berlino. Ottenere una buona prestazione nella trasferta di Manchester, se arriva il risultato positivo tanto meglio, significherebbe far acquisire ai nuovi giovani maggiore consapevolezza delle proprie forze. Sanno di avere della qualit&agrave; importanti, ora per&ograve; &egrave; arrivato il momento di metterle in mostra. Contro chi fa pi&ugrave; paura.  @damorirne

Juve, la sfida contro il City arriva nel momento migliore

ARSENAL: &Egrave; cambiato solo il portiere nell&rsquo;undici titolare dei Gunners. Al posto del polacco Szczesny, passato alla Roma, alla corte di Wenger &egrave; arrivato Petr Cech. In uscita si registra l&rsquo;addio del francese Abou Diaby, dopo nove stagioni a Londra: svincolato, si &egrave; accasato al Marsiglia. Sarebbe servita una punta, ma alla fine non &egrave; arrivata. VOTO: 6  ATL&Eacute;TICO MADRID: Hanno cambiato pelle i Colchoneros di Diego Simeone, che hanno incassato un centinaio di milioni dalle cessioni e altrettanti ne hanno spesi per rinforzarsi. Partiti Miranda (Inter), Mandzukic (Juventus), Arda Turan (Barcellona), Alderweireld (Tottenham), Suarez (Fiorentina), Raul Garcia (Athletic Bilbao) e Jimenez (Benfica), sono arrivati Filipe Luis (dal Chelsea, si tratta ovviamente di un ritorno), Carrasco (dal Monaco), Oliver Torres (dal Porto), Savic (dalla Fiorentina), Vietto (dal Villarreal), Mensah (dal Vitoria Guimar&atilde;es), Kranevitter (dal River), e soprattutto &egrave; approdato al Vicente Calder&oacute;n quel Jackson Martinez inseguito da diversi club europei. &Egrave; lui il principale colpo dell&rsquo;estate biancorossa. Con Griezmann potr&agrave; formare una bella coppia d&rsquo;attacco. VOTO: 7  BARCELLONA: se ne sono andati Xavi, Pedro e Montoya, tre prodotti della cantera. Nel frattempo non &egrave; potuto arrivare nessuno, perch&eacute; il mercato del Bar&ccedil;a &egrave; bloccato fino a gennaio, ma dalla prossima finestra di mercato entreranno in rosa Aleix Vidal, uno dei migliori terzini delle ultime stagioni, e Arda Turan. Costi: 18 milioni il primo, prelevato dal Siviglia, 34 il secondo, preso dall&rsquo;Atl&eacute;tico Madrid. VOTO: 6,5  BAYERN MONACO: i bavaresi hanno speso 81 milioni in questa sessione, ingaggiando dalla Juventus il cileno Arturo Vidal e il francese Kingsley Coman (7), dallo Stoccarda il centrocampista ventenne Joshua Kimmich (7) e dallo Shakhtar Donetsk il brasiliano Douglas Costa (37). Tra le cessioni invece, sono da registrare quella di Dante al Wolfsburg e soprattutto quella clamorosa di Bastian Schweinsteiger, che lascia il club nel quale entr&ograve; nel 2001 per passare al Manchester United. Certo &egrave; che se un tempo il Bayern aveva una forte identit&agrave; tedesca, con Guardiola questa &egrave; stata archiviata per lasciar spazio a un&rsquo;anima sempre pi&ugrave; latina. VOTO: 7,5  CHELSEA: Il volto nuovo dei campioni d&rsquo;Inghilterra &egrave; sicuramente Pedro, soffiato in extremis al Manchester United. L&rsquo;ex Barcellona - costato 21 milioni di sterline - trova posto nel tridente alle spalle della punta, assieme a Willian e Hazard. Altro esborso economico notevole &egrave; quello riguardante il difensore ghanese Baba, preso dai tedeschi dell&rsquo;Augsburg per 14 milioni di sterline. Tra i trasferimenti in uscita, rientrano Filipe Luis, tornato all&rsquo;Atl&eacute;tico Madrid, e Petr Cech, che ha lasciato il sud-ovest londinese per trasferirsi nella parte nord-est della citt&agrave;, ai rivali dell&rsquo;Arsenal. Si &egrave; svincolata l'icona ivoriana Didier Drogba, andato a giocare in Canada. VOTO: 6,5  LIVERPOOL: parte il dopo-Gerrard in casa dei Reds. Il team di Brendan Rodgers ha speso parecchio in questo mercato per cercare di colmare il gap con le grandi. Liberatosi della zavorra-Balotelli, il Liverpool si &egrave; rifatto il look in attacco, puntando sul brasiliano Firmino, costato 21 milioni di sterline dall&rsquo;Hoffenheim e sul belga Benteke, pagato 32 milioni