«Guardo le partite, ma con meno interesse e passione rispetto a prima. Devo ammettere che il calcio di oggi mi piace meno. Non mi riconosco molto nelle società e nei giocatori di oggi». Sergio Petrelli, campione d’Italia con la Lazio di Maestrelli, uno degli esterni più forti nei primi anni Settanta, capace di interpretare in modo moderno il ruolo di terzino, spingendosi in attacco con continuità, è rimasto deluso dall’evoluzione del calcio moderno. «Oggi sembra davvero un altro mondo. Quando leggo le formazioni delle squadre principali e vedo che ci sono due o tre italiani massimo in squadra, non mi piace. Oggi un giocatore è una piccola azienda: arriva in un club, giusto il tempo di vedere se c’è qualcuno che gli offre di più. Ai nostri tempi era diverso».
In cosa il vostro calcio era all’opposto rispetto a quello attuale?
«In ogni squadra c’erano dei leader importanti, davvero legati a quei club. Gente che, se un giorno ti presentavi in ritardo all’allenamento, ti attaccava al muro e ti faceva pesare la cosa. Oggi è tutto diverso».
Petrelli, il suo nome rimarrà per sempre legato a quello della Lazio, ma anche a Verona ha lasciato il segno.
«A Roma ho vinto, costruito qualcosa di indimenticabile. Ho fatto parte di un gruppo straordinario, che mi ha fatto crescere e che si rispecchiava perfettamente in quella che era la mia identità. Non me lo dimenticherò mai. Ma anche a Verona sono stato bene, ho trascorso anni importanti, ho conquistato una promozione in serie A e costruito dei rapporti di amicizia molto solidi con tanti compagni. Ancora oggi ci sentiamo per gli auguri di Natale e in altre occasioni».
Cosa ricorda della sua esperienza al Verona?
«Una bella squadra, guidata da un signore come Nils Liedholm in panchina. Sono stati anni molto intensi. Il Verona mi ha permesso di crescere e di arrivare in serie A».
Dopo il Verona, il passaggio alla Roma, prima dell’approdo alla Lazio...
«Oggi è più semplice passare dalla Roma alla Lazio e viceversa. Guardate Pedro. In quegli anni mica era tanto facile, io sono stato uno dei primi. Ma ho fatto benissimo: alla Lazio ho trovato un altro mondo e un ambiente che si sposava perfettamente con me».
Cosa non è andato alla Roma?
«Non ho avuto un buon rapporto con il tecnico Herrera. Era un capoccione (ride, ndr). Una volta venne da me poco prima di entrare in campo e mi disse di togliermi la maglia, perché l’avrebbe data a un altro. Io pensavo scherzasse, ma lui era inflessibile e con il suo tono forte di voce, mi disse di spogliarmi. Non ci ho visto più, ho preso e gliel’ho tirata addosso. Pochi secondi dopo me la ridiede e mi disse che era uno scherzo. Ma io ancora oggi non ci credo. Forse fu sorpreso dalla mia reazione».
Come si concretizzò il passaggio alla Lazio?
«La Roma mi pagò una cifra importante, circa 400 milioni, ma a fine stagione il presidente Marchini mi disse che volevano offrirmi uno stipendio più basso. Ne nacque una discussione e lui fu perentorio, mi disse: “Io ti ho creato e io ti distruggo”. Io gli risposi che i suoi soldi poteva tenerseli. Andai all’Hotel Gallia dove si faceva il mercato, insieme agli altri calciatori senza contratto, e cercai una soluzione. A un certo punto incontrai Maestrelli, che mi chiese cosa ci facessi lì. Io gli dissi che avevo rotto con la Roma. E lui mi propose di venire alla Lazio».
Ricorda cosa le disse di preciso?
«Certo. “Sergio, noi non siamo una squadra di fenomeni, ma siamo una buona squadra e alla Lazio ti divertirai”. Ho accettato subito. Ed è stata la scelta migliore. Ho trovato un ambiente eccezionale, con compagni molto più adatti al mio stile di vita. Ci siamo divertiti tanto».
Lei è sempre stato considerato il “pistolero” del gruppo.
«Ma le pistole le avevano tutti. E non solo nel nostro spogliatoio. In quegli anno vivere a Roma non era facile. La sera se uscivi con la moglie o con gli amici, non sapevi mai chi potevi incontrare e a cosa andavi incontro. Soprattutto noi calciatori. Con le pistole ci sentivamo più protetti».
Lei faceva parte dello spogliatoio di Chinaglia e Wilson o di quello di Re Cecconi e Martini?
«Io non mi schierai mai: andavo d’accordo con tutti e due i gruppi. Anzi, spesso cercavo di fare da paciere. Di risolvere le liti. Maestrelli mi ha sempre riconosciuto questo ruolo. E guarda che non era mica semplice: c’erano certi caratteri forti. Nelle partite di allenamento ci azzuffavamo. Ma poi alla domenica, guai a chi toccava uno di noi. Eravamo un blocco unito. Granitico».
A proposito di Lazio-Verona. La sfida dell’Olimpico del 14 aprile 1974 resterà per sempre nella storia.
«Eravamo sotto a fine primo tempo e non siamo andati per niente negli spogliatoi. Li abbiamo aspettati in campo. Il pubblico all’inizio non capiva, poi si è reso conto di quello che stava per accadere. I miei ex compagni del Verona, quando ci hanno visto, mi hanno detto: “Ma voi siete tutti matti”. Abbiamo iniziato la ripresa a mille all’ora e abbiamo ribaltato il risultato».
Il suo rapporto con Maestrelli?
«Maestrelli è stato l’allenatore che mi ha cambiato la vita. Gli bastava un’occhiata per farti abbassare le penne. Io sono sempre stato un giocatore dal carattere fumantino, ma a lui non mi sono mai permesso di dire nulla. Una delle persone migliori che ho incontrato nella mia vita».
Ha detto che il calcio di oggi non l’appassiona. Ma la Lazio continua a seguirla?
«Sì, certo, ma non vedo tutte le partite. Mi piaceva molto Baroni, che aveva guidato anche il Verona: una persona che non amava apparire, ma che era pronta a fare un passo indietro e a mettere i giocatori davanti a tutto. Mi piace anche Sarri, un allenatore che ha sempre fatto giocare bene le sue squadre».