Venuto alla luce a Gorizia il 10 ottobre di ottant'anni fa, potremmo dire germogliato in quelle lande contadine dove il Friuli è Italia ancora per poco, nelle sue rughe d'espressione c'è la miniatura di un confine frastagliato, di identità segmentate dalla Storia che rimescola le carte. Nelle sue poche parole c'è sempre stata, invece, la concretezza di un tracciato di generazioni contadine, abituate a contendere la sopravvivenza alle gelate improvvise che vanificavano i raccolti. Come in un'ultima giornata di campionato che fino all'ultimo non sai in quale categoria ti farà abitare la stagione seguente.
Il calcio concreto di Edy Reja
Edoardo Reja, divenuto Edy da quando iniziò a navigare di cabotaggio il calcio italiano, era un giocatore arcigno, di quelli che s'attaccavano come mastice all'avversario, tra improperi e colpi proibiti. Tanto mestiere e un cumulo d'esperienza: quella che avrebbe messo a frutto diventando allenatore; anche in quell'ambito, poche parole tagliate con l'accetta, concretezza a pacchi, il buon senso di chi ha spesso risolto problemi, pur senza chiamarsi Wolf. Categorie minori, terra che mangia l'erba e fango che tradisce i tacchetti. La sua parabola in panchina è una lunga marcia, edificata sulla grande muraglia di un calcio concreto, cadenzata da promozioni conquistate con squadre che spesso non partivano con l'ambizione di salire di categoria. A Lecce, a Brescia come a Vicenza, ha sempre lasciato il segno di chi bonifica paludi d'incertezza seminando cultura del lavoro. Iniziarono a chiamarlo il “traghettatore”, l’uomo a cui appellarsi nei momenti critici, innanzitutto perché non si presentava promettendo miracoli, ma una restituzione di autostima per squadre che con lui al timone ricominciavano a credere in loro stesse.
Reja e la svolta a Napoli
Da uomo del nord più ruvido e frontaliero, visse la sua svolta sotto il Vesuvio. Prese in mano un Napoli relegato in C1; Maradona era ormai soltanto il volto su una bandiera, sindone pagana di anni che si pensavano irripetibili. Edy il friulano, con il suo gioco accorto ma non rinunciatario, abbinato a una franchezza motivazionale, fu in grado di pilotare la scalata fino alla massima serie. Per i napoletani il suo accento, così distante, divenne un sottofondo d'appartenenza, da onorare col controcanto della gratitudine, mai trascorsa.
Reja e gli anni alla Lazio
Altro giro, altrettanta riconoscenza alla Lazio, dove quando Reja arrivò l'unica certezza era l'incertezza data dal caos e dalla mancanza di risultati. Ripristinò disciplina e decoro delle prestazioni, rendendo possibile il percorso che avrebbe portato alla dignità delle ambizioni. Ricostruì un gruppo, meritando anche dalla Curva Nord quel tipo di riconoscenza che si deve ai padri burberi ma esemplari. Un vero friulano sa che il suo destino non può non contemplare la possibilità di emigrare, anche perché un po' forestiero lo è sempre stato a casa sua, con un confine distante un affaccio di finestra.
Reja, il maestro schivo
Voluto sulla panchina della nazionale albanese da una federazione bisognosa di maestri, Reja divenne quasi un patriarca. Nella sua Albania trasfuse cultura sportiva, organizzazione, realismo nel fissare gli obiettivi, concretezza nel perseguirli. Distante dalle luce dei riflettori come profilo comunicativo, nel giorno del suo compleanno celebriamo i meriti e i metodi di un uomo che durante il lunghissimo viaggio nel nostro calcio, con stazioni di posta vicine o lontanissime da casa sua, ha sempre messo le esigenze del gruppo davanti alle proprie: così fanno i veri maestri, in particolare quelli schivi come Edy Reja, che si schermisce ogni volta che viene definito così.