dall&rsquo;Aston Villa. Nuovo terzino destro, l&rsquo;inglese Clyne, prelevato dal Southampton. A centrocampo &egrave; arrivato James Milner: ottimo colpo, soprattutto se consideriamo l'ingaggio a parametro zero. Notevoli anche gli incassi: le cessioni di Lambert, Coates, Aspas, Borini e soprattutto Sterling, hanno permesso di ridurre il saldo negativo tra entrate e uscite. VOTO: 7  MANCHESTER CITY: duecento, dicasi duecento, milioni di euro spesi. L&rsquo;estate del Manchester City non &egrave; stata di certo priva di movimenti. La rosa del tecnico Pellegrini si &egrave; arricchita di due giocatori d&rsquo;attacco di indiscutibile valore, come la stellina De Bruyne, pagata la bellezza di 74 milioni ai tedeschi del Wolfsburg e l&rsquo;inglese Raheem Sterling, per il quale i Citizens hanno sborsato 68 milioni nelle casse del Liverpool. Ventiquattro anni il primo, ventuno il secondo: colpi destinati a durare negli anni. Poi c&rsquo;&egrave; l&rsquo;arrivo di Nicolas Otamendi dal Valencia: per assicurarsi il difensore argentino, Al Mubarak ha tirato fuori altri 28 milioni. La caccia al titolo &egrave; aperta, cos&igrave; come quella alla Champions, dove il City non ha mai recitato da protagonista. VOTO: 8  MANCHESTER UTD: l&rsquo;ultimo giorno di mercato aveva visto lo scambio di portieri tra i Red Devils e il Real Madrid: De Gea stava lasciando l&rsquo;Old Trafford per il Bernabeu con il costaricano Keylor Navas che avrebbe dovuto il percorso inverso. Poi &egrave; saltato tutto in extremis e gli estremi difensori sono rimasti nei rispettivi club. &Egrave; stata un&rsquo;estate che ha visto un grande via-vai dalle parti di Van Gaal. Fuori Van Persie, Di Maria e Rafael, e dentro Depay, Schweinsteiger, Darmian e Schneiderlin. E in extremis, ecco il colpo-Martial, ottanta milioni versati nelle casse del Monaco all&rsquo;ultimo giorno di mercato: non male per un attaccante di diciannove anni. Il francesino diventa l&rsquo;under 20 pi&ugrave; pagato della storia.. VOTO: 7,5  PARIS SG: alla fine Ibrahimovic &egrave; rimasto e al suo fianco nella formazione titolare dei parigini non avr&agrave; solo il vecchio compagno Cavani, ma anche il nuovo acquisto Angel Di Maria, costato 63 milioni di euro e divenuto il giocatore pi&ugrave; pagato nella storia, se si sommano tutti i suoi trasferimenti. Tra gli altri affari, si segnalano i due francesi Kurzawa e Stambouli, provenienti rispettivamente da Monaco e Tottenham (23 milioni per il difensore, 9 per il centrocampista). Brutte notizie per il &ldquo;nostro&rdquo; Sirigu: la concorrenza in porta &egrave; aumentata con l&rsquo;arrivo del tedesco Trapp dall&rsquo;Eintracht Francoforte. Tra le cessioni, l&rsquo;unica che ha permesso di fare cassa &egrave; quella di Cabaye, venduto al Crystal Palace per 14 milioni di euro. VOTO: 7,5  REAL MADRID: delle grandi squadre straniere, il Real &egrave; l&rsquo;unica che inizia la stagione con un nuovo tecnico. In sella a una delle panchine pi&ugrave; calde d&rsquo;Europa c&rsquo;&egrave; ora Rafa Benitez. Per una volta, i Blancos non investono dalla trequarti in avanti, ma rafforzano difesa e centrocampo. Sulla terza linea &egrave; arrivato Danilo: il terzino destro si &egrave; trasferito al Bernabeu per 32 milioni di euro. La stessa cifra per cui &egrave; arrivato dall&rsquo;Inter il croato Mateo Kovacic. Oltre a Danilo, dal Porto proviene anche il centrocampista Casemiro, gi&agrave; nella capitale spagnola dal 2012 al 2014. Per prenderlo, il Real Madrid ha esercitato la clausola di controriscatto. Diversi volti lasciano la Casa Blanca: come detto Casillas se ne va al Porto, Khedira si trasferisce alla Juve, Illarramendi alla Real Sociedad, Coentr&atilde;o in prestito al Monaco, Lucas Silva in prestito al Marsiglia. Via anche Hernandez per fine prestito: il messicano &egrave; tornato per un lampo al Manchester United, per poi trasferirsi al Bayer Leverkusen. VOTO: 6  Giovanni Del Bianco @g_delbianco

