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La ribellione di Genova

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Il grottesco balletto intorno all'orario di Genoa-Sampdoria ha ricordato una volta di più che il calcio senza tifosi veri non può esistere. Nemmeno nella sua versione televisiva, non fosse altro che per motivi coreografico-spettacolari. Il prossimo turno di serie A è toccato al derby di Genova il discutibile onore di essere collocato la domenica alle 12 e 30, orario ideale per il mercato asiatico: come è noto, la Cina è piena di Palombo fan club o di cultori di Gilardino (o meglio: chi scrive di default 'due miliardi di telespettatori' pensa questo). Scelta che non è piaciuta ai tifosi delle due squadre, non solo alle curve, al punto che si sono moltiplicati gli appelli per una clamorosa protesta che punterebbe ad un Marasssi semivuoto in occasione della partita più importante dell'anno, per lanciare un segnale alla Lega, ai rispettivi presidenti di club e in generale ad un mondo del calcio che si è ormai rassegnato a questa deriva pantofolaia e da 'entertainment', quando il calcio è tutto tranne che uno spettacolo (ce ne vengono in mente cento migliori). Non è certo la prima partita importante che si gioca alle 12 e 30, ma il momento di questa protesta non è stato scelto a caso. La stagione 2013-14 è stata infatti quella della demonizzazione definitiva del tifo da stadio: con le ridicole squalifiche degli stadi o di particolari settori per cori fatti da dieci cretini e udibili solo con l'Amplifon, con la reiterazione della tessera del tifoso (sembra studiata apposta per allontanare lo spettatore occasionale), con l'inasprimento di provvedimenti come il Daspo, a volte presi sulla base della simpatia di una faccia. Non è un mistero il fatto che alcune tifoserie organizzate stiano pensando di autosciogliersi a fine stagione, come da disegno di Lega Calcio e dei principali partiti, obnubilati dal 'modello inglese'. Il problema vero è che in molte realtà (non certo a Genova, comunque) senza la tifoseria organizzata negli stadi sembrerebbe di giocare a porte chiuse. Non è insomma che cacciando i ceti popolari, base del pubblico da stadio, automaticamente i fantomatici nuovi impianti (Juventus a parte, non è stata posata la prima pietra da alcun altro grande club) si riempiranno di consumatori, magari raggruppati in famiglie di 4 persone, desiderosi di spendere 600 euro in un pomeriggio fra biglietti, pranzi, merchandising ufficiale, eccetera. Ma questo importa fino a un certo punto, visto che nei bilanci attuali i ricavi da stadio pesano per circa il 15% sul totale dei ricavi. Un calcio che si è consegnato nelle mani delle televisioni pensa quindi di poter fare a meno del pubblico vero, quello che ha costruito il suo successo e che viveva la partita come un rito intoccabile. Dipendeva dalla contemporaneità delle partite? Ce lo chiediamo, a costo di passare per nostalgici. La risposta è 'anche'. Speriamo che la ribellione di Genova, pacifica nei modi ma dura nei contenuti, serva almeno a far riflettere chi in Lega sta pensando a nuovi prodotti da vendere: da quello del sabato a quello della domenica alle 18, sorvolando sull'ipotesi del Monday Night (altra scopiazzatura da poveracci) con in campo obbligatoriamente una squadra di nome. Di sicuro scuoterà qualche coscienza intorpidita dal telecomando.