6 giugno 1978: a Mar del Plata, la Nazionale di Enzo Bearzot sta giocando la seconda partita di un mondiale che, contro tutte le aspettative, gli azzurri disputeranno in maniera eccellente, ponendo le basi del successo che riusciranno a maturare quattro anni più tardi in Spagna. Quando, intorno al quarto d’ora della ripresa, Romeo Benetti colpisce al limite dell’area di rigore un pallone vagante all’indietro dopo un contrasto tra attaccanti e difensori, si è intorno all’ora di cena. Con quel tiro di collo pieno, appena tagliato per consentire al pallone di avere un minimo effetto in grado di escludere l’intervento del portiere Meszaros, l’Italia si porta sul 3-0 contro l’Ungheria e festeggia il passaggio alla seconda fase del torneo. Importava poco che i magiari avrebbero accorciato le distanze venti minuti più tardi e che si sarebbe ancora dovuto giocare contro l’Argentina quattro giorni dopo. Con quella vittoria c’era la certezza matematica di passare il turno: chi ci avrebbe scommesso dopo la brutta prestazione offerta da Zoff e compagni una ventina di giorni prima in amichevole a Roma contro la Jugoslavia, quando i nostri eroi nazionali uscirono dall’Olimpico sommersi dai fischi di un grigissimo 0-0? Quel gol di Benetti regalava la certezza di un risultato insperato ed esentava gli italiani, almeno per quella sera, dall’ascolto delle notizie del telegiornale, che neanche un mese prima aveva dovuto raccontare l’assassinio di Aldo Moro. Gli anni di piombo gravavano nell’aria e quel 3-1 sull’Ungheria rappresentò una boccata d’ossigeno per chi desiderava sottrarsi a quella cappa di insostenibilità. In diverse città le strade all’imbrunire si colorarono di qualche tricolore sventolato dalle macchine che strombazzavano di gioia. Ci voleva la forza di un giocatore come Benetti che sconfiggere, almeno per qualche ora, la pesantezza cinerea di quel decennio gonfio di lotte politiche, di contrasti sociali e di violenza.
Centrocampista di esperienza
Al suo secondo mondiale (il primo lo aveva giocato in Germania nel 1974) il centrocampista azzurro ci era arrivato ormai maturo. Erano passati quasi trentatré anni da quando, ultimo di otto fratelli, era venuto al mondo insieme alla gemella Giulietta ad Albaredo d’Adige. Un’età considerevole, in quel tempo, per i calciatori, che all’epoca non godevano dei benefici che, in seguito, le varie scienze avrebbero portato alla loro categoria. Il suo invidiabile stato di efficienza lo doveva a madre natura, che gli aveva regalato una struttura possente (73 chili distribuiti su 175 centimetri), e a un carattere che aveva forgiato già in gioventù. I ragazzi della Primavera della Roma, che portò a vincere un Viareggio nel 1983 e uno scudetto nel 1984, raccontavano che il loro mister si alzava la mattina alle cinque (anche d’inverno) per tagliare la legna in canottiera. A ventitré anni, dopo aver fatto la gavetta tra Bolzano, Siena, Taranto e Palermo, era approdato alla Juventus ancora convinto che, di mestiere, avrebbe fatto il maestro tipografo. Fu a Torino che capì che quello sport sarebbe stato il suo lavoro.
Numero dieci al mundial e con la Juve
In Argentina era ormai un maestro del centrocampo: giocava con il numero dieci, quello che indossava alla Juventus, per la casualità dovuta al cognome. In Nazionale, infatti, le maglie venivano assegnate per ordine alfabetico e di reparto: Romeo veniva dopo il blocco dei difensori e Antognoni, che nelle partite che non si disputavano al mondiale era il titolare di quel numero, mentre a lui spettava il quattro. Quisquilie da appassionati di statistiche: in campo Benetti sapeva essere insuperabile a contrasto e capace di costruire gioco, scegliere la posizione giusta e tirare dalla distanza. Un duro dai piedi buoni, magari non raffinati ma capaci di portarlo a realizzare 48 gol in serie A. Uno di quelli che a farci un tackle incuteva timore ma che a calcio ci sapeva giocare.
Non a caso, nella Juventus di Causio e Bettega, la maglia con il dieci la portava lui, elemento di equilibrio in un centrocampo dove a Furino toccava il lavoro più sporco, a Tardelli pungenti incursioni offensive e la grinta non mancava a nessuno. Bizzarro il suo rapporto con i bianconeri: quando, nel 1976, alla vigilia di una stagione storica, tornò a Torino, il ricordo della sua prima esperienza nei pressi della Mole non risultava tra i migliori. Era arrivato nel 1968 dopo una buona stagione disputata a Palermo, in una società che non era ancora quella di Boniperti. Una squadra nella quale, a suo dire, “c’erano senatori senza ambizioni, giovani acerbi, dirigenti oramai scarichi e un allenatore (Heriberto Herrera, nda) spesso nervoso, perché capiva di aver fatto il suo tempo”. L’anno dopo approda alla Sampdoria, dove scopre le bellezze della riviera ligure e trova il modo di farsi apprezzare da Rocco, che quando lo vede uscire vincitore da reiterati contrasti con Trapattoni, Cudicini e Schnellinger, chiede ai dirigenti del Milan di acquistarlo.
Il Romeo rossonero
Il Romeo rossonero riempie le cronache della prima metà degli anni Settanta: il Paròn, arretrandogli la posizione in campo, lo spinge ad essere lo scudiero di Rivera, abatino con poca attitudine alla battaglia. Nei sei anni a Milano, oltre a vincere due Coppe Italia (1971-72 e 1972-73) e una Coppa delle Coppe (1972-73), conosce anche l’amarezza delle sconfitte: sono le finali di Coppa delle Coppe e di Supercoppa Uefa del 1973-74 e la finale di Coppa Italia del 1974-75, oltre ai secondi posti in campionato per ben tre stagioni consecutive, l’ultima delle quali (1972-73) si conclude con la Fatal Verona. Ma è in quegli anni che diventa un elemento stabile della Nazionale, capace di navigare dal post Messico 70 agli Europei del 1980 nei quali, nella finale per il terzo posto, gioca la sua ultima partita in azzurro realizzando uno dei rigori che non serviranno ad evitare all’Italia la sconfitta che la relega al quarto posto.
Tramonto in giallorosso
A trentacinque anni Benetti ha ancora davanti una stagione da professionista, la seconda con la maglia della Roma. A Trigoria è arrivato dopo aver deposto le armi in bianconero, dove ha giocato tre stagioni da protagonista nelle quali ha ulteriormente arricchito il suo palmares con due scudetti (1976-77 e 1977-78), una Coppa Italia (1978-79) e la prima Coppa Uefa della Vecchia Signora (1976-77). Ai giallorossi garantisce il suo contributo di esperienza nei primi due successi dell’era Viola (Coppa Italia 1979-80 e 1980-81) prima di diventare allenatore della Primavera. I tempi, però, stanno cambiando: sponsor, diritti televisivi e maglie di design accompagnano Romeo Benetti nell’iconografia di un calcio diventato demodé ma impossibile da dimenticare.