Calciomercato estero, ecco come cambiano le big d'Europa

A due settimane dall&rsquo;inizio del campionato, la Roma trova il suo bomber. Un attaccante centrale forte fisicamente, di caratura internazionale e&nbsp;che garantisce un certo numero di gol, i capitolini non lo avevano pi&ugrave; avuto dai tempi di Gabriel Omar Batistuta. Edin Dzeko, la punta bosniaca inseguita a lungo e finalmente prelevata dal Manchester City (operazione da diciotto milioni di euro), sblocca, assieme a Salah, l&rsquo;immobilismo sul mercato della Lupa, che con questo doppio colpo rilancia le proprie ambizioni da scudetto. Il bosniaco sar&agrave; il nuovo riferimento dell&rsquo;attacco, facendo retrocedere nelle gerarchie una pietra miliare come Francesco Totti. Attaccanti completamente diversi, per carit&agrave;. Uomo d&rsquo;area il primo, a tutto campo il secondo, con compiti di aprire gli spazi ai compagni. Ma per la prima volta nella storia recente del club, il capitano non &egrave; pi&ugrave; la stella polare. Quello che &egrave; arrivato a Roma ieri, accolto da 4000 tifosi che hanno festosamente invaso l&rsquo;aeroporto di Fiumicino, &egrave; un colpo che ravviva la squadra e che va ad inserirsi tra i grandi acquisti di questo mercato spumeggiante, che ha portato in Italia tanti campioni, da Kondogbia a Jovetic, da Khedira a Mandzukic, da Bacca a Miranda. Le statistiche dell&rsquo;ariete bosniaco (&egrave; alto 1.93, il secondo attaccante pi&ugrave; alto della storia della Roma, dopo il norvegese John Carew) sono confortanti: tolta l&rsquo;ultima opaca stagione, dove ha segnato appena quattro reti, Dzeko &egrave; uno abituato ad andare in doppia cifra. Lo ha fatto per tre volte negli anni di Manchester e per tre volte in Bundesliga, ai tempi del Wolfsburg, vincendo una volta (nel 2010) la classifica marcatori del campionato tedesco. Ed &egrave; anche uno abituato a ottenere certi risultati, avendo conquistato il titolo sia in Germania (2009: fu il miracoloso titolo vinto dal Wolfsburg di Magath), sia in Inghilterra con la maglia dei Citizens (2012 e 2014). Anche nella nazionale bosniaca, di cui &egrave; il leader assieme al suo nuovo compagno di club Miralem Pjanic, ha una media gol da leccarsi i baffi, con 42 reti in 72 presenze. Con Milan e Inter rinforzate e con la Juventus sempre avanti a tutti nonostante l&rsquo;addio di alcuni giocatore-chiave, la Roma era obbligata a battere un colpo per partire tra le prime scuderie della griglia di partenza. Con Salah e Dzeko ne ha battuti addirittura due.  Giovanni Del Bianco @g_delbianco 

