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Carlo Mazzone, il papà del calcio italiano

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Ci ha lasciato a 86 anni uno degli ultimi volti del calcio romantico: l'importanza di Sor Carletto travalica i confini tra tifoserie, amato ovunque, una perdita immensa

Aneddotica sterminata di un pezzo d’uomo che ha masticato calcio d’ogni livello e categoria e forse per questo ha sempre saputo rapportarsi con i più grandi con i quali è venuto a contatto. Carletto Mazzone costituisce, da solo, un volume della grande enciclopedia del calcio italiano, lui che è stato un marcatore ruvido, mestierante della difesa in un’epoca in cui lontano dalle sparute telecamere ogni area di rigore era trincea, per poi diventare un allenatore che nel corso dei decenni avrebbe navigato di cabotaggio tra categorie e città di varia grandezza, tra province e aree quasi metropolitane, tra scarponi e fuoriclasse di livello mondiale, tutti grati al destino, questi ultimi, per aver vissuto una parte del loro cammino sotto la sua guida. Andate a chiedere ad Antognoni, Guardiola, Totti, Toni, Pirlo, Baggio e tanti altri chi sia stato per loro Carlo Mazzone, se riusciranno a non commuoversi.

Mazzone e Mamma Roma

Romano di quelli che l’accento lo hanno trasfuso fin nei lineamenti del viso; verace in modo inversamente proporzionale al nulla di sbruffoneria che era incapace di ostentare; romanista viscerale che la Roma ha incrociato tanto più spesso da rispettato avversario che da giocatore o allenatore, lui che fece parte delle giovanili giallorosse e poi della rosa della prima squadra per una stagione da due sole presenze; che poi la Roma ha guidato in panchina dal 1993 al 1996, in una fase di transizione tra l’anonimato e la grandezza, in cui la presidenza di Franco Sensi aveva portato già in dote i Thern, Aldair, Balbo, Fonseca a corredare la regia di Giuseppe Giannini, con un Totti fulmineamente passato da fiore in boccio a protagonista indiscutibile.

I meriti del tecnico

La sua veracità e la sua burbera simpatia, cartine di tornasole di una traboccante umanità, è sacrosanto che restino indelebili. Sarebbe però un’ingiustizia se oscurassero i suoi meriti di tecnico capace di ottimizzare sempre in modo redditizio il materiale umano che ha avuto a disposizione, grazie al suo calcio pragmatico ma non in senso rinunciatario, perché altrimenti tanti fuoriclasse non avrebbero viste esaltate le loro doti come invece è regolarmente accaduto in più epoche. Tecnico di provincia? Altra cartolina di un limitante stereotipo: Mazzone ha allenato a Firenze, Bologna, Napoli oltre che a Roma. Terzo con la Viola nel ‘77, dietro a Juventus e Torino, capace di riportare la Roma in Coppa Uefa, ai tempi qualificazione molto più ristretta e proibitiva dell’attuale Europa League. Come calciatore aveva chiuso ad Ascoli, quando la squadra si chiamava ancora “Del Duca Ascoli” nel 1969 e senza soluzione di continuità lì si era fermato ad allenare, tornandoci a più riprese e lasciando indelebili ricordi di una Serie A abitata stabilmente dai bianconeri marchigiani quando la categoria era già frequentata dai Falcão e dai Platini e si apprestava a ospitare Zico, Maradona e tutti gli altri, ai tempi in cui non occorreva fare le nozze con i fichi secchi, al calcio italiano. Lui, all’occorrenza, era in grado di fare anche quello. Assieme al presidente Costantino Rozzi avevano edificato un granitico blocco tecnico – dirigenziale, improntato alla saggezza gestionale e ripagato dalla continuità ai massimi livelli. Ad Ascoli era poi rimasto a vivere, nonostante il suo peregrinare di panchina in panchina, di salvezza in salvezza, di gratitudine in gratitudine da parte di ogni tifoseria che lo abbia avuto alla guida. Dalla sua casa di Ascoli oggi ha salutato la vita, provocando una commozione unanime, senza distinguo di appartenenze o vecchie rivalità.

L'ultimo del calcio romantico

Favole da massima categoria, dicevamo, oggi forse improponibili e irrealizzabili, come l’indimenticabile Catanzaro a cavallo tra fine anni Settanta e inizio anni Ottanta, quello spinto quasi oltre la metà della classifica dai gol del mitico Massimo Palanca, che ancora oggi ricorda che tra i tanti allenatori avuti Mazzone è stato per lui il più importante, oltre che il più bravo. L’omone in tuta, con il naso aquilino e gli occhi come punture di spillo, con i modi che trasudavano confidenza anche per chi non lo aveva mai incrociato dal vivo, per noi è ancora lì, in piedi davanti alla panchina, che urla e agita il pugno, con tutta la sua ruvida saggezza, con il suo accento romanesco indelebile divenuto esperanto di cento città e di mille panchine, con il suo disincanto mescolato alla perizia tattica e motivazionale. Con il suo grande cuore.