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Osvaldo Bagnoli: 90 anni di onestà, pressing e filosofia operaia

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Dal fumo della Bovisa allo scudetto col Verona, passando per l’Europa con il Genoa: il racconto di un uomo che ha messo l’idea prima del nome, la squadra prima del personaggio

Gianni Brera lo chiamava "Schopenhauer", più che altro per l'espressione del volto, sulla quale il sorriso si faceva largo a fatica, apparendo più che altro come una specie di contrazione involontaria dei muscoli facciali. Anche quando Gian Piero Galeazzi, al termine di quello storico Atalanta-Verona del 12 maggio 1985, mentre i cori dei tifosi scaligeri soffiavano il Tricolore fin sulla sponda dell'Adige, lo avvicinò per complimentarsi, il più euforico dei due sembrava essere il popolare "Bisteccone"; lui no: lui appariva imperturbabile pur grondando soddisfazione per una delle imprese più impensabili nella storia della nostra Serie A. Soltanto quando i suoi giocatori lo presero in spalla per portarlo sotto un settore ospiti in delirio, si concesse un (mezzo) sorriso. Osvaldo Bagnoli, novant'anni oggi; quasi un secolo di cultura del lavoro, di concretezza che secondo quelli come lui arriva più lontano dei sogni e persino della fortuna.

Il calcio serio di Osvaldo Bagnoli

Venuto al mondo il 3 luglio del 1935 nel quartiere Bovisa, in quella porzione di Milano in cui alla foschia naturale si mescolava il fumo degli stabilimenti, sotto la cui coltre si addensava la fatica di tutti quelli che, di busta paga in busta paga, a ogni sirena di fine turno tentavano di immaginare i loro figli che sarebbero usciti ogni giorno da una scuola. Un naso pronunciato piantato al centro di un viso che sarebbe stato sempre una maschera d'austerità; due occhi come due spilli a esemplificare una soglia d'attenzione sempre esercitata al massimo grado, con quella cura del particolare innata in chi sin dalla nascita mette in pratica quella specie di memoria genetica che impone di badare al sodo come unica possibilità di combinare qualcosa di buono nella vita. Era chiaro che uno così, anche quando gli sarebbero piovuti addosso i lauti guadagni che già alla sua epoca il calcio garantiva, non si sarebbe mai considerato ricco, ma sempre e soltanto un povero con tanti soldi in banca, gestiti con la stessa cura e lo stesso criterio di chi protegge un gol di vantaggio in trasferta, magari su calcio d'angolo in una piovosa domenica di novembre. Forse segnato da un nerboruto stopper tedesco, capace all'occorrenza di agire da mediano, o da un irriducibile attaccante danese, scelti con criterio negli stessi giorni in cui gli altri potevano concedersi i Maradona o i Rummenigge. Si sbagliava di grosso chi nel calcio espresso dalle sue squadre vedeva l'atteggiamento sparagnino tipico dei profeti del catenaccio: le squadre di Osvaldo Bagnoli praticavano un gioco che era un inno all'organizzazione, con e senza palla, sulla scia dei Marchioro e dei Radice, profeti autentici che mai si erano considerati tali, così come lui mai deve aver avuto la vanità di dire bravo a se stesso, davanti allo specchio.

Bagnoli e lo scudetto col Verona 

Da calciatore, rapido e sgusciante, aveva cominciato facendo l'ala, per poi giocare più tra le linee e infine arretrare fino a trovare la collocazione naturale da mediano: più geometra attento che portatore d'acqua. Operaio sì, ma specializzato. Uno scudetto con il Milan, nel 1957, poi tanta provincia: Verona già da giocatore, Udine, Catanzaro, Ferrara con una storica promozione in Serie A, nel '65. Si era predisposto, con saggia soddisfazione, a un dopo carriera da rilegatore alla Mondadori, ma quando a Verbania lo videro lavorare da allenatore-giocatore, gli altri prima di lui capirono che sarebbe stato un fior di tecnico, a cominciare da Pippo Marchioro che lo volle come secondo al Como. Il resto, dopo non molte stagioni, è storia: non solo quella di uno scudetto epocale vinto a Verona con un'ossatura costituita dagli "scarti" altrui (Garella, Marangon, Galderisi, Fanna, Tricella) e un fior di regista giovane come Di Gennaro, accanto ai quali lui e il presidente Guidotti misero Briegel ed Elkjaer.

Bagnoli al Genoa e il no di Berlusconi per la panchina del Milan

Anche quella del Genoa più memorabile del Dopoguerra, all'inizio degli anni Novanta, quarto in campionato e l'anno seguente semifinalista di Coppa UEFA, arresosi all'Ajax dopo aver eliminato il Liverpool ammutolendo Anfield Road. Silvio Berlusconi aveva pensato a lui per il Milan del dopo-Sacchi: non lo scelse in quanto lo definì "troppo di sinistra". In realtà troppo poco, perché Bagnoli è sempre stato comunista, per convinzione e per estrazione naturale. In novant'anni di vita, il maggior pregio dell'uomo è sempre stato quello di non aver mai mutato l'angolazione del suo sguardo sull'esistenza; sempre senza mai farsi chiudere alle spalle il lucchetto di quella gabbia dorata che è il mondo del calcio; ben sapendo degli sgambetti in cui la sorte può far inciampare anche l'uomo di successo e sempre sapendolo spiegare, ogni giorno, a sua figlia Monica, non vedente dalla nascita. Se Osvaldo Bagnoli fosse uno di quelli che si guardano indietro, in questi novant'anni di pioggia, vento e stridore di tacchetti ritroverebbe tutta la gratitudine di quelli che hanno avuto la fortuna di essere stati suoi giocatori, dirigenti, tifosi. Sorriderebbe anche Schopenhauer.