Dzeko, il primo bomber straniero della Roma dai tempi di Batistuta

Il passaggio di Wilfred Bony dallo Swansea al Manchester City &egrave; costato 28 milioni di sterline (circa 36,5 milioni di euro), diventando cos&igrave; il trasferimento pi&ugrave; costoso per un calciatore africano (superando le 24 milioni di sterline spese dal Chelsea per prendere Essien, dal Manchester City per prendere Yaya Tour&eacute; e ancora dal Chelsea per accaparrarsi Drogba) L&rsquo;ascesa di Bony negli ultimi due anni &egrave; stata impressionante: nel 2012-13, quando militava nel Vitesse, si laure&ograve; capocannoniere del campionato olandese, con trentuno reti segnate in trenta partite (e un totale di 51 gol in 69 gare). Numeri che impressionarono i dirigenti dello Swansea, che sborsarono nelle casse del club giallonero dodici milioni di pounds, cifra record per il club gallese di Premier League.  Sul fiume Tawe, Bony si &egrave; confermato come attaccante di livello, segnando diciassette reti alla sua prima stagione in Premier, arrivando dietro a Luis Suarez, Daniel Sturridge e al connazionale Yaya Tour&eacute;. Tutta gente di diversa classifica rispetto a quella dello Swansea. E come se non bastasse, segn&ograve; pure cinque gol (in undici presenze) in Europa League, alla prima partecipazione in campo europeo dello Swansea (ma non erano le prime partite e i primi gol per Bony, che gi&agrave; si fece valere in campo internazionale ai tempi dello Sparta Praga, club in cui milit&ograve; prima di approdare al Vitesse).  A fine anno, vol&ograve; in Brasile con la Costa d&rsquo;Avorio per prendere parte al Mondiale: la nazionale di Lamouchi prevedeva per&ograve; il modulo a una sola punta, venendo abitualmente schierata con il 4-2-3-1. Motivo per cui si pensava a un ruolo di riserva per Bony, essendo la casella dell&rsquo;attaccante gi&agrave; prenotata da un mostro sacro come Didier Drogba. E invece, nelle prime due uscite degli Elefanti, a sorpresa fu Bony ad essere schierato titolare e Drogba destinato a subentrargli a match in corso. Al debutto al Mondiale, Bony segn&ograve; una rete contro il Giappone, dando il via alla rimonta degli africani sulla squadra di Zaccheroni. Un gol che gli &egrave; valsa la conferma nel match con la Colombia, perso per 2-1. Alla terza giornata, contro la Grecia, Lamouchi prefer&igrave; invece puntare sull&rsquo;esperienza di Drogba e Bony part&igrave; dalla panchina, per poi entrare in campo a inizio ripresa al posto di Tiot&eacute;. In quel match, la Costa d&rsquo;Avorio venne rispedita a casa con un gol incassato su rigore a tempo scaduto, ma Bony riusc&igrave; a mettere a segno il suo secondo sigillo personale.  Ed eccoci alla stagione in corso: Wilfried &egrave; ormai una certezza e continua a buttarla dentro con costanza: sono gi&agrave; nove le reti segnate con lo Swansea nel primo scorcio di stagione. Il Manchester City era alla ricerca di un attaccante per completare il reparto, e ha puntato sul ventiseienne ivoriano, che potr&agrave; calcare per la prima volta il suolo dell&rsquo;Etihad dopo la Coppa d&rsquo;Africa, che prender&agrave; il via sabato. Insieme a Yaya Tour&eacute;, Bony sar&agrave; chiamato a prendersi sulle spalle la prima Costa d&rsquo;Avorio del dopo-Drogba.  Giovanni Del Bianco

