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Armando Picchi, capitano per sempre

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Grandissimo libero e leader della "Grande Inter" degli anni Sessanta, sempre in rotta con Helenio Herrera e sempre confermato da Angelo Moratti, morì quando stava per intraprendere una promettente carriera da allenatore, alla Juventus, a nemmeno 36 anni

Capitano mio capitano, Armando Picchi la fascia sembrava indossarla da sempre. Aveva tutto per essere il leader di una squadra: ultimo baluardo della difesa, interventi sempre puliti anche nei momenti più difficili, un volto segnato da tante battaglie, il lungo elenco di successi soprattutto con l'Inter, la "Grande Inter" degli anni Sessanta, quella delle due Coppe dei Campioni consecutive. Un mito in campo diventato ancora più amato dopo la morte prematura, nel 1971, a nemmeno 36 anni, quando gli si stava aprendo all'orizzonte una seconda carriera, quella da allenatore.

Armando Picchi, livornese

Livornese del "Gabbione", una specialità calcistica che va per la maggiore soprattutto nella città toscana, sentendo il rumore delle onde e respirando l'odore del mare. Ci si affina lì, tecnica e grinta, non è per tutti: Massimiliano Allegri ne sa qualcosa. Armando Picchi cresce lì, livornese purosangue appunto, un fratello Leo pure lui appassionato di pallone, ma che dedicherà la sua vita alla medicina. Buonissima tecnica, paura di niente e di nessuno, un innato senso della leadership. Gli inizi sotto casa, al Livorno, da terzino destro più che altro, prima del passaggio alla Spal. Ha 25 anni quando arriva all'Inter, nel 1960: Helenio Herrera non è ancora l'allenatore e con il "Mago" i rapporti saranno sempre tendenti al pessimo: ogni estate in cima alla lista delle cessioni di HH c'è Picchi, ma Angelo Moratti trova sempre una scusa per non venderlo.

E allora Armando rimane, sempre più leader, non più terzino destro ma libero, maglia numero 6 dopo lo stopper Guarneri in una difesa leggendaria che conta anche Burgnich e Facchetti, quelli della filastrocca che comincia con Sarti, il portiere. Non è un colosso, Picchi, ma è l'ultimo baluardo, in certi casi extra-campo anche sindacalista. Quando il gol sembra arrivare eccolo che spunta con un intervento tempestivo che fa ripartire il contropiede. I tifosi impazziscono, certi critici no, troppo difensivo quel gioco dell'Inter, troppo "all'italiana", e infatti Armando in Nazionale pagherà l'essere rappresentante di una filosofia che cozza con altre. Per lui infatti, capitano di una delle migliori squadre al mondo dell'epoca, nemmeno una presenza né al Mondiale del 1962 né a quello del 1966. Sono anni in cui solleva trofei uno dopo l'altro, da capitano è il primo a farlo per i nerazzurri: la Coppa Campioni nel 1964 battendo il leggendario Real Madrid, nel 1965 a San Siro sotto la pioggia l'1-0 al Benfica. Più due Intercontinentali, naturalmente.

La tragica e prematura morte

Alla fine, è il 1967, l'Inter cede Picchi al Varese. Non lontano dalla sua nuova casa, la Milano diventata potenza industriale, quella del boom economico. Lo danno forse per finito, ma in provincia Armando continua a fare il leader e con il Varese ritrova addirittura la Nazionale, nonostante l'età avanzata. Capitano mio capitano, baluardo coraggioso, chiude la carriera di fatto in azzurro dopo un terribile infortunio in Bulgaria: frattura del pube in una sconfitta peraltro, 3-2. Allenatore in campo, allenatore vero in panchina: questo è il suo destino.

Se ne accorge la Juventus nel 1970 quando lo sceglie per allevare la nidiata di giovani talenti rastrellati qua e là per l'Italia: Bettega, Capello, Causio, Furino, Anastasi e compagnia. Picchi ha 35 anni e ha già diretto, in emergenza, il Varese e il suo Livorno in B. Poche partite, sufficienti a chi di dovere per capire. Il destino però è terribile, ingiusto. All'inizio del 1971, con la Juventus nelle prime posizioni della classifica, inizia ad avere dei terribili dolori alla schiena. Dà la colpa forse agli strapazzi per curare la moglie costretta in ospedale dopo il parto del secondo figlio, ma invece è un tumore alla colonna vertebrale senza possibilità di cure.

Viene sostituito in corsa da Cestmir Vycpalek, allenatore delle giovanili, e inizia un trattamento inutile e disperato, con operazioni chirurgiche invadenti e il ricorso a pratiche yoga. Si spegne in una clinica sopra Sanremo a nemmeno 36 anni, mentre la sua Juventus sta per disputare la finale di Coppa delle Fiere con il Leeds. Nessuno dei suoi ragazzi sa della tragica notizia. Lo stadio di Livorno porta il suo nome, il calcio italiano non si è mai dimenticato di questo capitano vero, questo "Penna Bianca", come un capo indiano, il soprannome che gli diede Gianni Brera