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Socrates, Zico, Falcao: ciao ciao Brasile

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Tre storie diverse, tre dolori diversi. Tre modi differenti di sentirsi traditi

La saudade, ormai lo sanno tutti, in lingua portoghese è quel sentimento di nostalgia e malinconia che prova chi ha perso qualcosa e nel ricordo la magnifica. Da Aristoteles nell'Allenatore nel pallone a Eneas, che nel Bologna 1980-81 soffriva il freddo a tal punto da provare un “blocco allo stomaco” al pensiero della neve, i brasiliani in Italia sono spesso stati accompagnati dal sospetto che alla prima difficoltà sarebbero voluti rientrare in patria. Dal romanista Renato Portaluppi al pistoiese Luís Sílvio – pare schierato centravanti e non nel suo ruolo di ala destra per un errore di traduzione – negli anni Ottanta i bidoni dal Brasile sono un topos, ma quando nell'estate 1985 se ne vanno tutti insieme tre quarti del famigerato Quadrato magico verdeoro, il motivo della partenza non è certo un deficit di natura tecnica. Con l'eterno Cerezo, rimasto in Italia con baffoni e sorriso dal 1983 al 1992, la A 1984-85 può farsi vanto pure di Socrates, Zico e Falcao, ma di colpo li perde tutti. Tre storie diverse, tre dolori diversi. Tre modi differenti di sentirsi traditi.

Socrates, "il dottore" passato dalla Fiorentina

Socrates è disillusione. La Fiorentina l'ha strappato al Corinthians nel giugno 1984 pagandolo per quel che valeva: tanto. Cinque miliardi alla società – compreso il quindici percento della somma spettante al giocatore secondo le leggi brasiliane dell'epoca – uno e tre all'anno per tre stagioni al “Dottore”. Più una villa sulla collina di Fiesole, due automobili, diciotto biglietti aerei ogni anno per tornare in Brasile, la scuola per i quattro figli e un corso di specializzazione in medicina generale.

I tifosi viola sognano in grande, ma Socrates a trent'anni, con il vizio del fumo e del bere, sembra non aver più grande voglia di mettersi in gioco in un calcio nuovo. Tra i suoi interessi ci sono lo studio, la medicina, la politica: “Sono qui per leggere Gramsci in lingua originale e studiare la storia del movimento operaio” dichiara all'arrivo. La Fiorentina? Poi ci pensiamo. Il calcio italiano, con le sue asprezze, le manie, la pressione in campo e fuori, sembra quasi una scocciatura. La flemma che in Brasile consentiva comunque a Socrates di creare magie con un semplice colpo di tacco, in Italia lo fa apparire lento e svogliato e la viola, con lo spogliatoio in guerra, finisce disgraziatamente nona. La sua partenza è salutata con il cinismo becero di chi disprezza una cosa bella solo perché non è stato capace di farla funzionare, lo chiamano “Traccheggia”, mentre Socrates chiosa con l'onestà che l'ha sempre contraddistinto: “Penso che mai e poi mai si sarebbe potuto vedere il Socrates del Brasile. Troppo diverso questo calcio per me”.

Falcao, "il Divino" che fece sognare Roma

Quello di Falcao è il racconto di un tradimento. Reciproco, forse. E finisce a carte bollate. Quel rigore non tirato nella finale di Champions contro il Liverpool pesa su tutta la sua avventura giallorossa. L'eroe dell'anno santo romanista, il 1983, guastato da un'assenza la stagione seguente: “Non capisco la polemica. Con il Liverpool non riuscivo a camminare per il dolore al ginocchio, ma se anche fossi stato bene, Liedholm mi avrebbe fatto tirare il quinto rigore per scaramanzia. Ma al quinto rigore non arrivammo, purtroppo” si è giustificato qualche anno fa al CorSport.

La sua annata 1984-85 è un calvario, cominciato con l'infortunio nel derby dell'11 novembre. Si opera negli Stati Uniti e colleziona appena quattro apparizioni. A giugno rientra in Italia e la Roma lo convoca per una visita fiscale, ma “il divino” sceglie di partire per le vacanze. Il presidente Viola infuriato lo licenzia: “Il senatore mi preoccupa, ogni anno combina qualcosa di spiacevole” lo irride a mezzo stampa il procuratore di Falcao, tal Cristoforo Colombo. Uno che l'ha chiamato pure “terrorista del calcio”. Se ne occupa il Tribunale sportivo e Falcao è certo di vincere ed essere reintegrato, ma i giudici danno ragione alla Roma che di lui (e del suo maxi ingaggio) non vuole più saperne. Lo descrivono con un ginocchio a pezzi, ma la Fiorentina lo vuole comunque per sostituire Socrates. Il dottore lo dissuade: “Nella squadra c'è un clima infernale, avrai tutti contro”. Si fanno vive pure Juve e addirittura l'Avellino, ma alla fine “il divino” torna in Brasile da mamma Azize: “Ha sofferto troppo” lo giustifica lei. Il saluto di Eriksson è glaciale: “Meglio i giocatori nordici”.

Zico, "O Galinho" e l'Udinese

Infine, Zico e l'Udinese: il brusco risveglio da un sogno a occhi aperti. Il suo arrivo in Friuli è paragonabile a quando il tizio bruttino, abituato a fare tappezzeria, riesce a passare la serata con la più bella della festa. Alla fine si scopre sempre o quasi che lei aveva bevuto troppo. Dopo un primo anno da Zico – con ventiquattro gol e magie assortite – ne segue un secondo da umano. Pur coi piedi di Zico: “Al Flamengo eravamo una delle migliori squadre del mondo e sono caduto all'Udinese. Là tutto il peso ricadeva sulle mie spalle” si sfoga al Corriere nel giugno 1985, quando la breve epoca d'oro delle Zebrette è già arrivata al capolinea.

Il Tribunale di Udine, altri giudici a cui forse il calcio bailado non piace, lo condanna per questioni valutarie, così pure il Galinho ritorna dov'era stato felice, al Flamengo. Per un terzo di quanto era stato pagato due anni prima: “Il freddo, la mancata lotta per lo scudetto, le marcature asfissianti, il processo, la condanna. Quanto ho sofferto!” si lagna. Tornano a casa, eroi feriti. Tornano a casa per quell'amore viscerale che hanno i brasiliani per un calcio dal ritmo più compassato ma punteggiato di magie tecniche e prodigi assortiti. Si può capirli. La A cadrà in mano a un dittatore argentino in maglia azzurra, poi di un ossessivo fusignanese che indossa sempre gli occhiali neri, dei tedeschi. Ritmo, efficienza, volontà di ferro. Oggi brasiliani così ce li sogniamo. Peccato, è stato bellissimo.