Nel grande album del Napoli anni Settanta, tra Savoldi e Chiarugi, tra illusioni tricolori e finali di Coppa Italia, c’è un nome che ogni tanto riaffiora come un profumo d’estate: Antonio Capone. Non fu una meteora, non fu un eroe. Ma in mezzo, tra quei due estremi, trovò il suo spazio. Un posto da comprimario di lusso, da attaccante che quando partiva palla al piede sembrava avere una missione.
Prima di Maradona
Capone ha vissuto cinque stagioni in azzurro, in un’epoca che oscillava tra la fine del sogno viniciano e la speranza rinnovata portata da Gianni Di Marzio, uno che con i giovani ci sapeva fare. Non a caso sarà lui a parlare per primo, in Italia, di un certo Diego Armando Maradona. Ma prima, c’era stato Capone. Nato e cresciuto nel calcio di provincia, dalla Salernitana all’Avellino, Capone si costruisce una reputazione: ha fame, ha gamba, ha senso del gol. I suoi 9 centri in 31 gare in Serie B con i Lupi irpini nella stagione 1976-77 convincono Di Marzio a portarlo al Napoli. L’impatto con la Serie A non è semplice, ma la stagione in chiaroscuro di Chiarugi e Massa gli apre uno spiraglio. E Antonio lo sfrutta.
Il 22 gennaio 1978 diventa la sua data. San Siro, Milan-Napoli. Una partita scorbutica, con poche occasioni. Ma Capone è ovunque: corre, strappa, punge. Al 52’ Morini lo strattona in area: rigore netto. Savoldi trasforma con un bolide che bacia il palo e si infila in rete. Il Napoli sbanca Milano e la Gazzetta dello Sport, sotto la penna illustre di Gianni Brera, titola: “Undici polli e un Cap(p)one.” Quel soprannome tra parentesi è una carezza, un’investitura affettuosa. In quell’azione c’è tutta la sua carriera: scatti, folate, coraggio. Capone non fu un attaccante da cifre esorbitanti, ma quando c’era da accendersi, non si tirava mai indietro. Segnò una doppietta alla Lazio in campionato, una tripletta al Taranto in Coppa Italia.
Era il Napoli che arrivò in finale a Roma contro l’Inter, e anche se il trofeo sfuggì, Capone lasciò il segno. Poi tornò a svernare dove tutto era cominciato, ad Avellino. Come certi romanzi brevi che restano incisi per una scena sola, Antonio Capone resterà per sempre l’indiavolato di San Siro, quello che mandò in tilt il Milan a casa sua. Una promessa mantenuta a metà, ma abbastanza per non essere dimenticato.