Negli anni Ottanta la Roma rappresentava l’esempio virtuoso di un club attento ai giovani che potevano garantire un futuro importante alla prima squadra. All’epoca il concetto di sostenibilità non era ancora apparso nei manuali di gestione aziendale e nei principi ai quali doversi aggrappare per cercare di salvare il mondo ma, di fatto, era quello che la società giallorossa metteva in pratica prestando cura e attenzione allo sviluppo dei suoi ragazzi che, molto spesso radicati nel territorio, garantivano anche un senso di appartenenza altrimenti difficile da inculcare. Dei prodotti di quella florida scuola che un ex calciatore tosto e di successo come Romeo Benetti riuscì a rifinire, faceva parte Stefano Desideri, romano classe 1965, che con i giallorossi del 1983 aveva già cominciato ad allenarsi occasionalmente quando mister Liedholm voleva dare un’occhiata ai possibili talenti della Roma del futuro.
Da Liedholm a Eriksson
Campione d’Italia con la Primavera nel 1984, prima di fare il grande passo dell’esordio con i grandi, Desideri dovette andare in prestito al Piacenza per crescere in consapevolezza ed esperienza. Del resto, la Roma di metà anni Ottanta duellava ai vertici del campionato e l’inserimento in prima squadra, al netto di eccezioni giustificate da doti decisamente sopra la norma, era un passaggio che andava ben calibrato per evitare che un talento in erba fosse travolto dagli eccessi del professionismo e della conseguente popolarità. In C1 Stefano fece la sua parte tanto che, nell’estate del 1985, la Roma lo richiamò alla base, dove ritrovò tre compagni con cui aveva condiviso la vittoria del tricolore Primavera: Giannini, Gregori e Impallomeni. Eriksson, che allenava quella squadra, ai giovani dava fiducia e, una volta superato il periodo di integrazione con i titolari, cominciò a fare affidamento su di lui, soprattutto in occasione delle partite di Coppa Italia, competizione nella quale Desideri collezionò nove presenze e tre reti, l’ultima delle quali nella finale di ritorno contro la Sampdoria che sbloccò il risultato.
Le doti tecniche di Stefano Desideri
“Cicciobello”, come qualcuno lo aveva soprannominato per via della conformazione ampia del viso, aveva rotto la crisalide. Non era più solo un buon prospetto ma un calciatore vero, pronto a percorrere i campi tempestosi della serie A. Del resto, di qualità ne aveva diverse: normodotato, faceva della corsa in ogni angolo del campo una dote essenziale del suo gioco, essendo un centrocampista centrale in grado di contrastare bene e di impostare. Disponibile, all’occorrenza, a spostarsi sulla fascia, dove sapeva calibrare cross dentro l’area sui quali potevano avventarsi i compagni dell’attacco. Il suo fondamentale distintivo era il tiro dalla distanza: quando arrivava ai venti metri, se c’era un minimo spiraglio, Desideri spostava in avanti il peso del corpo e caricava di collo pieno traiettorie che, in buona percentuale, trovavano lo specchio della porta. Inoltre, vista l’intelligenza tattica, riusciva a farsi trovare pronto sotto porta con colpi di testa puntuali, frutto non tanto dell’altezza o di spiccate doti acrobatiche, quanto della capacità di inserirsi nei varchi delle difese avversarie scegliendo i tempi e gli spazi giusti. Caratteristiche da centrocampista completo, bravo a cucire gioco, inserirsi in attacco e, all’occorrenza, ripiegare in difesa, tanto da essere talvolta impiegato nel ruolo di libero: accadde durante i cinque anni di militanza nell’Udinese (1992-1997).
L’addio alla Roma: Inter e Udinese
Seppur figlio di Roma, Desideri, a ventisei anni, si trovò nelle condizioni di dover lasciare la Capitale. I giallorossi, passati da pochi mesi nelle mani di Ciarrapico, avevano bisogno di incassare denaro e, per farlo, spinsero Stefano nelle braccia dell’Inter, nonostante la sua volontà contraria. Erano altri tempi: la legge Bosman non esisteva e i procuratori non avevano il potere di cui dispongono oggi. Desideri, che fino a quel momento aveva vissuto per la Roma, capì quanto poteva saper di sale lo pane altrui. A Milano non si ambientò mai veramente, in una squadra che doveva metabolizzare l’addio di Trapattoni e assorbire i nuovi metodi di Orrico. Transizione fallimentare, certificata con il cambio in corso di stagione dell’allenatore e l’arrivo sulla panchina nerazzurra di Luisito Suarez, mostro sacro della grande Inter di Herrera con cui, però, non arrivò il giusto feeling. Col tecnico spagnolo, Desideri si rese protagonista di uno spiacevole episodio immortalato dalle telecamere e visto da tutta Italia: una “dedica” scomposta che tracimò nell’insulto dopo un suo gol, quello che, il 15 marzo 1992, permise ai nerazzurri di raggiungere il pareggio a Napoli. I provvedimenti disciplinari che ne conseguirono (una multa di venti milioni di lire e la messa fuori rosa per un turno) anticiparono l’addio che si consumerà a novembre della stagione successiva. Iniziò, così, un nuovo capitolo a Udine, l’ultimo di rilievo prima di giocare gli ultimi sei mesi da professionista nel 1998 a Livorno, in serie C1. Cinque anni tra alti e bassi, un gol all’Olimpico contro la Roma nel 1993 che garantisce ai friulani lo spareggio per rimanere in serie A e una qualificazione in Coppa Uefa, la prima nella storia dei bianconeri, celebrata con una roboante vittoria in trasferta (0-3) proprio contro la Roma all’ultima giornata del campionato 1996-97.
La Nazionale
Il capitolo Nazionale, invece, per Stefano non si aprì mai. Nonostante avesse giocato con l’Under 21 di Vicini (suo, nel 1986, uno dei tre rigori sbagliati dagli azzurrini che portarono la Spagna a vincere l’Europeo di categoria) e avesse partecipato alla spedizione olimpica del 1988 a Seul, uno spazio nel centrocampo della selezione maggiore non riuscì mai a ritagliarselo. “Colpa” della qualità della concorrenza, che in quegli anni permetteva all’Italia di non guardare alle competizioni internazionali con i tremori e il senso di inadeguatezza con cui oggi affronta anche un semplice girone di qualificazione ai Mondiali.