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La nuova Germania

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Tra le favorite per status, per appartenenza alla nobilitate del calcio, perché è la storia a raccontarlo e in una grande competizione, Mondiale o Europeo, difficilmente resta fuori dalle big-four. Di solito, però, secondo uno standard ben delineato, con dei parametri riconoscibili che poco hanno lasciato, nel corso del secolo calcistico, a interpretazioni discostanti dal proprio modello. Dal primo trionfo del ’54 all’ultimo targato Italia ’90, la Germania ha scandito successi e sconfitte di prestigio, al ritmo dei panzer. Privilegiando la sostanza allo spettacolo, con l’obiettivo del risultato. Che quando si tratta di un Mondiale, per esempio, non è poi una filosofia così malvagia. A parte alcuni colpi a vuoto dopo la sbornia di Roma contro l’Argentina di Maradona, i tedeschi, ripartendo di slancio, con un’oculata opera di sviluppo giovanile, calcisticamente parlando, e sociale, hanno riconquistato il proprio posto. Attingendo dagli altri popoli, come i grandi esploratori, con un approccio cosmopolita e all’avanguardia. Un modus operandi che, in particolare negli ultimi anni, ha fortemente modificato lo stereotipo teutonico a cui da sempre era abituato il mondo. E il cambio di pelle dell’attuale Germania si sta consacrando proprio nel Mondiale brasiliano, nel corso del quale, per la prima volta, stiamo osservando la più “totale” delle formazioni tedesche, volendo usare un termine coniato negli anni ’70. La squadra di Loew sembra la figlia grande del Borussia Dortmund o del Bayern di Monaco, che hanno dato seguito al quel concetto di calcio che circa quarant’anni fa vestiva di arancione e che, negli anni a venire ha trovato terreno assai fertile in terra spagnola, sponda catalana. Un paragone importante, ma che trova conferma nel modulo, negli uomini e nell’interpretazione. Il quattro-tre-tre senza vere punte di ruolo proposto nelle prime gare ne è l’emblema, con Muller, Gotze e Ozil a servizio alterno dello spazio. Centravanti a rotazione, intercambiabili e supportati dall’ordine di Lahm davanti alla difesa e due mezzali, una di regia (Kroos), l’altra di sostanza (Khedira). Alle loro spalle un gran portiere dai piedi buoni e una difesa che, nell’economia generale, appare il reparto meno qualitativo. Poco importa, sembra, perché la Germania rocciosa di ieri è un ricordo lontano che ha lasciato spazio a un team di fiorettisti che prediligono la manovra. Possesso palla, inserimenti e sovrapposizioni, con la spinta dei terzini a spalleggiare i tre davanti liberi di inventare in funzione del collettivo. Molto orange o rojo, per attualizzarlo un po’, al punto di concedere opportunità anche a un ottimo Ghana e a compromettere una gara due che avrebbe ulteriormente equilibrato il girone. Poi, dal momento che di pallone si tratta, e non del ’68, qualche traccia tedesca è rimasta: un po’ di sano pragmatismo e partita riaddrizzata anche con un calcio d’angolo. Meno spettacolare rispetto a un ricamo a centrocampo, ma non meno valido se vale il due a due. Fabrizio Tanzilli