Wilfried Bony, il trasferimento-record e l&rsquo;eredit&agrave; di Drogba

L'eliminazione della Roma dalla Champions League porter&agrave; lo scudetto: lo scriviamo subito cos&igrave; prendiamo qualche click aggratis (sempre meglio che farlo con il piccolo Loris) e diamo ragione a illustri colleghi che sostengono che il giornalismo non debba informare, ma dare emozioni. Superare la Juventus in Italia &egrave; possibile, l'uscita dalla competizione pi&ugrave; importante del calcio mondiale &egrave; invece sicura. Anche se non disonorevole: chi &egrave; campione della mitica Bundesliga e della mitica Premier League non lo &egrave; per caso. Certo &egrave; che per come era iniziato il girone questa &egrave; per la Roma una delusione enorme, oltre che un danno finanziario da minimo 15 milioni di euro.  Non si pu&ograve; nemmeno accusare Rudi Garcia di avere sbagliato tattica, puntando allo zero a zero e subendo troppo il Manchester City. Anzi, la formazione era a connotazione offensiva, pur zavorrata dal peggior Totti degli ultimi tempi. Fino al gol di Nasri, quindi all'ora di gioco, i giallorossi non avevano certo dominato ma avevano avuto un superiore possesso palla (per andare agli ottavi bastava un pareggio senza gol) e anche le migliori situazioni per segnare (Holebas, Gervinho, Pjanic, contro Milner). Poi l'incertezza di Keita e quella di De Sanctis, unite alla prodezza del francese, hanno fatto girare tutto. Pensare che De Rossi avrebbe potuto dare chiss&agrave; cosa, dopo l'ultima settimana di intercettazioni pubblicate, &egrave; possibile soltanto al bar. &Egrave; il calcio, inutile farci troppi ragionamenti attorno, mentre &egrave; utile confrontare la qualit&agrave; media (parlando proprio di figurine) delle due rose visto che il City non ha certo impressionato come qualit&agrave; di gioco.  Quella del City &egrave; s&igrave; di livello superiore, ma &egrave; stata costruita negli anni con indebitamento, prestiti di soci, sponsorizzazioni amiche se non tarocche. La multa UEFA di 20 milioni di euro, in omaggio al fair play finanziario, &egrave; poco pi&ugrave; di un buffetto per un club come quello dei Mansour, che nella scorsa stagione ha superato i 440 milioni di euro di fatturato. E che adesso ha attivato un meccanismo per cui con una buona gestione ordinaria i conti dovrebbero tornare in equilibrio. Cosa vogliamo dire? Che il fair play finanziario cristallizza i rapporti di forza esistenti, impedendo a realt&agrave; modeste (quale era il City nel 2008) anche soltanto di sognare. Non che Pallotta abbia intenzione di mettere nel prossimo calciomercato 200 milioni del suo patrimonio personale, ma il punto &egrave; che non lo potrebbe in ogni caso fare. Quelli che nella realt&agrave; italiana sono considerati i grandi club con tifo non geograficamente determinato (i soliti tre, insomma), sono diventati tali non per la loro naturale simpatia ma perch&eacute; i loro proprietari nel corso dei decenni li hanno riempiti di campioni in spregio a qualsiasi logica economica.  Il City sta facendo questo dal 2008, cio&egrave; da quando l'ex primo ministro thailandese &nbsp;(non dovremmo stupirci...) Shinawatra vendette all'Abu Dhabi United Group. Le operazioni strampalate sono state nel tempo messe meglio a fuoco e cos&igrave; prima Hughes, poi Mancini e spoprattutto Pellegrini si sono trovati a disposizione uno squadrone. Parlando di chi &egrave; sceso in campo all'Olimpico: Zabaleta &egrave; l&igrave; dal 2008, David Silva, Kolarov e Milner dal 2010, Clichy, Nasri e Dzeko dal 2011, Demichelis, Fernandinho, Jesus Navas e Jovetic dal 2013, Mangala e Fernando dal 2014. Solo Hart ha frequentato il City in un'era pre-sceicchi... Senza contare agli assenti Aguero (2011), Yaya Tour&eacute; (2010), Kompany (2008), eccetera. Per il salto di qualit&agrave; internazionale bisogna spendere tanti soldi e per tanti anni di seguito, anche se progetti intelligenti come quello dell'Atletico Madrid (che da quest'anno &egrave; tornato a condurre un mercato in rosso, ma con i soldi Champions in mano) sono sempre possibili.  Twitter @StefanoOlivari

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